Tutto può accadere, il mare respira.

Palermo.

Ho visto la vita intera, sul mare di Palermo in un riflesso di sole.
Ora sono come un pescatore che tira in barca le reti. Tiro, sollevo, fatico, ma le reti non hanno fine. Ho le braccia stanche e le dita di sangue. Le reti sono fili di lama.
Quel riflesso sul mare della mia città mi aspettava, un’imboscata.
Ha atteso con la pazienza di un cacciatore ed ha esploso il suo colpo appena mi ha vista sotto tiro. Un minuto prima e mi avrebbe mancata, un attimo dopo e mi avrebbe soltanto ferita di striscio. Sarei scappata impaurita e la cicatrice al braccio si sarebbe amalgamata con le cellule fino a non ricordare più nulla.
La mira è stata perfetta. E non c’è cellula che possa inghiottire i segni di quell’esplosione.

Palermo di colpi ne ha sentiti fin troppi, eppure non è mai sazia. Gli scoppi di morte si perpetuano all’infinito, rimbalzano dall’asfalto ai cimiteri, dai cimiteri alle pagine dei giornali, dai giornali alle aule dei processi, come un’eco che non trova riposo.
Gli scoppi di vita non rimbalzano, invece, gli scoppi di vita entrano nel corpo e rimangono in circolo. Trasformano da dentro, giorno dopo giorno. Ci si prova a dimenticarli, si, ma invano. Non si può. Si vorrebbe affidarli al primo cumulo di spazzatura all’angolo di qualsiasi strada, è la paura di scoprirsi capaci di realizzazione, ma per quanto ci si agiti restano attaccati alla pelle.

Non c’è pensiero o sentimento, paura o sussulto del cuore che non sia intrecciato come filo di lana ad un altro, al luogo dove viviamo. Una maglia che non si può sfilare, che non può in alcun modo tornare ad attorcigliarsi come un gomitolo.
Uno scoppio di vita acceca la vista e la percezione della pienezza non è data dal comprendere o intuire cosa esattamente accadrà, ma dalla visione di una potenza possibile, qualunque sarà la sua declinazione.

L’acqua era di cristallo. Circondata di sabbia e di roccia color deserto. Qualche metro dietro le mie spalle il grigio dell’asfalto, in cielo un sole fuori stagione, inopportuno. Un insieme di opposti, un impasto impossibile, elementi differenti che pure hanno imparato a convivere in uno spazio condiviso.
Non si dimentica il disagio né la rabbia di dover abbracciare con lo sguardo, ogni giorno, la gloria e l’inferno, la bellezza e la vergogna.

La rassegnazione dura un momento. L’animo si ammala di sconfitta solo se resta incapace di viaggiare nel tempo:
lo splendore del passato, la miseria del presente, la speranza del futuro,
la miseria del passato, la speranza del presente, lo splendore del futuro,
la speranza del passato, lo splendore del presente, la miseria del futuro.
Quando s’innalzano case di pietra con fondamenta profonde in quello che fu, che oggi è o forse sarà domani, si resta prigionieri di un solo momento che si perpetua inesorabile nel tempo.

Il vento era leggero. L’acqua tremava appena e i cespugli selvaggi ondeggiavano lievi.
Palermo lotta contro i giganti. Anch’io. Non sempre dalla sua parte, ma sempre al suo fianco. Vince una volta su mille, eppure non si ritira. Vince quando la posta in gioco è bassa, a notte fonda, quando il popolo abituato alla vittoria dei giganti si è appisolato, accasciato su sacchi pieni di monete d’oro, facile bottino del più forte.

Cosa accade nella vita di uomo in un sol giorno? Dal mattino fino a sera, quante volte respinge l’assalto dei briganti, quante volte si ritrova i piedi immersi nel fango, quante volte è incoronato re, quante volte difende se stesso e sfida a duello i suoi fantasmi? Quante volte batte la ritirata e mangia il pane amaro del fallimento?

C’era silenzio. Ogni voce taceva a bocca aperta. Ovunque lo stupore delle cose, quando comprendono di poter accadere. Vedere con i propri occhi l’impossibile possibile, per un istante appena e la visione diviene esperienza e l’esperienza è la chiave che apre le porte d’ogni prigione.

Tutto può accadere. Il mare respira.

Di fiore in foglia

Alla terra solitari e muti
l’amor sospiro lieve,
di fiore in foglia
a sé conduce, via.

