Tutto finì, così rapito!
Precipitoso e lieve
il tempo ci raggiunse.
Di fuggevoli istanti ordì una storia
ben chiusa e triste.
Dovevamo saperlo che l’amore
brucia la vita e fa volare il tempo.
Passato, Vincenzo Cardarelli
Tutto finì, così rapito!
Precipitoso e lieve
il tempo ci raggiunse.
Di fuggevoli istanti ordì una storia
ben chiusa e triste.
Dovevamo saperlo che l’amore
brucia la vita e fa volare il tempo.
Passato, Vincenzo Cardarelli
Qual ponte, muti chiedemmo, qual ponte abbiamo noi gettato sull’infinito, che tutto ci appare ombra di eternità?
A qual sogno levammo la nostalgia della nostra bellezza?
da Il viaggio e il ritorno di Dino Campana.
Vorrei essere bella come una serra abbandonata,
farmi crescere dentro vegetazioni selvagge, disordinate,
spontanee,
arruffate,
coi rami infrangere vetri
nuovi germogli che allungano verso il cielo.
Crescere,
piano piano,
piegar le sbarre di ferro,
uscir fuori
e seguir luce
aria
acqua
nutrimento.
Con le radici
strabordare i vasi
e spaccare, spaccare, spaccare il cemento.
Ho molta fede in te, mi sembra che saprei aspettare la tua voce in silenzio, per secoli di oscurità. Tu sai tutti i segreti, come il sole: potresti far fiorire i gerani e la zàgara selvaggia sul fondo delle cave di pietra, delle prigioni leggendarie. Confidare, Antonia Pozzi.
Un amico d’infanzia, dopo questa canzone mi ha detto che “È bellissima, un incubo riuscito! Ma dimmi…sogni spesso le cose che hai scritto oppure le hai inventate solo per scandalizzarmi?”.
Amore amore… naviga via, devo ancora svegliarmi…
(Cercando un altro Egitto, Francesco De Gregori)
Dove fiorisce il rosmarino c’è una fontana scura
dove cammina il mio destino c’è un filo di paura
qual è la direzione nessuno me lo imparò
qual è il mio vero nome ancora non lo so.
da “Canto del servo pastore” di Fabrizio De Andrè
Perché un incontro sia importante non serve il contatto quotidiano né che su ogni cosa si sia d’accordo. Non importa nemmeno avere la stessa visione della vita, delle relazioni o delle persone. Ciò che conta è che da quell’incontro qualcosa di veramente importante nasca e che non si prosegui il cammino senza nulla di immutato.
Antonio Mercadante è stato il fotografo del mio libro “Orlando allo specchio. Uomini e pupi nel teatro di Mimmo Cuticchio”. Quando ci siamo incontrati, a mio avviso, il testo era completo. Restavano da fare solo le foto e la cosa mi riguardava relativamente. Ma lui non era d’accordo. Perché? Perché nel libro mancavo io e quel che i pupi, nel lavoro quasi triennale con Mimmo Cuticchio, avevano significato per me: “Se non mi racconti la tua esperienza io i pupi non li posso fotografare”, mi disse.
Scrissi allora alcune pagine e gliele mandai. “No, non ci siamo – rispose – ancora non ti vedo”. E’ stato frustrante. Poi un pomeriggio, quasi raccogliendo una sfida, decisi di provare a scrivere qualcosa di davvero mio che non gli avrei di certo mandato, però!
Fu un’esperienza di scrittura molto intensa: le parole sgorgavano come da una sorgente sommersa che non credevo di possedere e mi accorsi quanto l’esperienza vissuta dentro al teatro dei pupi avesse cambiato il mio sguardo, dandomi la possibilità di vedere, osservare e comprendere dal di fuori il mio mondo interiore. Il miracolo del teatro!
“Adesso si!”, mi scrisse, quando decisi, invece, di inviare le mie pagine e mettermi in gioco per davvero. Adesso lui mi vedeva e, diceva, poteva entrare in relazione con i pupi per poterli fotografare mostrandone l’animo, la personalità, la vita.
Così è stato.
Antonio è morto improvvisamente martedì scorso. Ad un’età nella quale ancora la morte sembra uno sfregio, una disarmonia, una stonatura, un furto.
Per ricordare il nostro incontro il gesto più vero mi pare quello di pubblicare un paragrafo di “Orlando allo specchio”, accompagnato da una suo scatto, Clorinda, il mio personaggio preferito, la donna che mi ha insegnato il valore d’essere chi si è. Senza Antonio probabilmente non l’avrei mai amata tanto.
