Ho riflettuto e a lungo, chiedendomi se scrivere quello che sto per scrivere avesse qualche briciola di senso ed utilità. Poi mi son detta che, scrivere quello che sto per scrivere, una certa utilità la possiede per me, una sorta di catarsi artigianale, e che le briciole di senso ed utilità, male che vada, le mangerò io, da sola, che si, la fame non passa, ma sempre meglio di niente è.
Oggi è il 27 di gennaio e si celebra la giornata della memoria. Ed è una celebrazione così importante e talmente conosciuta che non è necessario, nominandola, specificare di quale memoria si tratti. Sto dietro alla cattedra da soli due anni, ma di anni di “scuola dietro ai banchi” ne possiedo a sufficienza per permettermi una qualche riflessione su questa giornata. Posso dunque affermare che questa giornata, a scuola, viene sempre celebrata con particolare attenzione. Sopratutto i professori d’italiano o di storia cominciano a preprarare le classi molto tempo prima del 27 di gennaio.
Il fatto è, però, che io non insegno Italiano nè storia, no. Insegno religione. Si, Religione Cattolica. Ed ora mi fermo e faccio una pausa in modo che tutti coloro che leggeranno questo articolo possano avere qualche minuto per metter mano, con calma, a quel cumolo, grosso e disordinato, di pregiudizi e luoghi comuni che ognuno di noi, volente o nolente, possiede alla categoria “prof di religione”. Fate con calma. D’altronte un tale cumolo lo possiedo anche io, alto alto, grosso grosso. Anzi, penso proprio che il mio cumolo di pregiudizi sia molto, molto più alto del vostro, talmente alto che, quando mi sono iscritta alla facoltà di teologia, mi son detta: “Tutto, ma non l’insegnante di religione”. Si, infatti. E quale sia il bizzarro persorso di vita che si è fatto beffa del mio proposito…non saprei neppure spiegarlo. Ok, ora che avete riflettuto posso dirvi che non porto le gonne sotto al ginocchio né le scarpe di pelle nere con il tacco quadrato, non ho i capelli corti e bianchi modello “sorella di Gesù” e neppure le camicie abbottonate al collo, no. Non prego il rosario tutti i giorni, non appartengo a nessun gruppo parrocchiale, non ho la foto di Padre Pio sul comodino e con buona pace della conferenza episcopale italiana non mi batto per i “valori non negoziabili” né partecipo alle marce contro l’aborto. Non ho neppure particolare venerazione per preti, frati e suore. Credo, è vero, così come posso e so, in Gesù Cristo, ma da prima, molto prima (ne possiedo le prove) che arrivasse papa Francesco! Ah, e ho tre piercing all’orecchio e i capelli blu.
Detto questo, se vorrete continuare a leggere, sappiate che voglio raccontarvi quale inferno ho dovuto patire per preparare, in alcune delle mie classi, la “Giornata della memoria”. Il programma per le terze medie prevede lo studio delle grandi religioni. Così ho pensato di far precedere il ricordo della Shoah dallo studio dell’ebraismo: la storia antica di Israele per poter collegare la spiegazione delle festività ebraiche, la Bibbia ebraica, la cultura ebraica, con tanto di musica, pittura etc etc. Bello, mi permetto di dire e forse lo penserete anche voi. Invece? Invece no. Un incubo! Perché? Perché per prima cosa, ogni volta che entro in classe, in alcune più che in altre, la prima cosa da fare è riuscire a metterli seduti, far sputare le gomme masticate a bocca aperta, con movimento antiorario costante della mascella; ripetere una quindicina di volte di tirar fuori i quaderni, le penne, i libri, ribadire, per il numero degli alunni moltiplicato per due, che non possono andare in bagno durante la spiegazione (perché ci sono quelli che te lo chiedono una volta e pensano che il tuo no sia a scadenza e, quindi, inoltrano nuovamente la richiesta, ogni dieci minuti). Fatto questo, tocca avere riflessi pronti ed inserirsi veloci, con scatto felino in una pausa di silenzio, catturarli e cominciare a dire con tono di voce elevato e occhio penetrante qualcosa che li spinga ad ascoltarti. Così, comincia la lezione. La loro capacità di attenzione ha la stessa durata dell’attesa che separa l’invio del messaggio dalla risposta del destinatario su whatsapp. E la domanda che più spesso mi è stata rivolta è: “Ah prof, ma perchè dovemo studia’ le cose di l’ebrei, io voglio sape’ le cose mia”. Giuro. Vero. Alla controrisposta: “Quali sarebbero le cose tua?”, ovviamente mi si dice: “E che ne so io!”