Ero contenta di poter partire. Che la meta fosse Madrid mi importava poco. Quello che contava era trascorrere tre giorni lontana da tutto insieme al mio ragazzo: poco più di vent’anni, molti sogni nella testa e l’emozione per il mio primo rossetto rosso in tasca.
Eravamo giovani, squattrinati e innamorati così come sapevamo esserlo allora, così come potevamo esserlo per le cose che la vita ci aveva insegnato fino a quel momento.
L’albergo era vicinissimo a Puerta del Sol, ma minuscolo. Ricordo che doveva abbassarsi, lui, per passare dalla porta del bagno, perché era il ragazzo più gigantesco e buono e malinconico che avessi mai incontrato. Ed era anche molto bello, secondo me.
Madrid fredda e caotica, con la gente che restava per strada fino a notte inoltrata. Abbiamo passeggiato a lungo, mangiato schifezze e immaginato il futuro, abbiamo parlato, molto, ci siam detti tutte le parole che poi, invece, avremmo purtroppo cominciato a tenere per noi ed abbiamo dormito vicini come solo a vent’anni si sa fare. Ci siamo emozionati, ci siamo cercati, invano qualche volta, come accade tra gli esseri umani. Siamo stati molto in silenzio. Ci piaceva, sembrava importante.
Entrati al museo del Prado abbiamo lasciato gli zaini alla reception e preso una piantina per essere sicuri di non perderci. Riuscire a vedere tutto, con il tempo che avevamo a disposizione, era impossibile. Abbiamo vagato a zonzo, senza sapere cosa stavamo cercando. Devo essere sincera, io non ricordo nulla di quella visita, nulla tranne una cosa: Il Cristo crocifisso di Diego Velasquez. Lo avevo visto riprodotto infinite volte ed infinite volte non mi era piaciuto. Mi sembrava un’immagine “scontata”, uno dei tanti poveri cristi che pendono da milioni e milioni di croci ovunque nel mondo. Ma quella mattina, all’improvviso, mi fu chiarissima la differenza che esiste tra una riproduzione e un’opera originale. Era…incredibile.
La tela mi parve molto, molto grande e il nero del fondo la cosa più buia che il mio sguardo avesse mai percepito. Il bianco del corpo fa si che Gesù sembri venir fuori dal quadro. Si ha l’impressione che dalla croce il corpo stia per piombarti addosso. E’ come se avesse un volume, come se si potesse mettergli un braccio attorno, per sostenerlo.
Ma non lo si può sostenere, invece. Né il corpo né il volto. Ebbi l’istinto di scostargli dal viso la ciocca di capelli che lo ricopre per metà. Gesù in quel quadro è un uomo bellissimo e questo rende la morte che tutto lo afferra, insopportabile. Osservando quel volto si desidera di vederlo sorridere, di vederlo riprendere colore, di poterlo guardare negli occhi, di sentirlo parlare, di riaverlo vivo.
Il sangue è appena accennato. Come se quell’uomo non avesse patito la violenza delle percosse, dello scherno, del tradimento da parte dei suoi, del peso della croce. E’ un dolore tutto interiore, il corpo non fa che dirne la presenza. Non c’è rabbia in questo dipinto. Non c’è disperazione. Ma è palpabile il senso della fine, l’assenza della vita. E questa assenza di fiato e colore si scontra con la luce che il corpo morto emana: accecante e bianchissima.
Non credo di aver pensato nulla di “spirituale”, forse perché nel tempo ho imparato a diffidare dei passaggi troppo veloci che vanno diritti alla resurrezione. A quella gioia melliflua che è più vicina alla nevrosi che alla fede. Neppure oggi riesco a pensare nulla di “spirituale” di fronte al Cristo crocifisso di D. Velasquez. Porto impressa a fuoco la potenza dell’opera e quando mi riesce la raffronto con tutta la morte, la fine e il dolore che scorgo attorno a me o dentro di me.
Forse, se un’immagine di rimando mi si apre in cuore è quella legata al tempo della gestazione. Così mi appare il dolore: un tempo di nascondimento, silenzio e crescita, fino a che si è pronti a venire alla luce, di nuovo. Se si rimane troppo poco a contatto con il proprio dolore, il parto di se stessi è prematuro, non si è autonomi e ci si sente esposti ad ogni debolezza, se si resta nel grembo del dolore più del tempo necessario, si muore.
Ecco, il Cristo del Velasquez sembra proprio che dalla morte e dalle tenebre fitte, venga alla luce. Non riusciamo a vedere il compimento di questo processo, lo si può intravedere, lo si può sperare, lo si può solo aspettare. Se potessi intitolare io l’opera la chiamerei: L’attesa, perché se una scintilla d’inquietudine la fede accende in cuore è proprio l’affidarsi alla possibilità che un termine al dolore sia stato stabilito per tutti e che il senso del nostro patire ci verrà disvelato: Il Cristo resta in croce da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Un tempo determinato. Poi è il dolore muto e intenso, poi è il buio del sepolcro e poi è… .