Il giorno del viaggio

Sam Shepard

Sam Shepard

Il ventisette di luglio è il giorno del viaggio.

Chiudo gli occhi e sono in America. L’America degli spazi sconfinati, dei cavali pazzi al galoppo, dei cieli stellati. Del silenzio. Del vento.

Con gli occhi l’America io non  l’ho mai vista. Ma ho letto Sam Shepard.

Ed ho letto Patti Smith che racconta Sam Shepard.

Ed ho visto i suoi film.

E tra un bacio al sapore di caffè e pause di silenzio sulle strade d’Europa, ne ho parlato all’uomo che amo, che ha il Kentucky selvaggio nel cuore e che si commuove per le storie ruvide d’amore e per gli alberi secolari.

Ho pianto per la morte di Shepard.

Rubo il tempo alle cose urgenti, traduco righe dei suoi testi, dall’inglese, mentre cantano le cicale di luglio e mio figlio dorme sudato e perfetto su lenzuola rosse, piene di pieghe. Un’azione inutile, tempo sottratto al dovere, che mi redime, parola dopo parola.

Sam Shepard è morto piano piano per anni, una malattia lo ha lasciato lucido e consapevole fino alla fine ed ha scritto, finché ha potuto.

Finché ha potuto si faceva portare dai figli sotto al portico di casa sua, per restare immerso nel nulla fin dove l’occhio riesce a vedere.

Non ha riempito nessun vuoto. Lo ha descritto piuttosto. E lo ha abitato come un eremita, perfino ad Hollywood.

Il ventisette di luglio è il mio viaggio nel vuoto. È la mia pratica ascetica. È il mio desiderio pazzo di spazio inabitato.

“Se hai dimenticato la brama, sei pazza”.

P.s. Guardate qui https://youtu.be/GQHs6MoJyZY

Il cielo, l’attesa.

Il 27 luglio 2017 moriva di SLA Sam Shepard.

Eufemia lo ha amato e ama moltissimo ed ogni anno gli rende omaggio, come può e sa.

Sam Shepard

Sam Shepard

Why is he watching me? I can’t understand that. Nothing. I just lie here. Waiting for someone to find me. I just look up at the sky. I can smell him close by.

Sam Shepard, Spy of the First Person.

Da qualche parte nella terra del sogno

Le parole che trovate di seguito sono un tentativo di traduzione del commiato scritto da Patti Smith per la morte di Sam Shepard, il suo amico di sempre (My Buddy, pubblicato su The New Yorker il 1 agosto 2017). Io non traduco per mestiere e mi è venuto difficile, difatti. Ma l’amore che ho per Patti, mi ha spinta a compiere l’impresa. E’ una traduzione certamente piena di errori, ma anche intrisa del desiderio di far conoscere, almeno ai lettori di Eufemia, una storia di rara amicizia, la storia di una relazione sincera che porta con sé il grande miracolo di poter essere e restare se stessi, nonostante le trasformazioni della vita e dell’età.


(Sam Shepard e Patti Smith)

(Sam Shepard e Patti Smith)

Telefonava tardi nella notte, mentre si trovava da qualche parte sulla strada: in una città fantasma del Texas, mentre riposava vicino a Pittsburgh, o da Santa Fe, dove restava immobile nel deserto, ascoltando i coyotes ululare.
Ma più spesso chiamava dal Kentucky, il suo “luogo”, quando la notte era fredda e serena, quando si sentivano respirare le stelle.
Solo una telefonata in tarda notte, da un blu sorprendente come una tela di Yves Klein; un blu per perdersi, un blu che può portare ovunque.
Mi svegliavo felicemente, preparavo del caffé e parlavamo di tutto: degli smeraldi di Cortez, o di Flanders fields, dei nostri figli o del derby del Kentucky. Ma per lo più parlavamo di scrittori e dei loro libri. Scrittori latini. Rudy Wurlitzer, Nabokov, Bruno Schulz.

“Gogol era ucraino” disse una volta, apparentemente dal nulla. Ma non era un nulla qualsiasi, era una scheggia di un nulla sfaccettato che, quando lo si pone sotto una certa luce, diventa un “qualche luogo”. Io cavalcavo quell’onda e improvvisavamo fino all’alba, come due sassofonisti esperti, alternandoci nelle interpretazioni.