Grazie Antonio. Riposa in pace.
Clorinda
Clorinda la vidi da vicino solo dopo aver assistito al suo duello con Tancredi. Molto dopo. Fino a quel momento era per me più una sagoma che un volto. Era una storia, una storia forte che mi aveva lasciata commossa e sgomenta, coinvolta e pensierosa.
Tornando a casa, a spettacolo terminato, cercai i versi della Gerusalemme liberata che narravano la sua vicenda, lessi con attenzione e cercai di ricomporre nella mia mente l’accaduto, accostando in una sintesi personalissima le parole di Torquato Tasso al cunto di Mimmo Cuticchio. Pensavo che lo spazio vuoto scavato in cuore dallo spettacolo potesse essere colmato dallo studio dei versi o dal ripercorrere mentalmente le parole e il ritmo del cunto. Non fu così. Lasciai che il vuoto rimanesse tale, in attesa di trovare le risposte che cercavo o forse sperando che le domande mi sorgessero più distinte, comprensibili.
Le settimane si susseguirono veloci tra il lavoro, la stesura del libro, gli incontri con il maestro e il vuoto ne restò sommerso, non colmato, fino al pomeriggio in cui, aspettando che Mimmo Cuticchio mi raggiungesse nel suo laboratorio, mi voltai e la vidi. Era bella. Bellissima. Mi chiesi se avrebbe mai potuto affascinarmi così se non avessi saputo chi fosse, se l’avessi vista prima di conoscere la sua avventura tanto intricata e dolorosa. Non lo so. So che il suo volto mi sembrò velato di un dolore invincibile, ma non disperato. Mi spaventò pensare che il dolore potesse apparirmi “bello”, ma non era il dolore a conferirle bellezza, era il modo in cui Clorinda lo portava addosso. Clorinda ha la pelle scura, olivastra, un naso pronunciato e due labbra carnose, i capelli, scuri anch’essi, lunghi e ondulati. Gli occhi sono blu,come il mar mediterraneo nelle belle giornate d’inverno e pare guardino dritto davanti a sé, ma in realtà non seguono nessuna direzione, gli occhi di Clorinda guardano altrove.
A cosa guardi Clorinda? Cosa vedi che io non riesco a scorgere? Come si porta addosso il dolore così, come un abito tagliato su misura? Come una veste solenne che non è per il lutto né per i giorni di festa? Come si fa a credere di essere qualcuno per una vita intera per poi scoprire, senza soccombere, che tutto deve cambiare? Che si è altro? Che la verità stava rannicchiata dentro al cuore, come un bimbo nel grembo, scalciando e invocando il diritto di vedere la luce?
A Clorinda accade tutto al momento della sua nascita e tutto al momento della sua morte. In mezzo una vita intera in attesa di un compimento veloce, estremo, inatteso, tragico e dolcissimo. Se sapessimo prima il modo in cui ci deve accadere la vita! Moriremmo di paura o di presunzione. Penseremmo di non poter sopportare quello che ci aspetta o di poterlo affrontare per averne conosciuto prima gli eventi. Affrontare l’inatteso mentre si compie è, invece, l’unica sorte possibile, la nostra sola abilità.
Io vorrei sapere come hai fatto, cosa hai provato quando ti hanno detto che ciò che difendevi, che quello a cui credevi non era tuo, che combattevi non un nemico, ma te stessa, che quanto cercavi di sconfiggere e di cacciare lontano da te, ti apparteneva. Dove hai trovato la forza di continuare a combattere? Sotto i colpi di spada, il sudore della battaglia, il sangue a chi pensavi Clorinda? Pensavi allo sguardo di Tancredi? Agli occhi che gli avevi rapito?
Ma era la tua identità ad essere in gioco e Clorinda poteva non combattere per Clorinda? All’improvviso il tuo corpo, la tua vita, tu, tutta intera ti sei trasformata nel campo di battaglia per la conquista di te stessa. Vorrei sentire da te parole di speranza, un incoraggiamento a non temere la battaglia, a sopportare la fatica nella comprensione di se stessi, fino all’ultimo duello. Vedo in te l’assenza di misure di mezzo: tutta la vita, tutta la morte e tutto l’amore ti hanno raggiunta e tu sei stata pronta, non ti sei sottratta. Forse hai avuto paura, ma sei rimasta. E non importa se l’uomo che ti amava lo hai amato tutto in un solo momento, se lo hai incontrato in un solo sguardo, se è stato per te l’opportunità di conoscerti senza poter ricambiare il favore, se tu sei stata veramente te stessa appena il tempo di renderti conto che la vita era finita, tutta sparsa in quel sangue che proprio il tuo desiderio di vivere aveva versato.