. Continuo, settimana dopo settimana, sentendo dentro me gli smottamenti che precedono la valanga dello sconforto. E gli smottamenti, sappiatelo, non vanno mai mai ignorati! Infatti, il giorno in cui ho cominciato a parlare dell’antisemitismo: significato del termine, origine storiche, difficile e controverso rapporto della chiesa con il fascismo, qualcuno si è sentito in dovere di ridefinire i confini tra discipline esclamando: “Ah prof, ma che c’entrano ste cose co a religione, pare che stiamo a fa’ storia!”. Avrei voluto rispondere: “Zitto, cretino!”, dato che questo ho pensato, e, invece, con una pazienza da far invidia al più ascetico dei monaci tibetani, ho continuato la mia spiegazione fino a quando… Fino a quando mi sono accorta, nonostante stessi scrivendo alla lavagna, (perchè i professori in realtà con il tempo diventano esseri mutanti con occhi e orecchie ovunque: sulle spalle, dietro alla testa, nelle gambe, sui piedi, ovunque!) che due di loro, da una parte all’altra dell’aula, si insultavano reciprocamente dicendosi: “Ebreo, figlio di ebrei!”. A quel punto la valanga è arrivata: il gesso che cade di mano, il colon che si incendia, le mani che tremano. Ma anche questa volta sono riuscita a frenare le parole che affollavano, numerose e furiose il cervello cercando, con sguardo severo, quello che da solo riesce a creare silenzio, di fare uscire dalla mia bocca non un fuoco capace di incenerirli tutti in pochi secondi, bensì un discorso pacato che potesse aiutarli a capire quanto fossero totalmente deficienti, nella speranza di raggiungere il deposito, la sede della vergogna, che però, secondo me, non è stata data loro in dotazione. I due che si insultavano, ve li presento, sono: un ragazzo borderline che ha diritto al sostegno (ma giammai nell’ora di Religione, che, si sa, niente vale nella scuola e niente merita, noi sporchi privilegiati, figli meticci dei patti lateranensi), e un ragazzo di sedici anni circa, con la barba, che da grande – afferma – vuole fare il “pappone”. Credetemi, sia io che i miei colleghi, abbiamo fatto di tutto per far capire al futuro pappone che non può mettersi sullo stesso piano di un ragazzo che ha difficoltà di comportamento e di comprensione della realtà. Eppure, non devo essere stata particolarmente convincente, forse perchè penso che, comunque, il vero borderline bisognoso del sostegno sia il sedicenne futuro manager di prostutite.
Ve la faccio breve: il mio discorso non è servito a niente. Le mie lezioni non sono servite a niente. A niente la musica, a niente la pittura. I due ragazzi e il resto dei compagni continueranno ad insultarsi chiamandosi “Ebrei”! E basta leggere le scritte sui muri di Roma per spiegarsi certe radicate intolleranze.
Mi si potrebbe obiettare, anche a mo’ di consiglio, che, magari, quella è una realtà troppo lontana dalla vita che stanno vivendo, oggi, ora, e che invece, su altri argomenti, più vicini, più attuali, la loro risposta sarebbe diversa. Grazie del consiglio amici, ma ho provato, e non funziona. Ho iniziato l’anno scolastico parlando della Primavera araba e della guerra in Siria: “Ah prof, st’ arabi oh, ma che ce vengono a fa’ in Italia! Nun ci sta lavoro qui! Ma chi li vole oh!”. Giuro. Vero. E una volta ho parlato dell’Africa e dei km che i ragazzi della loro età fanno ogni giorno per poter raggiungere la scuola: “Ah prof, ma in Africa nun ce stanno l’arberghi pe i safari? Andasserò a fa’ li camerieri nell’arberghi”. Giuro. Vero.
