Nessun confine

Kasbah di Mazara del Vallo.

Kasbah di Mazara del Vallo.

In arabo confine si dice al hudud. L’ho imparato da poco. Ed ho capito ieri che saperlo non mi servirà a niente. Tra la Sicilia e l’Africa settentrionale il confine non esiste. Esiste una sponda, poi un tratto di mare, poi un’altra sponda.

Mi hanno spiegato che in Sicilia sono due le zolle che s’incontrano, la Sicilia è una terra mista. La val di Noto è d’Africa, il resto è d’Europa. E lì dove le due zolle provano da millenni a diventare una sola l’Etna si agita di fuoco e di potenza.
Da Mazara del Vallo la Tunisia dista 153 chilometri. Se ci fosse una strada al posto del mare potremmo andare e tornare da un altro continente in tre ore appena. Ma la strada non c’è. E noi restiamo quell’isola che spesso non vorremmo essere.

Mazara è una città bianca. E’ bianca di riflessi di luce sul mare e di intonaco fresco della Kasbah, il quartiere tunisino che da lì continua qui, sulla sponda opposta, come se fosse, compreso il mare, un’unica grande città, unita, uguale. Dove le sue stradine s’intrecciano e non arriva il frastuono del traffico i sussurri si amplificano come in passato le voci degli uomini antichi. Sui muri ogni ceramica racconta una storia di incontri, di colori, di vita condivisa tra le due sponde, fra innesti riusciti e conquiste di sangue. Non è facile la pace. E Mazara prova a dirlo in ogni modo possibile.

Per strada, di tanto in tanto, s’incontrano ragazzine adolescenti di lingua araba. Parlano velocemente, muovendo le mani e gli occhi come fanno le ragazze, mettendoci dentro tutta la vita in eccesso che portano in corpo e che cade al passaggio, come scia di terra verdeggiante. Sono gesti familiari in una lingua simile ma diversa, come ascoltare la propria voce senza capirne a fondo significato e suono. Io ho sorriso più volte, per quella mia pelle scura come la loro. I compagni a scuola mi prendevano in giro, perché sembravo tornare dal mare d’estate anche se era dicembre: “Ma chi sì tuicca?” (“Ma che sei turca?”), mi dicevano. Ma senza farmi male, perché io avevo la pelle di papà e tanto mi bastava per sentirmi al sicuro. Mamma, poi, mi spiegava che noi, i siciliani, siamo mescolati con il sangue degli arabi e io mi sentivo meticcia e felice.

Sul Porto Canale i pescherecci che restano sono il piccolo resto di un passato ben più glorioso. Li ha inghiottiti il mal governo, più feroce del mare in tempesta. La tempesta è nella sua natura e il mare la scatena senza poterne fare a meno; la mala politica, invece, tradisce se stessa e i diritti degli uomini che abbandona alla fame. Sembrava triste il porto così enorme, vuoto e fermo; la ruggine del rimorchiatore, le reti ammucchiate a prua, le vernici scrostate a cancellare i nomi delle imbarcazioni e le speranze di pesca. Sembrava una solenne cattedrale abbandonata dai fedeli e dai canti di gioia. Bellissima però, sempre e ancora bellissima.

Piazza della Repubblica, Mazara del Vallo. Foto di Carlo Columba.

Piazza della Repubblica, Mazara del Vallo. Foto di Carlo Columba.

La piazza di Mazara è un incanto: i palazzi hanno lo stesso colore della sabbia e le cupole sono verde smeraldo e brillano di sole. E’ ampia e mi è sembrata solida e festiva, anche se deserta e silenziosa. I bar  vendono i “vuccunieddi”, bocconi di pasta di mandorla ripieni di cedrata e avvolti nella carta d’argento, per farli luccicare forse, come il mare o come le cupole. A me sono sembrati morbidi e buoni, una metafora della città, che è bella, ma a “bocconi” piccoli, perché appena fuori dal centro storico la periferia ha lo squallore di troppe identità tradite.

