Piccole schegge sparse ovunque

(foto di Beth Moon)

(foto di Beth Moon)

E’ successo ieri sera, mentre spegnevo la luce su una giornata piena di pensieri. All’improvviso. Mi sono ricordata di una cosa vista ogni giorno per molti anni e incredibilmente dimenticata per altrettanti.
Avuta sotto gli occhi da sempre, quotidiana, ordinaria. Non ho idea di come abbia fatto a non pensarvi durante tutti questi anni e neppure so perché me ne sono ricordata adesso.

Mia nonna portava al collo un ciondolo, un ciondolo con la fotografia di suo marito. Mio nonno cioè. Un primo piano, in bianco e nero. E anche mia nonna era in bianco e nero, il bianco dei capelli, intrecciati pazientemente ogni mattina e il nero del lutto, segno di un dolore che non si vuol dimenticare.
Mio nonno era più grande di lei di ben dieci anni. Era ordinario allora: “Il maschio 28, la femmina 18” – diceva lei. Della loro storia non so praticamente nulla, perché non gliel’ho mai chiesto. Ero troppo piccola finché c’è stata. So che si volevano bene, me lo dice mia mamma, so che quando erano sposini mangiavano un chilo di pasta in due: “E non ingrassavamo mai” – aggiungeva sempre la nonna, con una punta di orgoglio e nostalgia. D’ingrassare non c’era il tempo: la guerra, il lavoro, lui in campagna, lei a casa con l’acqua da riempire alla fontana e un paese fatto a scale, da arrampicare. So che andavano a braccetto fino al seggio, poi lui votava il partito comunista e mia nonna la democrazia cristiana e di nuovo abbracciati verso casa.

Oggi, ripensare a quella foto che portava addosso ogni giorno e ogni notte per i ventanni della sua vita senza di lui, è un ricordo che mi stordisce. Il fatto è che, adesso, io le domande ce le avrei e forse sarei anche in grado di ascoltare le risposte, di capirle, intendo. E’ che l’amore, più di altre dimensioni di questa complessa cosa che è l’esistenza, diventa fortissimo quando viene raccontato, non quando viene visto, desiderato, cantato, celebrato, consacrato e neppure quando è detto, che fra dire e narrare c’è una bella differenza. Dell’amore si dicono molte cose, infatti. Dire l’amore è come cercare di centrare un bersaglio in movimento. Non per niente l’amore, tra tutti i verbi possibili, predilige il “fare”. Ma al racconto l’amore si piega,  forse perchè la narrazione non esiste se non quando si passa attraverso la vita,  in mezzo, magari temendo di non riuscire a venirne a capo.

L’amore.

L’amore, io l’ho visto, mi pare, ma non  so se ci ho girato attorno o se mi ci son persa dentro: l’amore impossibilie, l’amore platonico, l’amore vicino ma assante, l’amore assoluto, di gran lunga l’esperienza peggiore. Ma l’amore da tenere al collo fino alla morte, forse non lo so cos’è e forse per questo mi sono ricordata del ciondolo della nonna e di quel primo piano in bianco e nero. Lo baciava al mattino, al risveglio, e la notte, prima di dormire. E adesso io vorrei tanto che mi raccontasse di lui, di quando lo salutava all’alba e di quando lo attendeva, al tramonto, della gioia della sera e di tanti quotidiani ritorni, dell’amore che c’è e che resta sempre perfino quando la morte si mette in mezzo.

Adesso che sento repulsione per ogni teoria, qualunque siano le sue argomentazioni e qualunque forma essa assuma, adesso l’amore lo vorrei così, frantumato, piccole schegge  sparse ovunque: come lievito nel pane impastato a spinta di polsi, come residui di cenere ad imbiancar le lenzuola, come fili che tessono l’abito della festa, come parole nell’aria sull’uscio di casa sul far della sera. Mia nonna cantava sempre. Melodie di campagne innevate che le rendevano meno amaro, forse, il suo esilio in città. La morte del nonno è stata la fine di molte cose per lei. L’inizio di una vita in una città non sua, dove la figlia da amare e le nipoti da crescere sono diventate tutto il suo mondo. Ma lui stava lì, poggiato sul petto, sempre.
Oggi chi non ha qualcosa da dire sull’amore? L’amore non va idealizzato, l’innamoramento – attenzione – non è l’amore! L’amore non è tutto rosa è fiori, si sa. Mia nonna avrebbe crucciato lo sguardo davanti a tutti questi professionisti dell’amore, davanti ai dottori delle leggi che lo governano e definiscono. Forse avrebbe risposto che il nonno le voleva bene, che le portava rispetto. Troppo poco per le nostre consapevolezze moderne? Mi rendo conto, si.