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Ammutulisci ogni scantu

(Fabio Leone Anto & Portopalo di Capo Passero, Siracusa)

Occhi cechi ca sannu unni iri,
u piscaturi di notti a mari,
n’capu na varcuzza in mezzo a lu scuru

Unni t’innisti vita lucenti?
Ti vitti, lampu nta la notti.
Unni t’innisti?

Ti cercu strati strati
trazzeri e sassi, nta li vigni.
Ti cercu nu funnu di lu mari,
sutta terra spinciu li vrazza
e u focu m’abbrucia li mani.

Unni t’innisti vita lucenti?
Ciuri servaggiu senza viddani,
e giri e curri e scappi
mentri firrìu, io
senza rispiru.

Pigghia a  spada e cummatti,
chiantala dintra lu cori di la morti
di lo so sangu inchiti i manu
e poi dunami carizzi
e ammutilisci ogni scantu.

Cummogghiami di ventu,
parrami,  vucca vicina
lo to ciatu mi grapissi l’occhi,
aria, lustru, rispiru.
Unni t’innisti vita lucenti?

Occhi ciechi che conoscono la direzione,
un pescatore di notte
su una barca avvolta di  tenebre.

Dove sei fuggita vita lucente?
Ti ho visto, lampo nella notte.
Dove sei fuggita?

Ti cerco per le strade
fra le campagne e i sassi, nelle vigne.
Ti cerco in fondo mare,
spingo le mie braccia fin sotto terra
e il fuoco mi brucia le mani.

Dove sei fuggita vita lucente?
Bocciolo selvatico
che giri e corri e scappi
e io su me stessa giro e rigiro
senza respiro.

Sfodera la tua spada e combatti
piantala profonda nel cuore della morte,
del suo sangue riempiti le mani
e poi accarezzami
facendo muta ogni paura.

Ricoprimi di vento,
parlami, bocca vicina
che il tuo fiato apra i miei occhi
aria, luce, respiro.
Dove sei fuggita vita lucente?

Presente, muto.

(foto di Martin Vlach)

(foto di Martin Vlach)

Ho guardato un muto negli occhi.
E’ muto l’amore di chi fugge il contatto,
la pelle che sfiora la pelle.
Ho guardato un muto nel cuore,
forse ho divorato io le tue parole?
Fisso le labbra senza riposo,
aspetto di vedere il buio della bocca appena socchiusa,
quelle tenebre che solo il fiato dirada veloce.
Il suono, la lingua che danza,
gli occhi vivaci che tengono il ritmo.
Ho resistito in equilibrio,
sul filo di terra a strapiombo sul niente,
passi quotidiani all’indietro
per sfuggire al silenzio che divora lo spazio.
Tra noi praterie sterminate di desideri incolti,
fiori, erbacce e alberi forti.
Muto l’amore dai piedi di piombo,
che non corrono,
che non fuggono,
né lontano né vicino.
Se corro via, tu resti lì,
se rimango non ti avvicini di un passo.
Ovunque io vada, la distanza non si allunga,
ovunque io sia, tu resti qui.
Presente e muto.
Il silenzio sazia la rabbia,
i fantasmi trattengono il sonno in ostaggio
e fanno della notte, giorno
e del giorno tenebre fitte.
Muto e in tempesta il mare,
furioso e silenzioso
con il porto sempre a vista
e irragiungibile,
un’ancora senza terra da toccare
che scende a vuoto
legata ad un filo infinito.
E non è vero niente
e non è falso niente.
Solo la mia voce,
solo i miei errori
recitati a memoria davanti allo specchio.
Il tempo non trova più la strada
non procede diritto
non ha meta,
si attorciglia attorno al corpo,
lega i piedi,
copre gli occhi,
serra le mani
e gira e gira.
La speranza vanitosa
cambia ogni giorno la sua veste,
si tinge, si trucca, cambia faccia
ed è estranea ogni volta,
vicina e irriconoscibile.
Sono io che non sento?
Sono io che non sento?
Ho perso l’udito e la fame,
sono io che non sento.
Amore muto,
labbra serrate da dolori antichi,
che le tue parole trovino la via di uscita,
e possano crescere forti,
posarsi ovunque, germogliare,
arrampicarsi veloci sui muri,
saltare gli ostacoli,
attraversare i mari.
E alle mie orecchie, rese sorde dalla troppa attesa
possa giungere notizia, un giorno,
delle tue labbra socchiuse alla gioia.

Settembre senza titolo

Foto di Herbert List.