Ho pranzato sulla spiaggia di Capo Feto, un’oasi naturale di pantani e fenicotteri bianchi chinati a cercar cibo. Piccole dune di sabbia cambiano col vento, ovunque le poseidonie spiaggiate a migliaia e di fronte a me il mar Mediterraneo. L’ho guardato a lungo, calmo e blu con il suo orizzonte mutevole e nessun confine. A guardarlo, però, ci vuol coraggio, perché quel mare non è il Tirreno che bagna Palermo e guarda a nord, quello è il canale di Sicilia, il custode severo dei morti a migliaia.
Solo 153 chilometri. Se fossi nata tre ore più a Sud, adesso, forse, sarei tra le donne che portano avanti la rivoluzione dei paesi arabi, sarei impegnata a rivendicare insieme al mio popolo, quel che un centinaio di chilometri più su, invece, si va perdendo senza troppa consapevolezza o grande dolore.

Riserva Capo Feto, Mazara del Vallo. Foto di Carlo Columba.

Riserva Capo Feto, Mazara del Vallo. Foto di Carlo Columba.

A Mazara si mescolano la malinconia e la speranza che le città di mare possiedono, abituate come sono alle partenze, alle attese, allo strazio per chi non fa ritorno. Costrette ad imparare i segnali del mare e del cielo e pazienti di racconti, di avventure spaventose, di incontri straordinari, di avvistamenti fiabeschi. Dal mare viene il cibo e la benedizione della vita, dal mare i nemici e la distruzione e sul mare la paura della morte fino alla pazzia.

Prima di rientrare ho reso omaggio al satiro danzante, questa volta l’armonia delle sue forme l’ho vissuta come un augurio e quel volteggiare che l’assenza di braccia, di una gamba e l’immobilità della statua non riescono a celare mi è parso indicasse un segreto di vita, una strada sapiente da trovare ancora.

Satiro danzante, Museo del Satiro, Mazara del Vallo. Foto di Carlo Columba.

Satiro danzante, Museo del Satiro, Mazara del Vallo. Foto di Carlo Columba.

Secondo la Bibbia esiste una strada nel mare, la mostra Dio al suo popolo per salvarli dalla morte certa, dall’esercito nemico ormai alle spalle e dalla schiavitù del faraone.
Mi piace pensare che dalle coste di Mazara, la città bianca, una strada possa essere trovata da uomini giusti, per salvare anche oggi dalla schiavitù e offrire scampo agli oppressi. Non esiste motivo perché così non accada, tra noi e loro… nessun confine:
…che leggi più eque rendano amiche le acque delle opposte sponde l’africana e l’europea, nel nome del Dio universale, Padre di tutte le genti, cristiane ed islamiche, facendone un solo mare libero al lavoro, fecondo di pace.

(da un’iscrizione affissa in via san Giovanni)

 

Rivoluzioni (Im)Perfette

Venerdì 10 febbraio resterà per me una data da ricordare.
Importante perché ho visto e sperimentato in prima persona il circolo virtuoso che passione, amicizia, studio, consapevolezza riescono a creare.
Il mio personale e crescente interesse per il Medio Oriente e il mondo arabo mi ha fatto incontrare tempo fa una donna, Marta Bellingreri, che di quella porzione di mondo si occupa con grande impegno e passione. Marta mi ha invitata alla presentazione di un libro, “Rivoluzioni violate”, io ho letto il libro e, a mia volta, ho invitato altri amici che insieme a me hanno partecipato all’evento, acquistando il testo, e con i quali è continuato lo scambio di impressioni, idee, emozioni.
Con le persone che ho lì conosciuto si sono creati nuovi contatti in vista di possibili incontri di formazione e informazione da realizzare a scuola: è la speranza che questa rete di conoscenza, passione e solidarietà possa avere lunga vita attraverso i ragazzi. Per questo motivo affido oggi le pagine di Eufemia alla voce di una delle persone che con me da un po’ di tempo condivide interesse, tensione e preoccupazione per quelle rivoluzioni del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale che interpellano da vicino la nostra coscienza di cittadini liberi  e nelle quali tutti dovremmo aver contezza d’essere personalmente coinvolti.
E’ il punto di vista di chi, pur appartenendo ad una generazione diversa dalla mia, forse più disincantata, ma più consapevole, resta però sempre lucidamente in ascolto, curioso, disposto a partecipare ai processi di cambiamento necessari al compimento della giustizia.

Giulia Lo Porto

Da sinistra: Cecilia Dalla Negra,Fouad Roueiha e Debora Del Pistoia.

Da sinistra: Cecilia Dalla Negra, Fouad Roueiha e Debora Del Pistoia.