Non c’è spargimento di sangue nell’opera dei pupi. Il sangue che sentiamo scorrere copioso è il nostro, quello che ci corre dentro mentre assistiamo agli spettacoli, partecipi dei duelli, delle grandi battaglie, degli scontri valorosi. Nei pupi riflettiamo noi stessi, alla loro vita ci appassioniamo e, fosse pure senza immediata consapevolezza, cresce in noi la passione per quanto ci appartiene. A me è accaduto così. Da Clorinda ho imparato che ciò che siamo realmente e che sempre si trasforma non può restare nascosto, prima o poi viene a galla, la luce della vita lo attrae e seppure si tenta di mantenere il controllo di ciò a cui si è oramai abituati, l’identità si dimena e ci dilania fino a quando non trova la strada per raggiungerci. E quando, finalmente, ci permettiamo di esistere allora la vita diventa urgente e l’amore diventa urgente e l’unica unità di misura applicabile alla vita come all’amore è l’intensità.
da Orlando allo specchio. Uomini e pupi nel teatro di Mimmo Cuticchio, Edizioni Lussografica, 2016.
Lo vedo ogni giorno, vicino alla casa in cui vivo.
Quando prendo l’auto per andare dal mare alla città lui è lì, al semaforo di una piazzetta circondata da aranci amari, piccole aiuole e sparute panchine quasi arrugginite.
Si chiama Hatef e viene dal Bangladesh.
Non so capire quanti anni abbia, è come se non fosse né giovane né anziano.
Lo ha conosciuto per primo l’uomo che mi vuol bene, poi me lo ha presentato.
Loro spesso si salutano stringendosi la mano, a me, invece, Hatef rivolge un gesto a volte con la testa a volte alzando il braccio. Ha un portamento elegante, perfino quando offre il pacco di fazzoletti o quando domanda se può lavare i nostri parabrezza. Non l’ho visto mai insistere e neppure nascondere lo sconforto per il moltiplicarsi dei dinieghi.
E’ elegante ed è malinconico. A Natale si è tagliato i capelli e si è messo in ordine, aveva il collo come quello dei bambini, nudo e pulito. Hatef possiede un vecchio cellulare e da sette anni non fa ritorno a casa. Ci ha raccontato di avere una moglie e dei figli, il più piccolo di sette anni, appunto, e da come ne parla credo che lui questo figlio non lo abbia mai visto.
Non so con esattezza a che ora cominci a passeggiare su e giù per quell’incrocio, ma verso le tredici fa la pausa pranzo. Appena qualche giorno fa l’abbiamo visto seduto su una di quelle panchine arrugginite, mentre mangiava con evidente appetito da un porta pranzo di plastica e divideva il pane con uno stuolo di piccioni che arrivavano a lui, felici, da ogni dove. Sembrava che davvero fossero amici. E la sua solitudine era dignitosa, quasi romantica, senza apparente disperazione, piuttosto appariva come una condivisione di briciole che moltiplicava una comunione bizzarra tra esseri viventi. Emanava però anche un senso d’assenza assai profondo, impenetrabile.
Dopo pranzo Hatef riposa, sdraiato sulla solita panchina, con la testa infilata in una grossa scatola di cartone. Un po’ per pudore, credo, un po’ per proteggersi dai rumori. Poi, ripone in un angolo il cartone e la coperta e si rimette in piedi fra gli aranci, amari di lontananze e di quotidiana iniquità.
Ma la cosa che di più amo di Hatef è la sua girandola. Lui ne possiede una, di quelle con le eliche di plastica colorata che altri suoi connazionali vendono per pochi euro a semafori non distanti dal suo. Lui, invece, la possiede per se stesso e ogni volta che comincia a lavorare la pianta nelle aiuole umide di mare, per segnalare la sua presenza e sperare, forse, in un raccolto di buoni frutti per la sussistenza. La sera, quando se ne va, la tira via e se la mette sottobraccio, per portarla lì dove Hatef scompare lontano dai nostri sguardi.
Io non lo so qual è la sua storia, so che quest’uomo crede e spera in Allah, e che qualcosa di profondamente ingiusto lo ha strappato alla sua vita e alla sua terra portandolo dal golfo del Bengala al golfo di Mondello. Non so cosa patisce davvero né cosa sogna né tanto meno so se ha o se fa progetti per il suo futuro, se il futuro è per lui una categoria reale. Però, per me, quella girandola che si muove gioiosa sospinta dal vento, messa lì a segnalare a tutti la sua esistenza, è grido ed è canto, un’invocazione e una protesta.
