Il mare. Mare a perdita d’occhio. Si smarriscono, gli occhi: cercano punti di riferimento che le nuvole nascondono, che il vento confonde, che il sole sbiadisce. Il tempo inverte la rotta e lo spazio inghiotte il suo limite.
Il mare gonfio di vento s’infrange sulle pietre, ora, di nuovo, ancora. Si rincorrono le onde, senza toccarsi mai, non si raggiungono, ma non si arrendono: ora, di nuovo, ancora. Su ciottoli levigati dalla tenacia di una rincorsa vana, ragazzini giocano ad acchiappar l’amore: una foto, un sorriso, le confidenze sussurrate ad ogni ritirarsi d’onda.
Il silenzio s’impone ovunque. Lassù, dove emerge dalla terra la punta d’acciaio corten, ogni voce è catturata. Sulla strada che conduce all’altura il mare s’ingrandisce ad ogni curva, su, su, tra le ginestre d’oro, fino al 38° parallelo.
In piedi e a braccia allargate la croce di carne sfiora con le dita il sorgere del sole e il suo tramonto. Oriente e occidente s’incontrano dove lo sguardo dell’uomo contiene gli estremi. Non più dilaniati tra inconciliabili opposti, stiamo, muti, mentre tutto converge e abita lo spazio.
Né estremi a lacerare il mezzo né punti di mezzo a risucchiar futuro. La misura di ciascuno è la scoperta d’esser vivi. Ad occhi aperti: la luce non abbaglia, il buio non spaventa. La parola si fa lieve e torna comunione, vicinanza, identità. Ovunque lo sguardo trova riposo. Nessuna lama ne trafigge il cuore.
La vita forse si ricompone, adagio?