Rivoluzioni Violate è il titolo del libro presentato ieri al circolo Arci Porco Rosso a Palermo, nel cuore del centro storico, in un locale che per dimensioni e arredamento ricorda luoghi movimentisti degli anni settanta e ottanta, ma rispetto a quelli (e a quel periodo) con una differenza notevole di frequentazione: per varietà delle fasce di età rappresentate e per varietà di provenienza etnica e culturale e di colore della pelle.

Gli interventi di tre degli autori dei diversi saggi contenuti, sono stati centrati intanto sulla scelta del titolo: come fa una rivoluzione ad essere “violata”? Che significa? La domanda viene ovviamente dalla considerazione che tutti i paesi del nord-africa e gran parte del medio oriente sono sono stati attraversati quasi contemporaneamente da movimenti popolari e studenteschi centrati sulle stesse istanze: diritti civili ,rispetto delle minoranze, diritti della donna, libertà intellettuale. Praticamente dappertutto assistiamo oggi ad una marcia indietro rispetto alle aperture e ai cambiamenti che questi movimenti erano stati capaci di provocare, con conseguenze assai drammatiche culminanti con la situazione della Siria.

copertina de I tre, Cecilia Dalla Negra, Debora Del Pistoia e Fouad Roueiha, hanno esposto la situazione delle aree di rispettivo interesse: Palestina, Tunisia, Siria. Non voglio qui riportare quanto detto, produrrei solamente una insignificante sintesi,  invito eventualmente a comprare il libro, ne vale la pena. Voglio dire invece quali sono state le mie impressioni.
Grande competenza ed esperienza da parte dei relatori, i quali, usando una lingua italiana assai corretta ed elegante, scansando la tentazione del forbito e del dotto, hanno esposto con precisione l’esperienza compiuta in quei paesi e i pensieri e le deduzioni cui erano giunti. Mi ha colpito questa modalità comunicativa e credo di non essere stato il solo, dal momento che l’incontro ha sforato le due ore conservando intatti l’attenzione e l’interesse di tutti pur trovandoci in un luogo dove a quelle sopraggiunte ore il costume dei presenti è usualmente “da pub”.
Ho capito poi che la complessità delle situazioni sul campo, quella siriana in testa, sono così complesse da rendere veramente difficile dire di “avere le idee chiare” , figuriamoci di poter prevedere qualche sviluppo sia pure in tempi brevi. Ho compreso infine, ma questo già lo sospettavo e farei meglio quindi a dire “ho avuto la conferma” della inadeguatezza dei mezzi di informazione sia a video che a stampa nel descrivere i vari accadimenti: succede che la pratica professionale del giornalismo, quella stessa almeno in parte responsabile dell’affermarsi della cosiddetta “post-verità”, ha costantemente semplificato sino alla banalizzazione la descrizione dei diversi accadimenti e processi, preferendo “pompare” su Isis e la cosiddetta “Guerra Mondiale” tra i paesi a cultura occidentale e quelli a cultura islamica. Preferendo, ancora, adottare tecniche di marketing basate su richiami pseudopornografici piuttosto che rischiare di perdere un lettore non disponibile alla complessità e preferendo posizionarsi ideologicamente su un terreno politicamente neutro e sicuro in quanto realmente lontano e indifferente agli attori veri sul campo. Scelta a dir poco irresponsabile e vigliacca.

Rilancio, per concludere, quanto detto da Fouad Roueiha: “Non è tanto importante quanto vi potrò raccontare io oggi, meglio sarebbe che ognuno di noi si facesse raccontare le storie personali e familiari da i diversi rifugiati che incontriamo nelle nostre città”.

Carlo Columba

Un mare di pace

(Parole di Pace di Angela Di Blasi)

(Parole di Pace di Angela Di Blasi)

Di palme a Palermo ce n’erano a migliaia. Poi è arrivato il punteruolo rosso, un coleottero feroce che le ha sterminate cambiando per sempre il volto della città. Nel cuore di Palermo, però, nel quartiere arabo della Kalsa, alcune palme partigiane resistono e rivendicano il diritto di svettare ancora a lungo verso il cielo, è il Giardino dei giusti.
Io ci sono entrata per la prima volta ieri sera, una delle sere più calde di questa estate del sud, sono andata per partecipare alla manifestazione Giardino in circolo che segna la riapertura delle attivita Arci di Palermo.
Non è molto grande questo Giardino dei giusti, eppure varcando la sua soglia  sono salita su una barca di pescatori nel mare di Tunisia, sono stata a Gaza, sotto le bombe, ho solcato il mare fra le pagine di un libro di stoffa, navigato sulle imbarcazioni costruite con l’argilla da mani d’infanzia, sentito addosso il vento di terre lontane, una forza di bene e passione sulle dita che modellano la terra.