Ora, di discorsi sull’inconsistenza dei giovani e delle nuove generazioni, sinceramente, ne ho piene le tasche. Ovviamente, i ragazzi non sono tutti così, ogni tanto cogli uno sguardo, una parola di qualcuno che senza parlare, ti dice: “Ok prof. Ci sono, ho capito, grazie”. Anche i discorsi sull’incompetenza degli insegnanti mi hanno stufato, sopratutto perché io li vedo lavorare i miei colleghi e tranne poche eccezioni, sono persone piene di idee che cercano di fare il proprio lavoro nonostante la scuola ormai sia come un corpo che sta per esalare il suo ultimo respiro. Io non lo so se esista qualcuno, qualcosa a cui si possa o si debba attribuire la colpa di tutto questo. Solo mi chiedo cosa posso fare io, con un’ora a settimana, senza poter mettere un voto che faccia media, sempre in bilico, ricattabile dal vicariato che continuamente valuta e verifica la mia idoneità all’insegnamento, attaccata dai colleghi di sinistra perchè non si deve insegnare religione a scuola (e magari non conoscono neppure il contenuto dei programmi che sono, tra l’altro, programmi ministeriali), attaccata dai colleghi di destra perchè sto troppo a sinistra, minacciata dai dirigenti perchè non devo lasciare i compiti nè mettere le insuffuficienze, altrimenti poi i genitori non iscrivono i figli nella nostra scuola e…l’azienda fallisce.
I genitori. Qualche settimana fa ho messo una nota (cosa che non faccio mai, dato che non gliene frega veramente nulla di ricevere una nota). L’ho ritenuto necessario, però, dato che, in una seconda media, due compagnetti, un maschietto e una femminuccia, non hanno avuto remora di litigare in mia presenza e di dirsi vicendevolmente: “Tua madre è buttana”. Ecco, la mamma del maschietto ha risposto alla mia nota sul diario scrivendo: “Ah Prof (pure le madri, no!) dica a B. (la compagna) di portare rispetto, altrimenti vengo direttamente io in classe”. Giuro. Vero. Ed io, dopo aver fatto ingoiare al mio fegato un kilo e mezzo di bile purissima di prima scelta, ho risposto: “Gentile signora, la sua presenza in classe è del tutto superflua. B. è tenuta al rispetto tanto quanto suo figlio, che più volte, con le mie orecchie, ho sentito insultare madri e sorelle dei compagni. Pensi a rimproverare suo figlio”. Così le ho scritto, anche se avrei tanto voluto dirle: “Gentile signora, cerchi di mettere in riga quel disgraziato e maleducato di suo figlio che ogni giorno a scuola, sei ore su sei, scassa continuamente la minchia a tutti!”.
Quale sia il nemico da combattere, dicevo, io non lo so. Non so neppure se esista realmente un nemico. Certo è che molti, alla scuola media, non arrivano come ragazzini desiderosi di crescere. Molti di loro arrivano già a brandelli, fatti a pezzi da famiglia a pezzi, da relazioni taglienti come le schegge dei vetri infranti. Forse dovremmo davvero ripensare tutto, cambiare orari e materie, organizzare percorsi di istruzione e sostegno anche per le famiglie, rinunciare alle lezioni frontali, impegnarli fisicamente, insegnando un mestiere, un’attività manuale fin dalla tenera età.
Ricordare la Shoah è un dovere civile e morale imprescindibile. Guai a noi se smettismo di farlo. Ma la memoria è frutto di una semina che ha bisogno di terreno fertile per mettere radici. Non possiamo continuare a seminare sul cemento armato. Bisogna trovare il coraggio di ricominciare tutto daccapo, il coraggio di rimediare, se ancora possibile, agli errori passati e di evitare che si compiano quelli presenti, i disastri di cui tutti percepiamo con sgomento gli smottamenti. Prima di ricordare dobbiamo risanare. La mattanza della guerra in Siria, la pulizia etnica nella ex Jogoslavia e in Somalia, i cadaveri dei migranti che galleggiano sul mediterenneo. Se far memoria della Shoah non è servito ad evitare tutto questo allora forse abbiamo ricordato poco e abbiamo ricordato male. Forse il modo migliore di rendere omaggio ai sei milioni di ebrei morti durante la seconda guerra mondiale è evitare di costruire una società civile incapace di reagire alle ingiustizie, è non rassegnarsi ad una classe dirigente ignorante e corrotta, è creare sensibilità necessaria ad aver cura e rispetto della “cosa pubblica”. I ragazzi sono stanchi, sfiduciati e arrabbiati, cinici a volte, perchè noi adulti siamo arrabbiati, sfiduciati e cinici. Ma ad essere arrabbiati e cinici, questo si, non possiamo dimenticarlo, sono sempre i carnefici.