Sono all’aeroporto. Vedo la gente.
Mi passa davanti con gli zaini sulle spalle e le valigie in mano. Si prepara a partire.
Partire ha un peso.
Il peso delle cose che vuoi portare con te o il peso della rinuncia, per le cose lasciate.
Più cose lasci, più la capacità di adattamento deve esser grande.
Più cose porti più si deve esser disposti a sopportare il peso, l’impiccio, la poca libertà d’azione.
Si deve esser viaggiatori esperti per dosare con saggezza peso e mancanza, oscillare più volte tra il troppo e il troppo poco per sentire di possedere il “giusto”.
Che poi, il “giusto”, non è uno e non è per sempre. No.
Dipende da dove si è diretti e per quanto tempo.
Il “giusto” è un’unità di misura liquida, prende la forma di ciò che sai in un momento preciso di un luogo preciso di un contesto preciso.
E così, quello che è “giusto” qui e adesso, non lo sarà più lì e dopo.
Qui. Dopo. Lì. Adesso.
Le coordinate della “giusta misura” si mischiano con la percezione di ciò che è necessario.
Cosa mi serve davvero?
A cosa posso rinunciare?
Ma anche: a cosa devo rinunciare perchè il mio essere qui, ora, sia della “giusta misura?”.
Viaggiare, partire è azione amata, stancante a volte, ma desiderata perchè da sempre il viaggio è metafora della ricerca di una vita che sia la nostra.
Forse è per questo che dietro al viaggiare troppo o troppo poco si nasconde una vita incapace di dosare necessità e giusta misura, una vita troppo pesante o priva del necessario.
Del viaggio non è la meta che si ama e neppure un luogo in cui tornare. Ciò che si ama è il tempo di mezzo, quel dimorare per un tempo indeterminato in un luogo indeterminato. In cielo, in terra, in mare esiste uno spazio privo di argini e di barriere nel quale ci si sente liberi di essere “informali”, senza forma, pura potenzialità in divenire.
Il viaggio è il rifugio di chi non ha trovato nella propria vita una sua dimora.
E’ il campo fertile di chi possiede i semi ma non ha la pazienza dell’attesa.
Il viaggio è il tocco leggero di chi fugge i legami. Occhi che si incrociano veloci. Abbracci senza radici.
Viaggiare troppo.
Viaggiare troppo poco è degli uomini di pietra. Di chi si lascia levigare, immobile, dal vento e dall’acqua,
di chi si fa formare o deformare senza resistenza se non quella del duro materiale di cui è fatto.
Chi viaggia poco ha la pazienza dello sguardo fisso, impara i particolari di un paesaggio e se ne nutre senza la nausea per quel cibo sempre uguale. Chi viaggia poco ha lo sguardo e lo stomaco di ferro.
Qui. Dopo. Lì. Adesso.
La gente mi passa davanti veloce e stanca, euforica e dormiente. Ognuno ha il suo bagaglio, un biglietto, una destinazione. E un tempo, il tempo di mezzo nel quale possiamo, provare almeno, a di-venire.