A me non piace il capodanno.
“Fine” e “inizio”, son troppo vicini.
Un solo secondo non è sufficiente a reggere il passaggio.
Forse per questo sentiamo il bisogno di stordirci con botti, musica e champagne. Speriamo che ci aiutino a sopportare lo strappo da quanto non sempre siamo pronti a lasciare, cerchiamo di nascondere lo sgomento per i 365 giorni che si presentano a noi del tutto sconosciuti e imprevedibili.
La malinconia si accentua, l’allegrezza diventa ubriacatura.
L’altra sera per strada ho visto una mamma ed un bambino molto piccolo che camminavano tenendosi per mano. Si sono avvicinati ad un signore anziano che aspettava di spalle, per strada. La donna ha toccato appena la spalla dell’anziano signore il quale girandosi e vedendo il bambino ha esultato di gioia! Il suo volto appesantito dall’età e dalla fatica si è trasformato in una festa di luce negli occhi e linee morbide di sorrisi. Poi si è piegato per baciare il bambino. Lo ha ha fatto con sforzo e dolore, giù giù fino al volto del bimbo per dargli un bacio, per fargli una carezza.
Quello è stato il mio capodanno.
In quei gesti ho trovato la lentezza del passaggio necessario al cambiamento, la fatica, la gioia. È il vecchio che si piega davanti al nuovo. Non il contrario. È il nuovo che giudica l’antico. Non il contrario.
Esistono processi inarrestabili. Ogni metamorfosi che inizia, giungerà al suo compimento.
Auguri bella gente.