Coltiviamo per tutti un rancore
che ha l’odore del sangue rappreso,
ciò che allora chiamammo dolore
è soltanto un discorso sospeso.
– Fabrizio De Andrè, La Ballata degli impiccati.
Coltiviamo per tutti un rancore
che ha l’odore del sangue rappreso,
ciò che allora chiamammo dolore
è soltanto un discorso sospeso.
– Fabrizio De Andrè, La Ballata degli impiccati.
È lu putiri ca nforza li putenti,
è lu silenziu ca ammazza li ‘nnuccenti,
grapu li pugna, cuntu li jita
restu cu sugnu, cercu la vita.
Rosa Balistreri, Rosa canta e cunta
Riproponiamo, a quasi un anno di distanza, questo articolo. Oggi, proprio oggi. Per ricordare Paolo e gli agenti della scorta. Dall’anno scorso poco è cambiato…Se non il fatto che “Eufemia” è tornata a Palermo, ma senza guarire dalla sua nostalgia. Palermo ti riempie di nostalgia di sé anche e sopratutto se ci vivi dentro.
In attesa di verità e giustizia.
Ciao Agnese. Scrivere, riflettere, adesso, condividere a poche ore dalla tua morte, è l’idea peggiore che potessi avere. Di parole ne verrano, moltissime, alcune, la maggior parte, sincere e tanto tanto più autorevoli delle mie, alcune di circostanza, di quelle che da viva hai cercato di farti scivolare addosso rendendoti imperbeabile con la vernice lucida e trasparente del silenzio e della discrezione.
La notizia della tua morte ha destato in me profondo senso di solitudine misto a quel sollievo che accompagna l’animo quando le cose si rimettono a posto. Adesso accanto all’uomo che hai amato in vita e che questa vita ha strappato via da te e dai tuoi figli, sei nuovamente a casa. L’ingiustizia, l’assenza violenta di chi amiamo, è ciò che rende l’uomo clandestino in vita, rifugiato, senza patria .
Io non ho nessuna autorità nè competenza per scriverti. L’unica cosa che mi accomuna a te è il sangue. Sangue misto il nostro. Sangue mescolato tra popoli, si sa. Sangue versato. Il sangue nostro, mischiato a quello appiccicato alla strada, quello che macchia l’asfalto e resta lì. Fino a quando non costruiscono una lapide a perpetuo oblio. Sangue misto di vittime e di mafia. Che la prima antimafia noi siciliani la viviamo tra cervello e coscienza, lì dove si annidono le uova velenose di una cultura malata.
Agnese, quando hanno ucciso Paolo io avevo 12 anni. L’indomani mi aspettava un viaggio in macchina verso la casa al mare, le vacanze, i giochi. Mi sono preparata per quel viaggio come si preparano i bambini, ma sono arrivata alla meta del viaggio lasciando a casa l’infanzia, lì davanti alle immagini di Via d’Amelio. Quando è morto Paolo io non lo sapevo chi fosse il giudice Borsellino. Avevo conosciuto da poco Giovanni Falcone, lo avevo conosciuto attraverso le lamiere contorte della sua auto e polvere di tritolo e autostrada. Paolo Borsellino è entrato nella mia storia quel 19 luglio, quando un boato ci portò in balcone e una colonna di fumo non troppo lontana tese i lineamenti sul volto dei grandi. Aspettammo davanti alla televisione la notizia che già le nostre orecchie e i nostri occhi avevano compreso, ma non accetato. Davanti a quella diretta surreale, smarrimento. Io cosa fosse successo fino in fondo non lo avevo capito. Quello che potevo capire, però, erano gli occhi rossi di papà e quella frase a bassa voce uscita da labbra immobili per il dolore: “matri mia, ma in guerra semu!“. L’immagine di lui ai miei occhi il forte per eccellenza, così costernato, addolorato, impaurito mi fecero diventare grande in fretta, capii che da una vicenda come quella non poteva difendermi nessuno, neppure lui. Di mafia potevo morire anche io, potevamo morire tutti.