Foto di Herbert List.

Pensavi fossero eterne le mie risate?
Gioco di rincorse tra le ombre del vento.
Fuori
trema la terra di lievi sospiri.
Dal buio alla luce,
le tue palpebre d’oro,
si apre e si schiude la bocca
un migrare di sillabe mute.
Lontano,
riposa il corpo stremato,
l’occhio non dorme,
fame, sete, scintille.
Tutto il presente in un punto
fisso
il passare dei giorni.
Fuoco di viscere in fiamme,
il sangue su palmo di mani,
foglie di rami sugli occhi.
Viene il futuro all’indietro
cieco
su strade di fame.

Di notte, a Palermo.

(foto di Lucia e Giulia Lo Porto)

(foto di Lucia e Giulia Lo Porto)

S’addummisciu lu celu
e lu scuru mi trasiu nta l’ossa.
Lu cori, lu me cori si voli manciari!
Pi saziarisi di tia, ca dintra di mia t’ammucci.
Ti truvau a tenebra, amori miu,
ma io scappo e curru
e t’addifiennu e ieccu vuci,
ca lu scuru si scanta
di li peri nudi
ca currunu nta la notti
,
si scanta di l’occhi mei
d’amuri addumati,
si scanta di mia ca cantu,
di li balati ca luciunu di luna,
di i statui vistuti di biancu,
di la storia,
ca ferita a morti un chiui l’occhi
e s’attacca a li mura
e risisti.

Si è addormentato il cielo
e il buio mi entra nelle ossa.
Il cuore, il mio cuore vuole divorare!
Per saziarsi di te, che dentro di me ti nascondi.
Ti hanno trovato le tenebre, amore mio, ma io scappo e corro
e ti difendo e grido,
perchè le tenebre si spaventano
dei piedi nudi che corrono nella notte,
temono i miei occhi vivi d’amore,
si spaventano di me che canto,
della strada che brilla di luna.
delle statue vestite di bianco.
della storia che ferita a morte
non chiude gli occhi,
ma si attacca alle mura
e resiste.

Ci su i ciuri in funnu u mari

Palermo

– Io, mi chiamu Illuminata.
– Io mi chiamu, Luciu.
– E c’è u mari unni stai tu?
– Se! E ci su i pisci! E quannu c’è a luna china, cantanu.

– Lucio era un cummidianti! Quannu ci virìa ci iava sempri a vidillu. Ma pure l’orbi u virianu a Luciu! Era na festa.. Poi iu chiuria l’occhi e u sintia: “Illuminata, Illuminata, Illuminata, illuminata! Vuccuza ruci…occhi ri fata! Na canzuni d’amuri iu ti vulissi cantari, ma tu un mi senti ed io ti ti pozzu sulu taliari”. Lucio era innamuratu ra luna. Ma era lariu, era sciancatu, immurutu, aveva un brazzu sulu…e a luna unnu vuosi! Na notti si misi na varca e sinniu in mezzu u mari e un turnò, chiù.

– Chistu è u mari!
– Chi granni! Un finisci mai…
– Finisci unni finisci u cielu!
– Chi ciauru!
– Ci su i ciuri in funnu u mari… Si unu cari a mari, si vagna! U mari e comu l’acqua!-
– Cu è chiddu na varca?
– Luciu! E’ innamuratu ra luna e a voli iri a truvari.
– E picchì firrìa sempri intunnu?
– Avi un vrazzu sulu! Mischinu!
– Mischinu! E comu fa a rimari!

da Lucio di Franco Scaldati

Nun sugnu poeta

(Archivio audiovisivi FS)

(Archivio audiovisivi FS)

Non pozzu chiànciri
ca l’occhi mei su sicchi
e lu me cori
comu un balatuni.

La vita m’arriddussi
asciuttu e mazziatu
comu na carrittata di pirciali.
Non sugnu pueta;
odiu lu rusignolu e li cicali,
lu vinticeddu chi accarizza l’erbi
e li fogghi chi cadinu cu l’ali;
amu li furturati,
li venti chi strammíanu li negghi
ed annèttanu l’aria e lu celu.

Non sugnu pueta;
e mancu un pisci greviu
d’acqua duci;
sugnu un pisci mistinu
abituatu a li mari funnuti.

Non sugnu pueta
si puisia significa
la luna a pinnuluni
c’aggiarnia li facci di li ziti;
a mia, la menzaluna,
mi piaci quannu luci
dintra lu biancu di l’occhi a lu voj.

