L’ospedale è un altro pianeta.
Basta varcare la soglia per sentire mutare il paesaggio, il clima, la lingua.
In ospedale non è più né giorno né notte e non esiste né passato né futuro. Solo un presente semi incosciente illuminato a neon.
Tutti dotati di mascherina e tutti a distanza. Tranne i bambini piccoli come il mio che conservano il diritto delle narici a soffio libero e delle mani per esplorare.
Mentre sdraiato sul lettino sperimentava i primi aghi in vena, avevo solo gli occhi per dirgli che sarebbe passato presto.
Eravamo tutte mamme senza sorriso o smorfie di sgomento. Ad ogni incrocio di sguardi davamo vita ad un nuovo alfabeto senza suoni e con le sopracciglia e l’anima nelle pupille ci davamo quel che avevamo: coraggio, paura, forza, la condivisione di un’infinita, infinita stanchezza.
La pandemia in ospedale rende le madri più sole, nessuno può darci il cambio. Ho visto donne piangere per la paura di dover affrontare da sole il ricovero dei figli: avevano lo sguardo perso nell’incertezza e le braccia obbedienti alla solidità del lavoro quotidiano: carezzare, lavare, asciugare, pettinare i capelli.
Nelle sale del Pronto Soccorso appesi alla parete c’erano cani ed elefanti, orsetti e crocifissi. E mentre io supplicavo Dumbo di farci volare lontano da lì, mio figlio mi domandava cosa avessero fatto a Gesù.
In ospedale ci si “prende a cuore”. Ma in senso letterale. Sono annullate tutte le distanze sociali, culturali, economiche. Conta solo la relazione: quanto ci si interessa dei figli degli altri, quanto si permette agli altri di andare oltre la soglia della propria storia.
È un baratto di racconti, di parti difficili, di tagli cesari mai rimarginati, di notti senza sonno, di stanchezza disperata, di famiglie sfasciate, di mariti senza lavoro, di bimbi che danno tormento e preoccupazione e dolcezza e soddisfazione e “madunnuzza aiutami tu”.
Io sentivo che ogni cosa che stavo vivendo mi rimaneva appiccicata addosso, impigliata nella rete della preoccupazione. Una rete fitta, ma fatta a pezzi dal mio bambino, tagliata con la lama sottile del suo sorriso sereno che riappariva sempre, una volta finite somministrazioni e medicazioni.
Tutto finisce, quando finisce.
Sarà per questo che il suo passo restava leggero perfino nei corridoi della radiologia.
Le luci ad accensione automatica nei bagni, i tasti illuminati dell’ecografo lo lasciavano a bocca aperta, e alla terza ecografia suggeriva lui stesso al medico cosa fare, muovendosi per la prima volta sui sentieri dell’esperienza.
L’ho tenuto in braccio, vegliato nella notte. Gli ho sussurrato all’orecchio che la “bua” passa un poco ogni giorno.
Lui mi ha tenuto stretta la mano, mi ha amata e cercata e mi ha fatto partecipe del suo sguardo nuovo e bello su tutte le cose.
Fuori dall’ingresso dell’ospedale, alla fine di questa nostra prima disavventura, c’era papà.
Dentro il suo abbraccio abbiamo continuato a guarire. Il suono ritrovato della sua voce, riparava i tessuti, leniva i bruciori. Io l’ho guardato con l’orgoglio di chi aveva saputo custodire un tesoro, lui come fossi una tigre che riemergeva dalla foresta, ferita ma salva, dopo un agguato.
Nella notte silenziosa di una città semideserta ci siamo avviati verso casa.
Ovunque gli oleandri erano in fiore.