Hatef è un grande poeta muto. E’ poeta d’azione, organizzazione e resistenza.
E i suoi gesti rendono il nostro mondo, che certo non gli sorride, un posto migliore affrettando, spero, il giorno in cui saremo capaci di comunione almeno quanto lo sono i piccioni.
Coltiviamo per tutti un rancore
che ha l’odore del sangue rappreso,
ciò che allora chiamammo dolore
è soltanto un discorso sospeso.
– Fabrizio De Andrè, La Ballata degli impiccati.
“Dal vivo” è un’espressione che ha molteplici significati:
1. che assume come modello diretto la realtà: ritratto dal vivo; ritrarre, dipingere dal vivo;
2. di programma radiofonico o televisivo, trasmesso in diretta; trasmettere dal vivo;
3. di concerto, brano o incisione discografica, eseguito e registrato al di fuori della sala di registrazione, direttamente a contatto con il pubblico: disco, esecuzione dal vivo
4. di brano vocale o strumentale, eseguito senza l’ausilio del playback; cantare dal vivo.
Ma il vocabolario non dice nulla sulle emozioni o sulle esperienze, è il limite di tutte le definizioni lasciar fuori qualcosa.
Pensare, desiderare di dare un bacio non è come dare un bacio “dal vivo” e cercare su google foto dell’oceano non è come vederlo, odorarlo, ascoltarlo “dal vivo”.
Per questo motivo all’inizio dell’anno scolastico che adesso volge al termine, abbiamo pensato ad un progetto che permettesse ai ragazzi di sperimentare “dal vivo” ciò che troppo spesso arriva loro come una cascata di parole morte, confuse, stereotipate, violente, vuote. Lo abbiamo chiamato “IntegrAzione” e realizzarlo è stato bellissimo.
Due seconde classi, due indirizzi diversi: tecnico chimico e liceo scientifico (sez. B e T dell’I.S. Majorana, Palermo), una trentina di ragazzi quindicenni che, per loro stessa testimonianza, hanno vissuto un’esperienza in grado di mutare il modo di guardare e considerare il fenomeno dei flussi migratori.
Li abbiamo scritti sulla lavagna, bianco su nero, gli stereotipi legati ai migranti:
– Sono terroristi
– Ci stanno invadendo
– Portano malattie
– Rubano il lavoro agli italiani
– Puzzano
– Non pagano l’affitto
– Non sono poveri perché hanno il cellulare
– Delinquono.
E li abbiamo visti crollare uno ad uno questi stereotipi, man mano che ascoltavamo la testimonianza di chi lavora nella prima accoglienza, di chi conosce i paesi di provenienza dei migranti, man mano che studiavamo i decreti del parlamento europeo a riguardo, valutavamo gli interessi economici dietro agli accordi dei nostri governi con la Libia e con la Turchia, guardavamo documentari, imparavamo insieme ad osservare la realtà così com’è e non come ci viene restituita da Facebook, da Striscia la Notizia e o dalle Iene Show. Abbiamo mostrato come si fa a riconoscere una “bufala” da una “notizia” e indicato fonti di informazione credibili. E così, settimana dopo settimana, bianco su nero, gli stereotipi e i luoghi comuni hanno fatto posto alle domande sorte nell’animo dei ragazzi grazie alle nuove conoscenze e consapevolezze acquisite:
– Perché se Russia e Cina appoggiano la dittatura di Bashar al Assad in Siria la comunità internazionale lascia morire mezzo milione di civili?
– Perché in Germania i migranti aumentano il Pil del paese e noi li teniamo chiusi nelle prigioni dei “centri di identificazione ed espulsione”?
– Perché l’Europa non si mette mai d’accordo con una politica comune sulle migrazioni?
– Perché tutti dicono che i neri non li vogliono, ma poi ci sono le macchine ferme davanti alle prostitute di colore?
Sono ottimi osservatori i ragazzi, vero? Osservatori spietati a volte. Ci inchiodano alle nostre contraddizioni, ma è una buona cosa, è l’obiettivo a cui tendiamo.
Quando la dott.ssa Marta Bellingreri è venuta a scuola per incontrare i ragazzi ed ha parlato loro dei suoi viaggi nei paesi arabi e della sua personale esperienza, fatta di incontri con persone in cammino verso l’Europa, facendo vedere foto e narrando storie, i ragazzi hanno ascoltato per un’intera ora senza fiatare. Era un’esperienza diretta, “dal vivo” e non hanno fatto fatica a prestare attenzione.
