“Abbiamo perso le scarpe nel deserto”. E’ la frase pronunciata dalle donne migranti arrivate in questi giorni, scalze, al porto di Trapani.
Io il deserto lo conosco a granelli sparsi, portati dallo scirocco sui balconi della mia città. E senza scarpe lo sono spesso nei sogni, nei sogni brutti, nei sogni che danno sfogo e offrono chiavi d’interpretazione alle inquetudini del giorno. Senza scarpe lo sono sulla sabbia del mare, quando l’estate diventa vacanza e granite al limone. Se corro sulla sabbia è per giocare, per non bruciarmi i piedi, dall’ombrellone al mare.
Mi chiedo cosa si provi a partire dalla propria casa con le scarpe e a raggiungere una terra straniera a piedi nudi.
Il deserto non è fatto per correrci dentro, il deserto se ci corri dentro si mangia le scarpe.
Il deserto non è fatto per la paura né per la fretta. Il deserto, la paura e la fretta spogliano i piedi. Nel deserto la disperazione è un carburante, fa macinare i Km. Così raccontano, le donne senza le scarpe. Raccontano di fuga, di granelli infiniti come la disperazione.
Il viaggio dall’Africa all’Italia è fatto di sabbia e acqua, di deserto e mare. Di contrari e di eccessi, dune e onde, calura e notti fredde. E di buio. Perchè il buio del deserto è come il buio del mare, è il buio più scuro che c’è. Attraversare il deserto, attraversare il mare. Il deserto ruba le scarpe, il mare si mangia gli amici, le amiche, i mariti, i figli, le figlie, i fratelli e le sorelle. Mare ingordo, deserto ladro!
Le donne che attraverano il deserto hanno i piedi scalzi, lasciano andare via le scarpe per arrivare alla meta. Tengono stretti i bambini fra le braccia e i loro uomini attaccati agli occhi, per non perdersi, per non raggiungere da vedove le sponde della speranza. Nel deserto il mondo si capovolge: non si fugge per vigliaccheria, si scappa per overdose di coraggio. E non si corre lontani dalla morte, gli si va incontro per un corpo a corpo, a viso scoperto.
A cosa si penserà mai su quei gommoni, senza spazio, senza corpo, senza voce e senza scarpe; quale potenza possiede la vita quando la sopravvivenza è il maggior desiderio possibile?
Quando muore qualcuno, qui, da noi, pensiamo, nel dolore, ad occuparci del corpo: noi vestiamo i morti, cerchiamo di dar loro un aspetto dignitoso, compriamo le bare, organizziamo i funerali. Le donne senza scarpe no. Non vestono nessuno, non si occupano del corpo. Quando si muore sulla barca gli scafisti buttano i cadaveri in mare, quando si muore in mare i pesci vedono la morte invadere, prepotente, i loro abissi. I pesci non hanno le scarpe, neppure loro. Non hanno i piedi e non hanno le braccia. “Se solo i pesci avessero le braccia!”. Forse pensano questo le donne mentre vedono gli amici e i mariti, le sorelle, i figli e i fratelli affogare, giù. “Se solo gli uomini avessero un cuore!”, pensano forse i pesci, mentre la morte nera prende possesso della loro vita blu.
Chissà cos’altro hanno perduto quelle donne nel deserto. Forse i loro ricordi di bambine, i giochi per le strade, le voci delle loro nonne. Forse hanno perduto gli odori delle loro terre, il suono della loro lingua sempre più flebile, correndo dentro al deserto.
Forse il deserto oltre alle scarpe ruba pure i ricordi, così come gli scafisti rubano i documenti. Il viaggio dall’Africa all’Italia ruba le scarpe, gli amici, i ricordi, i documenti. Il viaggio dalla disperazione alla speranza divora identità.
Eppure quando attraccano ai nostri porti le donne a piedi nudi mi sembrano giganti e quasi vorrei io attraccare a quel desiderio di vita che straripa abbondante dagli occhi, forte, come i blocchi di pietra che arginano il mare. Non sanno ancora le donne-giganti a piedi nudi d’essere arrivate in un’Europa abitata da nani deboli, a volte meschini, naufraghi infelici nel loro mare di scarpe.
Mare ingordo, deserto ladro.
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