Una volta mi ha inviato un messaggio dalle montagne della Bolivia, dove Mateo Gil stava girando “Blackthorn”. L’aria era sottile là sulle Ande, ma lui la fendeva bene, trovandosi meglio degli attori più giovani, cavalcando non meno di cinque diversi cavalli. Ha detto che mi avrebbe portato un serape, nero con strisce color ruggine. Ha cantato su quelle montagne davanti ad un falò, vecchie canzoni scritte da uomini a pezzi, innamorati di se stessi nonostante stessero per svanire. Avvolto in coperte, dormiva sotto le stelle, alla deriva sulle nubi di Magellano.

Sam amava stare in movimento. Lanciava una canna da pesca o una vecchia chitarra acustica nel sedile posteriore del suo camion, forse portava con sé anche un cane, ma sicuramente un quaderno, una penna e un mucchio di libri. A lui piaceva caricare i bagagli e vivere proprio così, andando ad ovest. Allo stesso modo amava interpretare ruoli che lo avrebbero costretto ad avere a che fare con la sua stranezza, un nutrimento per il successivo lavoro.

Nell’inverno del 2012, ci siano incontrati a Dublino, aveva ricevuto una laurea ad honorem  in lettere dal Trinity College. Era spesso imbarazzato dai riconoscimenti, ma lo accolse volentieri perché proveniente dalla stessa istituzione dove Samuel Beckett aveva camminato e studiato. Amava Beckett e aveva qualche suo brano manoscritto incorniciato in cucina, insieme alle foto dei suoi figli. Quella giornata abbiamo visto la macchina da scrivere con la quale John Millington Synge e James Joyce scrissero le loro opere e nella notte ci siamo uniti a dei musicisti che suonavano nel Pub preferito di Sam, il Cobblestone, dall’altro lato del fiume. E mentre camminavamo barcollando con il cuore leggero attraverso il ponte, recitò alcuni versi di Beckett a memoria.

Sam aveva promesso che un giorno mi avrebbe mostrato il paesaggio del sud-ovest, poiché nonostante avessi viaggiato molto non conoscevo bene il nostro paese. Ma fu colpito da una malattia debilitante e  alla fine ha smesso di caricare i bagagli e partire. Da allora in poi sono andata a trovarlo e abbiamo letto e parlato, ma per lo più abbiamo lavorato.
Lavorando per il suo ultimo manoscritto, Sam ha coraggiosamente dato vita ad una riserva di resistenza mentale per affrontare tutte le sfide che il destino gli aveva assegnato. La sua mano, con una luna crescente tatuata tra il pollice e l’indice, era poggiata sul tavolo davanti a lui. Il tatuaggio era un ricordo dei nostri giorni giovani, il mio è un fulmine, sul ginocchio sinistro.

Descrivendo un paesaggio western, improvvisamente alzò lo sguardo e disse: “Mi dispiace che non posso portarti lì”. Ho sorriso, perché in qualche modo lui aveva appena fatto proprio questo. Senza una parola, con gli occhi chiusi, noi attraversammo il deserto americano che srotolò un tappeto di polvere color zafferano, poi color ruggine e anche il colore del vetro verde, i verdi d’oro e poi, improvvisamente, un blu quasi inumano. La sabbia blu! – dissi – colma di meraviglia. “Tutto è blu” – ha detto lui – e le canzoni che abbiamo cantato avevano anch’esse un proprio colore.

Avevamo la nostra routine: svegliarsi, prepararsi per la giornata con un caffè e qualcosa da mangiare. Mettersi al lavoro, scrivendo. Poi una pausa, fuori, per sedersi sulle sedie di Adirondack e osservare il paesaggio. Non era necessario parlare, come accade in una vera amicizia. Mai stavamo a disagio in quel silenzio, che, nel suo sorgere, è un’estensione della conversazione. Ci conoscevamo da così tanto tempo! I nostri modi di fare non potrebbero essere definiti o liquidati con poche parole per raccontare una spensierata giovinezza. Noi eravamo amici. Nel bene e nel male, eravamo proprio noi stessi. Il passare del tempo non ha fatto altro che rinforzare tutto questo. Le sfide si facevano più ardue, ma siamo andati avanti ed abbiamo terminato il lavoro sul suo manoscritto. Stava sul tavolo e c’avevamo messo tutto, niente era rimasto di non detto. Quando sono partita, Sam stava leggendo Proust.