Di quei giorni non riesco a scordare il silenzio. I miei stavano in silenzio. Arrivata al mare mi sembrò che anche la spiaggia stesse in silenzio. Si leggevano i giornali. E si stava in silenzio. Al ritorno dalle vacanze, quando i miei uscivano da casa io piangevo, di nascosto. Avevo paura che scoppiasse una bomba, avevo paura che sarebbero morti, che non avrebbero fatto ritorno. Fatti a pezzi, dalla mafia. Quando uscivo con mamma per fare la spesa passavo accanto ai carri armati inviati dallo Stato, e guardando quei giovani soldati con i fucili in mano, sicura io, con tutto il rispetto per lo Stato, non mi sentivo per niente.
Tante volte ho pensato a te e ai tuoi figli. Tante volte, crescendo, davanti ai miei occhi quella colonna di fumo e quel silenzio sono tornati a trovarmi. No io non ho niente in comune con te e con la tua famiglia, non vanto nessuna lotta alla mafia, nessuno impegno civile pubblico. Io neppure vivo più a Palermo! Sono andata via per cercare lavoro, per provare a trovare me stessa. Ma da Palermo ti puoi allontanare geograficamente non certo interiormente. Palermo abita le persone non sono le persone ad abitare Palermo.
La solitudine, la rabbia che ha abitato la vostra vita io come faccio ad immaginarla, io che ne so? Cosa ne so di quanto difficili da allora sono stati i vostri giorni, come sono passati i compleanni dei ragazzi, i vostri anniversari, le cene di Natale. Io che ne so. Cosa può essere stata la tua vita dopo quel boato e quella colonna di fumo nero non lo so, non possiamo saperlo e non dobbiamo fare finta di poterlo comprendere. Perchè la finta comprensione del dolore è assai più feroce dell’indifferenza.
Io oggi voglio solo ringraziarti per esserci stata. Ringraziati per la capacità di comprendere quando tacere e quando parlare, ti voglio ringraziare per aver cresciuto i tuoi figli, per esserti sottratta al gioco ambiguo di certa stampa, delle celebrazioni di massa. Ringraziarti per le domeniche pomeriggio passate a combattere solitudine e nostalgia, rabbia e dolore. E ti chiedo scusa, scusa per chi tace la verità sulla morte di tuo marito, ti chiedo scusa per tutte le volte che penso Palermo, i palermitani, la Sicilia, il Sud come luoghi dell’inevitabile, luoghi di una cultura perversa e irreversibile, luoghi malati di un cancro inguaribile. Ti chiedo scusa per quando davanti a questo mostro fatto di economia iniqua, politica corrotta, società sfaldata, mi siedo pensando che quello che sono e quello che voglio non è abbastanza forte per sostenere la battaglia.
Nella lettera che hai scritto a Paolo per il ventesimo anniversario della sua morte ricordi le sue parole ai giovani, parole di lotta, di speranza, di fedeltà. Ricordi che la fine imminente lucidamente attesa non gli ha impedito di compiere fino alla fine il suo dovere, dovere che era per lui una sola cosa con il suo volere, a dimostrazione che la morte è davvero fatto marginale nella storia degli uomini realmente viventi. In quella stessa lettera dici di esserti sentita madre di molti, di coloro che si sanno riuniti da Nord a Sud nel ricordo di Paolo. Io ti prometto Agnese di non deporre le armi. Di cercare dentro ad ogni cosa che farò e che sarò la forza, la voglia di rimanere fedele al bene e alla giustizia.
Riposa in pace. Sostenuta insieme al tuo Paolo, prima di tutto dall’amore dei tuoi figli e poi anche dal nostro, così debole e zoppo, piccolo e impaurito. Adesso che da dove ti trovi conosci la verità e riconosci il senso del tuo patire, sostienici in questa vita, con il tuo silenzio, con la tua presenza.
Ciao Agnese.
Giulia http://www.youtube.com/watch?v=daJG-BiNPZI