Lo stesso è accaduto con i due giovani medici che operano a bordo delle navi di soccorso nel canale di Sicilia, il dott. Davide Di Spezio e il dott. Salvo Zichichi. I loro racconti e le fotografie che hanno portato per documentare il lavoro svolto sono stati un pugno allo stomaco. Qualcuno tra i ragazzi strizzava gli occhi, qualcun altro si metteva la mano davanti alla bocca. Quanto è terribile la realtà e quanto ci vien facile renderla invisibile! I due medici hanno risposto con pazienza a tutte le domande ed hanno raccontato di non aver mai avuto a che fare con persone affette da malattie in grado di scatenare chissà quale epidemie nel nostro paese. Piuttosto devono far fronte ad ipoglicemie e disidratazioni, a difficoltà di deambulazione per i giorni in cui i migranti stanno fermi, rannicchiati in un angolo su un barcone in balia del mare, devono far fronte ad ustioni da carburante e ai primi certificati di morte per i corpi senza nome che non sono riusciti a rianimare o ad afferrare per i capelli mentre li vedevano andare giù. Era anche questa una testimonianza “dal vivo”, molto più forte di qualunque video o documentario o lezione ben preparata sul fenomeno migratorio.
Infine, hanno parlato due ragazzi provenienti dal Senegal e dal Gambia, due ragazzi che la nostra scuola la frequentano e che hanno avuto un coraggio da giganti a raccontarsi di fronte ai compagni. La loro testimonianza non la riporto in questo articolo, perché io non ho un coraggio da gigante e le cose terribili che hanno raccontato proprio non le so ripetere. Sono parole che vanno ascoltate “dal vivo”, appunto, con l’emozione di apprendere dalla loro voce cosa han dovuto affrontare e di vederli incredibilmente vivi davanti ai propri occhi. Penso, invece, che sia più importante raccontare della compostezza e della dignità con cui hanno condiviso la loro storia, della evidente fatica del sopportare lo stereotipo del “povero negro”, perché loro non erano poveri e non erano infelici nel loro paese, prima che la dittatura divenisse soffocante e pericolosa, prima che le bande mafiose minacciassero la morte ogni santo giorno. Uno di loro sogna di fare il medico, l’altro di diventare un atleta. Alla fine del loro racconto hanno ringraziato pubblicamente me, la mia collega, che tanto ha concretamente fatto per loro, i medici presenti, i compagni e gli italiani, poiché gli stanno offrendo “la possibilità di essere piano piano di nuovo felici”.
A me il loro grazie è sembrato ingiusto e immeritato, perché accogliendoli noi non stiamo facendo un favore a nessuno, ma semplicemente mettiamo in atto un diritto, riconosciuto dalla Carta internazionale dei diritti dell’uomo e sancito dalla nostra Costituzione all’art.10: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.
La speranza è che i ragazzi che hanno partecipato al progetto sentendo mutare in tempo reale lo sguardo sulla realtà, così come loro stessi hanno detto, scritto, raccontato a noi professoresse, alimentino questa metamorfosi e se ne ricordino quando saranno chiamati al voto e alla responsabilità delle loro scelte personali. Speriamo altresì che la scuola, in tutte le sue componenti, sappia riconoscere la presenza dei ragazzi stranieri, i presenti e quelli che verranno, come una risorsa preziosissima grazie proprio a queste loro storie, alle esperienze di vita e anche per le numerose lingue che conoscono, per le diverse tradizioni e culture di cui sono testimonianza viva. Lavoriamo perché la scuola sia profetica, che possa cioè mostrare modelli di una società migliore e che non sia, invece, specchio di una non-cultura della finzione, della mentalità del “non sono razzista però…”. Speriamo che la scuola sia officina operosa di cose nuove che rischiano il cambiamento e sempre promuovono la persona.
Perché la foto del morso sulla coscia di una donna salvata dalla morte nel nostro mare, il morso di chi nel tentativo di non affogare si attaccava coi denti alla vita, una foto vera, scattata e raccontata “dal vivo”, possa veramente restituirci il senso di quel che viviamo e di quel che facciamo.
P.s. E a proposito, tutti gli esperti intervenuti hanno dedicato il loro tempo e le loro competenze a titolo totalmente gratuito. Andava detto. A loro il nostro sentito e sincero ringraziamento.