Ieri sera a Palermo ha preso il via il Sole Luna Doc Film Festival, una rassegna cinematografica che cerca di promuovere, come ponte fra le culture, la conoscenza reciproca, la solidarietà, il rispetto.
Tra i primi film in gara è stato proiettato presso lo Spazio Arena dei Cantieri culturali A walnut tree “Un albero di noci”. Il regista Ammar Aziz racconta la nostalgia di un anziano strappato al suo villaggio, in Pakistan, dal conflitto fra esercito e talebani e costretto a vivere in un campo profughi con la sua famiglia.
Baba, così viene chiamato il protagonista, è un maestro e un poeta, un uomo misurato, dalla barba bianca e lo sguardo profondo. Poggiato ad un muretto di mattoni che ne sostiene la fatica e la disperazione narra ai nipoti della terra che ama e nella quale, però, non è potuto restare, “una terra piena di giardini”, trasformata in terreno di sanguinose guerre fratricide, in terra arida dove è feroce la sete della lotta.
Si aggira nel campo in cerca di confronto e conforto, ma lì “non esistono più persone, solo storie”. Esiste solo il passato da ricordare, per molti di loro il presente è troppo duro e il futuro un lusso fuori portata. I bambini bevono acqua mista a fango e sporcizia ed hanno i capelli unti di inconsapevole disperazione.
I lunghi silenzi aiutano a comprendere e a rendere il dramma dei giorni tutti uguali e i dialoghi fanno venire alla luce la distanza tra le generazioni. Lì dove i giovani resistono in attesa di un futuro migliore gli anziani disperano non tollerando oltre l’esilio, la sofferenza, la solitudine.
Baba recita per farsi coraggio una poesia su un albero di noci piantato dal padre, simbolo di appartenenza ad una terra, ad una comunità. Non poterne aver cura, non poterne passare la custodia a figli e nipoti è un dolore troppo grande da sopportare, uno sradicamento che rende il pensiero della morte più tollerabile della vita vissuta in quelle condizioni.
Baba piange lo strazio della sua condizione, davanti al figlio, ai nipoti, alla giovane nuora dice di voler tornare al villaggio e non servono a nulla le ragionevoli opposizioni della sua famiglia, a nulla giova ricordargli delle bombe, delle case distrutte, dei funerali quotidiani, dei bambini senza braccia e gambe, del terrore, dell’odio fratricida. “Voglio tornare – dice singhiozzando – non provate a fermarmi”.
E il desiderio di tornare, di fuggire da una vita che umilia l’identità è davvero più forte di tutto. Baba scappa. Ancora oggi risulta disperso. Il figlio ha provato a raggiungerlo, ma non lo ha trovato. Ciò che trova sono le macerie della scuola dove lui era cresciuto, dove suo padre aveva insegnato.
Prima di fuggire Baba aveva raccontato delle dodici ore di viaggio tra le montagne, per fuggire ai talebani. Dodici ore durante le quali un fratello spara alla sorella disabile su sua disperata richiesta, perché portarla sulle spalle durante la fuga era impossibile, dodici ore in cui i bambini muoiono di stenti e dove le madri partoriscono figli sotto la pioggia battente.
A walnut tree è una potente poetica narrazione che descrive la forza inarrestabile del viaggio verso la vita che si porta dentro: “La terra di Dio è vasta, troveremo un luogo per vivere in pace”.