Non è la nostalgia di un’età dell’oro, tra l’altro mai vissuta. E’ piuttosto la rivendicazione del diritto a non dimenticare, il diritto ad avere molta nostalgia delle persone amate e di non sottostare alla legge del chiodo schiaccia chiodo o dei portoni che si spalancano inghiottendo le porte chiuse. Vorrei avere un cuore dove le porte chiuse restano lì, chiuse ma presenti, magari con un bel rampicante fiorito che ci cresce addosso. Rivendico il diritto ad una nostalgia esagerata che cammina dritta dritta sullo stesso binario del presente, senza impedirmi di andare avanti e senza impedirmi di voltarmi ogni volta che vorrò farlo. Rivendico il diritto all’esistenza per il mio cuore tortuoso dove la vita non scorre fluida, lasciando a secco alcune zone e paludose molte altre. Rivendico davanti all’amore il diritto di coltivare la mia propensione alla solitudine senza sensi di colpa o frustrazioni. Rivendico il diritto di amare chi non mi ama o chi pur amandomi non vuole o non riesce a restare. Rivendico il diritto di sentirmi molto molto innamorata salvo poi scoprire che non era davvero così, senza disperazione. Rivendico davanti al buon senso il diritto di credere possibile quanto non lo è, sognando ad occhi aperti, il diritto di commuovermi al pensiero che quella persona lì esiste davvero, il diritto a morire d’amore per un fugace sfiorarsi di mani. Se è l’esperienza a suggerirmelo, rivendico il diritto di capovolgere ogni legge, voglio poter dire: innamorarmi è stato molto più difficile e doloroso che amarlo per tutta la vita al mattino quando lascia in disordine il bagno!

Una foto in bianco e nero sul petto silenzioso di una donna riemerge nella mia memoria come la possibilità di amare a modo mio. Forse non me ero dimenticata, forse aspettavo soltanto di capire cosa significasse per me.

Tremula

(foto di Rostislav Kostal)

(foto di Rostislav Kostal)

Tremula s’apre la mano
le dita di resa, sconfitte.
E’ l’inizio. E’ la fine.

Cade, bagna la terra, nessun rumore
sangue di una vita intera,
frutto maturo di semina
senza raccolto.

L’amore miracoloso si fa vedere
adulto, all’improvviso
tutto nudo e intero
appare
agli occhi bagnati d’addio.

Venite, Venite!
Ho doni per tutti:
pelle, ossa,
lacrime e vene,
i respiri
prendete ogni cosa.
Che nulla resti d’unito.

Ovunque la mia pelle canterà di te,
ovunque le ossa suoneranno il tuo nome,
le lacrime bagneranno su ogni sabbia i tuoi piedi
le vene uniranno come filo d’oro i tuoi passi
e il respiro spingerà lontano le vele.

Tutta la fatica d’esser viva tra i vivi,
fiorita dentro ai tuoi occhi,
ogni felicità attesa dal mondo,
germogliata fra le tue mani.
Che ne hai fatto del ghiaccio di tutti i miei inverni?

Ora, spogliata
d’amore nudo
entro a piedi scalzi
nella bocca del mondo.

In attesa di verità e giustizia

Riproponiamo, a quasi un anno di distanza, questo articolo. Oggi, proprio oggi. Per ricordare Paolo e gli agenti della scorta. Dall’anno scorso poco è cambiato…Se non il fatto che “Eufemia” è tornata a Palermo, ma senza guarire dalla sua nostalgia. Palermo ti riempie di nostalgia di sé anche e sopratutto se ci vivi dentro.

In attesa di verità e giustizia.

Se avessi avuto, io, un cuore di cane

Foto di © Vincenza Tomasello

Foto di © Vincenza Tomasello

30 dicembre 2013 ore 7.15. Come ogni mattina ho acceso il pc e aperto le pagine dei quotidiani. Schumacher è in coma, la Russia muore di rabbia e si illude di punire i tiranni bruciando di fuoco i figli innocenti; la terra trema a Napoli, l’Etna esplode di forza sotteranea, di magma incontenibile; 151 bambini muoiono, ad Aleppo.