Passarono lunghi e lenti giorni. Era proprio una serata tipica del Kentucky, lucente di lucciole, accompagnata dal suono dei grilli e dai cori dei rospi. Sam si avvicinò al suo letto e si preparò per andare a dormire, un sonno stoico e nobile. Un sonno che lo ha condotto ad un passaggio senza testimoni, circondato da un amore che respirava nell’aria. Cadeva la pioggia quando trattenne il suo ultimo respiro, in silenzio, proprio come avrebbe voluto. Sam era un uomo riservato. So qualcosa degli uomini così. Devi lasciarli decidere come far andare le cose, anche alla fine. La pioggia cadeva, nascondendo le lacrime. I suoi figli, Jesse, Walker e Hannah, hanno detto addio al padre. Le sue sorelle Roxanne e Sandy hanno detto addio al loro fratello.

Io  ero lontana, in piedi sotto la pioggia davanti al leone addormentato di Lucerna, un colossale, nobile, stoico leone scolpito nella roccia di una bassa scogliera. La pioggia cadeva,  nascondendo le lacrime. Io sapevo che avrei rivisto Sam da qualche parte nella terra del sogno, ma in quel momento ho immaginato di tornare nel Kentucky, con i suoi campi ondeggianti e il torrente che sfocia in un piccolo fiume. Ho immaginato le copertine dei libri di Sam sulla mensola, i suoi stivali grinzosi poggiati contro il muro, sotto la finestra, da dove guardava i cavalli che pascolavano davanti alla recinzione. Ho immaginato me stessa seduta al tavolo della cucina mentre cercavo di raggiungere quella mano tatuata.

Molto tempo fa, Sam mi ha mandato una lettera. Una lunga lettera nella quale mi diceva di un sogno che aveva sperato non sarebbe finito mai. “Sognava cavalli”, ho detto al leone. “Realizza tu il sogno: un grande cavallo rosso che lo aspetta, un vero campione. Non avrà bisogno di una sella, non avrà bisogno di niente”. Mi diressi verso il confine francese, vi era una luna crescente che sorgeva nel cielo nero. Ho detto addio al mio amico, chiamandolo nella morte della notte.

 

Venite a Palermo

Il post di oggi, non può ignorare la lunga veglia dell’Election Night americana. E proprio per questo, oggi, si resta nella mia città: Palermo.

Questa notte mi ha svegliata il temporale, ho dato un’occhiata alla pagina dell’ANSA, dal cellulare, e non ho più potuto prendere sonno. Pensavo a troppe cose. E me ne chiedevo altrettante. Sono stata disattenta e poco lungimirante credendo che Donald Trump non avrebbe mai potuto vincere. Proprio io che per più di metà della mia vita ho vissuto in un paese guidato da un uomo come Silvio Berlusconi, anzi…che per più di vent’anni ho fatto parte di un popolo capace di votare ad oltranza Silvio Berlusconi.

La gente non vota qualcuno che la possa “rappresentare”, la gente vota chi simboleggia le frustrazioni e le mancanze: denaro, potere, arroganza, possibilità di soddisfare ogni desiderio, capacità di cancellare e non di risolvere le paure.

Così a capo di una delle maggiori potenze mondiali ci ritroviamo un uomo, bianco, ricco, misogino, arrogante. Pensandoci ho quasi riso, sinceramente. Basta osservare un attimo il mondo che ci circonda, infatti, per capire che Donald Trump non rappresenta nessuno, non rappresenta nulla di quanto stia veramente accadendo e facendo la storia.

Per questo vi porto a Palermo, oggi. Per questo non vi racconterò nessun libro, dipinto, canzone, museo, scultura etc etc.., ma un’opera d’arte molto molto più grande.

Andiamo nel cuore della città: vicolo san Carlo, vicino piazza della Rivoluzione. E ci andiamo perché è lì che si trova uno dei centri di accoglienza della Caritas. E’ varcando quel portone che ho visto negli occhi i ragazzi che attraversano il mare e che approdano in questa isola grande e disperata. Li ho visti riuscire a giocare a calcio e biliardino, ridere e cantare nonostante siano minori non accompagnati con le radici spezzate e un futuro nero e profondo come il mediterraneo nei giorni di tempesta. E’ lì che ho portato gli abiti raccolti con generosità dai miei colleghi di scuola ed è lì che l’uomo che mi vuol bene mi accompagna con amore e fatica a trasportare quel che speranza e solidarietà riescono ogni tanto a mettere insieme.