(Moncef Ghachem)

(Moncef Ghachem)

Je suis venu de la mer, de la soif, du cri. Je suis voué au cri comme les vents de la mer (“Sono venuto dal mare, di sete, di grido. Mi sono dedicato a piangere come i venti del mare”). Moncef Ghachem è un poeta tunisino che conosce il mar mediterraneo, i suoi pesci, la sua gente. I popoli che nascono e vivono sul mare sono uno strano tipo di gente, infatti: cresce dentro o vicino ai porti, dove si arriva, da dove si parte, senza sosta. Eppure la solitudine ne bacia le labbra e ne risucchia le parole. Sulle rive del mediteraneo si diventa grandi mentre il sole brucia la pelle e il sale corrode il cuore e insieme ne guarisce le ferite, si cresce con gli occhi pieni d’acqua e una sete invincibile. Moncef Ghachem, ha parlato del mare e dei pesci  che non ci sono più, tutti divorati dall’ingordigia di chi s’illude d’imbrogliare il mare. I pescatori come Moncef, invece, sanno che il mare prepara la sua vendetta. Parla della razzia del pesce il poeta, per dire la razzia del potere, l’agguato alla parte fragile del mondo, per dire di bimbi morti sulle spiagge, per annunciare che il tempo è scaduto e che bisogna far tornare i pesci nel mare e la giustizia fra gli uomini. Recita i suoi versi con fermezza e discrezione, in arabo, in francese, con uno strano ritmo che ricorda le onde  sulla barca nelle notti silenziose di pesca.

Ramy M Balawi, invece, è un giovane uomo, un maestro elementare di Gaza che nel Giardino dei giusti arriva attraverso le parole di una lettera proclamata a voce alta, mentre il buio scendeva lento sulle palme partigiane. La lettera raccontava del divenir uomo tra i morti, dei boati delle bombe che scuotono il letto, di fratellini che urlano la paura alla luce fioca di una candela. Ramy ha raccontato della guerra, ma anche della scuola, l’unico ponte per raggiungere la speranza di una vita migliore, l’unica arma contro l’ingiustizia subita dalla sua gente, l’unica possibilità di riscatto. La biblioteca dei bambini e dei ragazzi Le Balate, che opera nella trincea del centro storico di Palermo, grazie all’impegno generoso di Daniela Thomas, sta unendo le forze per riuscire a condurlo a Palermo e dargli l’occasione d’essere corpo e voce, narrazione ed esperienza, con noi, per noi.

WP_20150906_012Su un tappeto colorato un libro aperto di stoffa, opera di Angela Di Blasi, si popola delle  sagome dei partecipanti disegnate da ciascuno con cura. Parole di pace da affidare a strisce di cotone bianco che sembrano schiuma sul bagnasciuga. Alla terra ci pensa Alberto Criscione.

(Alberto Criscione)

(Alberto Criscione)

A lui e al suo blocco di creta si avvicinano grandi e bambini: nasce un’intera flotta di barchette a vele spiegate e poi palline e cubi e fiori e coccodrilli a moltiplicare la gioia della creazione.

(Salvatore Rizzuti)

(Salvatore Rizzuti)

In un angolo le mani dello scultore Salvatore Rizzuti partoriscono un volto di donna. La gente capisce, lo circonda, vuole vederlo lavorare, ma lui è irragiungibile: solo con la terra. Con le dita modella quel blocco di creta informe che guarda senza distrazione, come se stesse aspettando il ritorno di qualcuno.

PicMonkey CollageL’arpa di Romina Copernico strappa via dal cuore i brutti pensieri: la gente ascolta con attenzione, si guarda attorno, si riconosce, si saluta, mangia e beve birra e quando il gruppo di Arci Tavola Tonda mette mano agli strumenti, si balla anche. Perchè la festa, la gioia di ritrovarsi insieme vivi è il modo migliore per sabotare le guerre ed anche il modo più nobile di rendere omaggio alle vittime e alla disperazione dei popoli in fuga. Al ritorno le strade del quartiere deserto si accendono di nostalgia, i lampioni riflettono sulle balate: sembra un mare d’oro.