Lo vedo ogni giorno, vicino alla casa in cui vivo.
Quando prendo l’auto per andare dal mare alla città lui è lì, al semaforo di una piazzetta circondata da aranci amari, piccole aiuole e sparute panchine quasi arrugginite.
Si chiama Hatef e viene dal Bangladesh.
Non so capire quanti anni abbia, è come se non fosse né giovane né anziano.
Lo ha conosciuto per primo l’uomo che mi vuol bene, poi me lo ha presentato.
Loro spesso si salutano stringendosi la mano, a me, invece, Hatef rivolge un gesto a volte con la testa a volte alzando il braccio. Ha un portamento elegante, perfino quando offre il pacco di fazzoletti o quando domanda se può lavare i nostri parabrezza. Non l’ho visto mai insistere e neppure nascondere lo sconforto per il moltiplicarsi dei dinieghi.
E’ elegante ed è malinconico. A Natale si è tagliato i capelli e si è messo in ordine, aveva il collo come quello dei bambini, nudo e pulito. Hatef possiede un vecchio cellulare e da sette anni non fa ritorno a casa. Ci ha raccontato di avere una moglie e dei figli, il più piccolo di sette anni, appunto, e da come ne parla credo che lui questo figlio non lo abbia mai visto.
Non so con esattezza a che ora cominci a passeggiare su e giù per quell’incrocio, ma verso le tredici fa la pausa pranzo. Appena qualche giorno fa l’abbiamo visto seduto su una di quelle panchine arrugginite, mentre mangiava con evidente appetito da un porta pranzo di plastica e divideva il pane con uno stuolo di piccioni che arrivavano a lui, felici, da ogni dove. Sembrava che davvero fossero amici. E la sua solitudine era dignitosa, quasi romantica, senza apparente disperazione, piuttosto appariva come una condivisione di briciole che moltiplicava una comunione bizzarra tra esseri viventi. Emanava però anche un senso d’assenza assai profondo, impenetrabile.
Dopo pranzo Hatef riposa, sdraiato sulla solita panchina, con la testa infilata in una grossa scatola di cartone. Un po’ per pudore, credo, un po’ per proteggersi dai rumori. Poi, ripone in un angolo il cartone e la coperta e si rimette in piedi fra gli aranci, amari di lontananze e di quotidiana iniquità.
Ma la cosa che di più amo di Hatef è la sua girandola. Lui ne possiede una, di quelle con le eliche di plastica colorata che altri suoi connazionali vendono per pochi euro a semafori non distanti dal suo. Lui, invece, la possiede per se stesso e ogni volta che comincia a lavorare la pianta nelle aiuole umide di mare, per segnalare la sua presenza e sperare, forse, in un raccolto di buoni frutti per la sussistenza. La sera, quando se ne va, la tira via e se la mette sottobraccio, per portarla lì dove Hatef scompare lontano dai nostri sguardi.
Io non lo so qual è la sua storia, so che quest’uomo crede e spera in Allah, e che qualcosa di profondamente ingiusto lo ha strappato alla sua vita e alla sua terra portandolo dal golfo del Bengala al golfo di Mondello. Non so cosa patisce davvero né cosa sogna né tanto meno so se ha o se fa progetti per il suo futuro, se il futuro è per lui una categoria reale. Però, per me, quella girandola che si muove gioiosa sospinta dal vento, messa lì a segnalare a tutti la sua esistenza, è grido ed è canto, un’invocazione e una protesta.
Hatef è un grande poeta muto. E’ poeta d’azione, organizzazione e resistenza.
E i suoi gesti rendono il nostro mondo, che certo non gli sorride, un posto migliore affrettando, spero, il giorno in cui saremo capaci di comunione almeno quanto lo sono i piccioni.