Sono adolescenti, altissimi, magri, con la pelle scurissima e il sorriso di perla. Qualcuno ha lo sguardo triste, qualcun’altro ci osserva incuriositi, noi che possiamo entrare ed uscire quando vogliamo, noi con un documento di identità in tasca e uno Stato di cui lamentarci, noi che viviamo in pace, che possediamo le garanzie del diritto, che abbiamo un lavoro e delle radici, lì dove il seme è stato piantato.

A vicolo san Carlo si distribuiscono 200 pasti al giorno e le storie si intrecciano creando una rete di sostegno e protezione per lo smarrimento di chi cerca rifugio e nuove possibilità.

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Mensa Caritas vicolo san Carlo, Palermo

E poi, poi lasciamo il centro storico e andiamo verso il mare. Al Porto di Palermo sbarcano i salvati e i cadaveri. Ma sopratutto sbarcano le donne, quelle incinta o quelle con i piccoli nati durante la traversata o messi dentro una coperta nella speranza di sentirli piangere sulla riva dall’altro capo del mare. Sbarcano donne con il seno pieno di latte e una disposizione al sacrificio che solo l’istinto di sopravvivenza e la sete di vita possono creare e che è più forte, molto molto più forte di Donald Trump.

Palermo, solo uno dei tanti luoghi d’Europa in cui è visibile la trasformazione del mondo. Il futuro è loro: il futuro ha la pelle scura, la forza delle donne e un desiderio di vita che nessun muro, nessun populismo, nessun fascismo potranno fermare.

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Donald Trump è il rappresentante del mondo che muore.

Non spaventiamoci, dunque. Oppure facciamolo, ma solo se questo serve a prendere sul serio il tempo che stiamo vivendo, la nostra personale responsabilità e l’urgenza di aprire gli occhi sulla realtà. Non è restituendo potere agli ideali passati e sconfitti che colmeremo la paura per un cambiamento di cui non riusciamo ad immaginare la meta, ma il cui cammino non riusciremo in alcun modo ad arrestare.

Trump, Putin, Erdogan, il ristabilimento delle frontiere, il terrorismo, la guerra in Siria, il cambiamento climatico, la quotidiana nostrana povertà, i morti in mare, le armi nucleari….potrei continuare a lungo. Il senso di impotenza, paralizza. Sopratutto quando si è quotidianamente bombardati da un sistema di informazione corrotto e bugiardo, le cui responsabilità sono pesantissime e verso il quale sarà necessario prima o poi prendere una posizione.

Oltre le prime pagine dei giornali la vita vera delle persone vere fa il suo corso, in mezzo a multiformi difficoltà e infinite contraddizioni, ma scrivendo una storia molto differente rispetto a quella che il patinato Trump rappresenta, rispetto al tentativo di farci credere che egli sia tutta la realtà e tutto il pericolo.

L’elezione del miliardario americano non è la fine del mondo. Anzi, forse è l’occasione per aprire gli occhi, finalmente, e superare lo sconforto e il catastrofismo . Forse, con la vittoria di Hilary Clinton sarebbe rimasto ricoperto di polvere e rassegnazione il nucleo del problema che è dentro di noi prima d’essere fuori di noi. Ci saremmo convinti che l’elezione di una donna era il passo avanti necessario al cambiamento che tutti ci aspettavamo, così come abbiamo creduto che un presidente dalla pelle nera avrebbe portato la pace nel mondo.

Tutti siamo responsabili, in un modo o nell’altro, consapevoli e non, dell’ascesa al potere di Donald Trump. Staniamo in noi stessi l’ombra lunga della resa e della stanchezza, della rassegnazione e della lamentela fine a se stessa, dello scontento e dello sconforto. Togliamoci le mani dai capelli per questa vittoria/sconfitta che ci ha forse solo ipocritamente sorpresi e tendiamole verso noi stessi e verso chi può stringerla per bisogno e aiuto, paura, solidarietà senza farci promesse che poi tradirà perché non può annunciare nessuna ricompensa né distribuire il sogno di milioni di posti di lavoro.

Lasciate stare Trump, l’America e l’imminente fine del mondo: venite a Palermo, ce n’è una ovunque voi siate, in qualunque parte del mondo.