Tutto è lì davanti ai miei occhi, tutto è lì, troppo distante dalle mie mani. Clicco, leggo, scorro le parole, le pubblicità accendono di luci lo schermo – “Guarda noi, pensa a noi!” – sembrano dirmi. E poi, poche righe, in un angolo, senza spessore. E i miei occhi ci si schiantano, contro: “Morto per freddo un senza tetto a Palermo”. Per freddo? A Palermo? –  Mi chiedo, d’istinto –  La domanda rimbomba, eco nello spazio vuoto tra il mio corpo e il vecchio pigiama di pail ormai troppo grande, per me.

Mi inoltro tra quelle parole senza enfasi di notizia, briciole di cronaca locale che cadono giù dalla bocca affamata e vorace del mondo. Guardo la foto di quella montagna, cima irragiungibile, di coperte e cartoni. Guardo. Sembrano tutte uguali queste catene montuose agli angoli delle strade: stracci, sacchetti, cani e cartoni; senza segnaletiche per indovinare identità, la storia di chi ci vive, sotto. Questa volta, però, le coperte sono  paesaggio familiare. Io le ho viste, con gli occhi miei, non da dietro uno schermo, ma in diretta, dall’obiettivo dei miei passi frettolosi, distratti. Sono passata, io, da lì. La sera prima. Ed era tutto come nella foto. E ancora, nella foto, il cane sta lì, così, seduto ai piedi di quella catena montuosa di lana e carne, fermo, serio, come un soldato. Io sono passata, da lì.
E il passo ha rallentato, di poco. Solo il tempo per cercare gli occhi della persona accanto a me, scambiare con lui uno sguardo, triste, cercare conforto nei suoi occhi belli e poi…e poi andare, oltre.

E ora, ora cerco in modo frettoloso e disordinato, dentro di me, motivi credibili di assoluzione, mettendo tutto l’animo in disordine. Non trovo niente. Niente di credibile, nessun avvocato che mi difenda, niente che valga la vita di un uomo.

Forse era già morto. Era tutto così immobile dentro ai tornanti di quelle montagne. Forse. Ma i passi non si fermano davanti alla morte? Si. Non i miei, però. Forse era ancora vivo. E ancora lo sarebbe se avessi saputo interpretare l’indugiare dei muscoli, il frenare delle ossa dentro ai miei piedi. Se avessi ascoltato il mio corpo! Se avessi dato ascolto a quel velo che mi ha scurito gli occhi di una tristezza sapiente, umana, istintiva! Sarebbe ancora vivo. Forse.

E continuo, in modo concitato, con il fiato spezzato e gesti veloci, a cercare ragioni, scuse, perdono: Cosa potevo fare! E’ pericoloso, spesso, avvicinarsi a questa gente! Posso mica fermarmi davanti ad ogni povero? Posso mica fermarmi davanti ad ogni povero….Posso mica fermarmi…posso…ogni povero…io…non posso…ogni….non posso….ogni povero.

“Secondo una prima ricognizione sul corpo il cadavere appartiene ad un uomo di una sessantina d’anni”. Spedizione di esperti sul territorio di carne d’un uomo solo. Adesso, che sei morto, ci raduniamo attorno a te. Avvoltoi coraggiosi su corpi senza vita, uomini spaventati da barriere di cartone.

Se avessi avuto, io, un cuore di cane…

Colori nell’ombra

Chiaroscuro. Penombra. Sempre ho immaginato così lo spazio interiore nel quale prendono vita le nostre domande. Un gioco di luci ed ombre. Le domande nascono da intuizioni. Da qualcosa che comprendiamo ma non del tutto, frammenti di verità a cui vorremmo dar forma, spesso senza riuscirvi. Sono domande grandi, domande che molti rinunciano a farsi: la vita, la morte, il dolore, il perchè delle cose che siamo, il perchè di ciò che desideriamo, il perchè di quanto non comprendiamo. Di questi tempi poi…la crisi riduce gli orizzonti, dicono. I bisogni primari non sono soddisfatti. Si ha fame. E la fame del corpo divora i bisogni dell’animo. Dicono. Ma per i bambini forse non è così, non ancora. Il loro spazio di penombra è ampio. I bisogni sono tutti primari. Riempire la pancia e sapere perchè sei nato bambino e non cane, sono entrambi istinti in cerca di risposta. Meraviglia. Ho affidato ai miei alunni di prima media uno spazio di silenzio. Una porzione di tempo durante il quale andare a scovare e tirar fuori le domanade alle quali vorrebero abbinare una risposta, quelle che magari hanno timore di fare ai “grandi”. Ho detto loro che potevano chiedere tutto. E mi sono premurata di chiarire loro che non sarei stata in grado di rispondere. Soltanto mi sarei impegnata ad accogliere. Il risultato di questo piccolo esperimento dentro ad una piccola aula di una piccola scuola mi è sembrato avere proporzioni universali, ascoltare, una dopo l’altra le loro domande mi ha dato l’impressione di assistere ad una esplosione di colori che ha del tutto mutato il mio immaginario di chiaroscuro . Le domande sono colori nell’ombra.