Non sugnu pueta
ma siddu è puisia
affunnari li manu
ntra lu cori di l’omini patuti
pi spremiri lu chiantu e lu scunfortu;
ma siddu è puisia
sciògghiri u chiacciu e nfurcati,
gràpiri l’occhi a l’orbi,
dari la ntisa e surdi
rumpiri catini lazzi e gruppa:
(un mumentu ca scattu!)

Ma siddu è puisia
chiamari ntra li tani e nta li grutti
cu mancia picca e vilena agghiutti;
chiamari li zappatura
aggubbati supra la terra
chi suca sangu e suduri;
e scippari
du funnu di surfari
la carni cristiana
chi coci nto nfernu:
(un mumentu ca scattu!).

Ma siddu è puisia
vuliri milli
centumila fazzuletti bianchi
p’asciucari occhi abbuttati di chiantu;
vuliri letti moddi
e cuscina di sita
pi l’ossa sturtigghiati
di cu travagghia;
e vuliri la terra
un tappitu di pampini e di ciuri
p’arrifriscari nta lu sò caminu
li pedi nudi di li puvireddi:
(un mumentu ca scattu!).

Ma siddu è puisia
farisi milli cori
e milli vrazza
pi strinciri poviri matri
inariditi di lu tempu e di lu patiri
senza latti nta li minni
e cu lu bamminu nvrazzu:
quattru ossa stritti
a lu pettu assitatu d’amuri:
(un mumentu ca scattu!)

datimi na vuci putenti
pirchi mi sentu pueta:
datimi nu stindardu di focu
e mi segunu li schiavi di la terra,
na ciumana di vuci e di canzuni:
li sfarda a l’aria
li sfarda a l’aria
nzuppati di chiantu e di sangu.

(Ignazio Buttitta – Settembre 1954 – Tratto da: “Lu pani si chiama pani” )

Lasciami andare

(foto di ©Felicia Simion)

(foto di ©Felicia Simion)

Lasciami andare ove il fato mi vuole,
lasciami andare!
Sono assetata di gloria e di sole,
Lasciami andare!

Non mi sgomenta il periglio remoto,
La meta oscura.
Sfido le tenebre, sfido l’ignoto!
Non ho paura.

Ozio codardo,
ti sprezzo e detesto,
Lasciami andare!
Ferree catene, v’infrango e calpesto,
Voglio lottare.

Schiava, o fantocci, del vostro comando
Io non sarò.
Viver dormendo, morir sbadigliando
Non voglio, no!

Voglio combattere, voglio soffrire!
Vita, e se credi,
Ancor combattere voglio, e morire
Su ritta in piedi!

Lasciami andare ove il fato mi vuole,
Lasciami andare!
Sono assetata di gloria e di sole!
Lasciami andare!

( Annie Vivanti, da Lirica – 1890)

 

Risvegli

Furia.
Moto ondoso e convulso
Nero mare in tempesta
schiuma violenta,
rifiuta l’ipocrito dire,
nome divino su labbra vane.

Piccoli uomini e donne vestiti da giganti
al timone di coscienze
bava di potere, lupi con manto d’agnello
imparate ad usare il cuore
che tenete prigioniero in stiva.

Rinnega te stesso, t’illudi
tu che sei estraneo al tuo corpo
anima abusiva nella carne di Dio.
Imparate ad avere il corpo!
Che tenete prigioniero in stiva.

Per la vostra anima candida
sgozzate
mani d’artiglio tra le viscere
di creature del giorno sesto,
immagine e somiglianza
in frammenti dispersi.

Furia di cuori ribelli
armati di rabbia subita
sangue d’errore e peccato, noi.
Testimoni, servi di Dio
brama d’umiltà, ghigno malvagio.

Furia di cuori ribelli,
passione, fiato
arti bloccati dal fango
miseria
superbia per risalire,
montagne di disperazione
noi, corpo, desiderio che esplode
follia
noi, eccesso e bestemmia.

Furia di cuori ribelli,
grida
urla dal fuoco,
il Nome, Eserciti e Schiere su labbra violate
dalle vostre parole violente.
Collare da schiavo alla gola di Dio.

Pietà
a riempire lo squarcio
dannati ma umani,
nascosti dall’ombra
di voi fantasmi
involucri vuoti.
Noi, raggiunti
da sangue e salvezza.
Voi, angeli dalle piume morte.
Pietà.