Federica: Perchè io sono io?

Martina: C’è il paradiso dopo la morte oppure rimarremo polvere senza anima?

Tommaso: Perchè esiste la natura?

Luca: Perchè non possiamo rispondere alle domande?

Federico: Perchè esiste il mondo?

Leonardo: Perchè dopo aver raggiunto degli obiettivi non si sa più qual è il senso della vita?

Carlotta: Perchè certe volte sembra che Dio non ci assista?

Benedetta: Perchè si vive se poi bisogna morire?

Leyla: Perchè non possiamo vivere senza acqua e cibo?

Chiara: Perchè si sogna?

Davide: Perchè l’universo è infinito?

Leonardo: Perchè tanti uomini si fanno male da soli?

Francesca: Perchè sono nata e certi bambini no?

Lorenzo: Perchè Dio ha creato il mondo e noi?

Jonathan: Perchè non nasciamo tutti intelligenti?

Eleonora: Quando moriamo tutti, cosa succederà?

Filippo: Perchè il destino mi ha fatto fare certe cose?

Camilla: Esiste una vita dopo la morte?

Cristian: Quando moriamo cosa succederà?

Beatrice: Perchè esistono le malattie?

Giulia: Perchè sono uomo e non un animale?

Giacomo: Perchè si muore?

Marco: Perchè esiste la vita?

Simone: Perchè l’uomo cerca sempre la perfezione?

hjueee

Frammento alla morte

navefantasma5  (foto di Peter Iredale)
Vengo da te e torno a te,
sentimento nato con la luce, col caldo,
battezzato quando il vagito era gioia,
riconosciuto in Pier Paolo
all’origine di una smaniosa epopea:
ho camminato alla luce della storia,
ma, sempre, il mio essere fu eroico,
sotto il tuo dominio, intimo pensiero.
Si coagulava nella tua scia di luce
nelle atroci sfiducie
della tua fiamma, ogni atto vero
del mondo, di quella
storia: e in essa si verificava intero,
vi perdeva la vita per riaverla:
e la vita era reale solo se bella…
La furia della confessione,
prima, poi la furia della chiarezza:
era da te che nasceva, ipocrita, oscuro
sentimento! E adesso,
accusino pure ogni mia passione,
m’infanghino, mi dicano informe, im
puro
ossesso, dilettante, spergiuro:
tu mi isoli, mi dai la certezza della vita:
sono nel rogo, gioco la carta del fuoco,
e vinco, questo mio poco,
immenso bene, vinco quest’infinita,
misera mia pietà
che mi rende anche la giusta ira amica:
posso farlo, perché ti ho troppo patita!
Torno a te, come torna
un emigrato al suo paese e lo riscopre:
ho fatto fortuna (nell’intelletto)
e sono felice, proprio
com’ero un tempo, destituito di norma.
Una nera rabbia di poesia nel petto.
Una pazza vecchiaia di giovinetto.
Una volta la tua gioia era confusa
con il terrore, è vero, e ora
quasi con altra gioia,
livida, arida: la mia passione delusa.
Mi fai ora davvero paura,
perché mi sei davvero vicina, inclusa
nel mio stato di rabbia, di oscura
fame, di ansia quasi di nuova creatura.
Sono sano, come vuoi tu,
la nevrosi mi ramifica accanto,
l’esaurimento mi inaridisce, ma
non mi ha: al mio fianco
ride l’ultima luce di gioventù.
Ho avuto tutto quello che volevo,
ormai:
sono anzi andato anche più in là
di certe speranze del mondo: svuotato,
eccoti lì, dentro di me, che empi
il mio tempo e i tempi.
Sono stato razionale e sono stato
irrazionale: fino in fondo.
E ora… ah, il deserto assordato
dal vento, lo stupendo e immondo
sole dell’Africa che illumina il mondo.
Africa! Unica mia
alternativa
Pier Paolo Pasolini (Poesie incivili, 1960)