Robert Mapplethorpe, Calla Lily (Selenium) , 1988.
Poiché c’è forza…
nel nero più nero una padronanza assoluta l’esplosione di una calla trombe grazia corporea c’è una mano ferma che allaccia stringhe di bambino e il volto del coraggio nascosto da un velo inviolato c’è una mano ferma provetta nella trama dei cieli che si annerano là dove i cuori puri si fanno parenti.
Dopo aver lasciato la Ventitreesima, mi ritrovai in un limbo. Mia sorella Linda mi procurò un lavoro part-time alla libreria Strand. Comprai cataste di libri che tuttavia non lessi. Attaccai fogli alle pareti con il nastro adesivo ma non disegnai. Infilai la chitarra sotto il letto. Di notte, da sola, mi mettevo seduta e aspettavo. Per l’ennesima volta mi ritrovai a meditare su ciò che avrei dovuto fare per realizzare qualcosa di meritevole. Le uniche cose che mi venivano in mente mi parevano irrispettose o irrilevanti.
Il primo dell’anno accesi una candela per Roberto Clemente, il giocatore di baseball preferito di mio fratello; era morto durante una missione umanitaria, mentre portava aiuti in Nicaragua in seguito ad un terribile terremoto. Mi rimproverai per l’apatia e l’autocommiserazione di cui stavo dando prova, e promisi rinnovata devozione al mio lavoro.
Gli anni sessanta volgevano al termine.
Robert e io festeggiammo i nostri compleanni.
Robert aveva compiuto ventitré anni.
Dopodiché fui io a compiere ventitré anni. Il numero primo perfetto.
Robert mi costruì un appendicravatte con l’immagine della Vergine Maria.
Io gli regalai sette teschi d’argento sopra uno scampolo di pelle.
Lui indossava teschi.
Io indossavo cravatte.
Ci sentivamo pronti per gli anni settanta.
“E’ il nostro decennio”, disse lui.
C’è chi fa bilanci alle porte del Capodanno e chi, invece, scandisce il tempo contando i compleanni di Patti Smith.
Oggi è il suo 71° e dai 70 sono mutate una infinita quantità di cose per me, come per lei, credo.
Patti ha ricevuto all’Università di Parma la laurea ad honorem in Lettere, ha esposto le sue foto e fatto una super mega tournée in Italia. Io l’ho vista in concerto a Roma, ho un essere umano vivo nella pancia e abito in riva al mare.
Tutte cose belle, direi. Anche se, al di là di quel che si vede e quel che si sa, nel cuore c’è il proprio giardino segreto con cui fare i conti, dove sarà stato necessario potare, estirpare, combattere la siccità, lavorare la terra, piantare. Molte foglie cadute e sfiorite le rose, molti germogli sugli alberi spogli e tanti semi frementi di vita eppure sepolti dalla terra.
Durante il 2017 io e l’uomo che mi vuol bene abbiamo letto ad alta voce il suo M Train, lo abbiamo letto soprattutto on the road, macinando chilometri sulle autostrade siciliane, fra mare e montagna, tra i boschi e la desolazione dei paesaggi mangiati dal fuoco, guidando incontro ad amici sinceri, inseguendo gli impegni di lavoro, facendo ritorno a casa, cercando riparo dall’arsura del logorio quotidiano nella Sicilia d’oriente, tra i monti Iblei e il mare ionio, tra i panini degli autogrill e gli snack senza glutine consumati con le gambe a penzoloni fuori dall’auto, mentre si osservano le persone e si immaginano le loro storie.
M Train ci ha accompagnati ovunque, provocando scoppi di risate a risanare il cuore, lacrime per liberare i polmoni, riflessioni dalle trame ingarbugliate da sciogliere la notte, prima di dormire. Da quando la nausea ha fermato la nostra auto e trasformato di attesa le nostre vite, abbiamo riposto il libro sul comodino.
Restano le ultime 20 pagine, quelle che si vorrebbe non finissero mai.
Patti, che legge Murakami in un albergo messicano specializzato in sushi, è una compagna di viaggio necessaria: nutre le utopie e le rende “normali”, un modo d’essere quotidiano che non ha certo voglia di mostrarsi per il gusto di stupire, che cerca piuttosto la possibilità di esistere (da ex e sistere, forma secondaria derivata da stare “stare saldo, essere stabile, essere in atto), come una necessità, come un’urgenza.
Ho imparato molte cose da Patti Smith durante quest’anno, dalla Patti che prega Dio e legge i tarocchi e si mette in ascolto degli spiriti degli antenati, tutto senza dottrine da difendere, con la curiosità dei bambini e la fiducia sapiente degli anziani. M Train è un libro entusiasmante, ma in modo diverso da come lo è Just Kids. Quest’ultimo contiene l’euforia della giovinezza, degli anni’ 70, le sperimentazioni e il viaggio interiore e psichedelico di un’intera generazione. M Train, invece, è carico di nostalgia e fatica, è pieno della straziante assenza di Fred, della solitudine, delle paure e delle conquiste costate la vita intera. Non è l’epilogo che viene raccontato: “Trova la verità della tua situazione. Comincia con coraggio”, scrive Patti. Ma lo dice come per narrare un’operazione giornaliera, un proposito ed una azione che comincia al sorgere del sole e che nella notte si rigenera per riprendere d’accapo, ancora, fino a quando ci sarà fiato.
Ho riempito la tazzina ed ho bevuto. “Tutti gli scrittori sono vagabondi”, ho mormorato. “Magari un giorno potessi essere dei vostri!”.
Patti gira il mondo, dal Giappone alla Francia, per pulire e rendere onore alle tombe degli scrittori e dei musicisti. Non vede alcuna fine lì dove tutti, invece, la fine crediamo di fissarla sul marmo. Lei vede incipit, il generarsi e rigenerarsi sempre e dovunque possibile:
Quella sera mi sono seduta al parco a bere succo di anguria in tazza conica di carta, comprato da un venditore ambulante. Tornata in camera riuscivo a sentire tutto quello che succedeva di sotto. Ho cantato canzoncine agli uccelli sul davanzale. Ho cantato per i giornalisti, per l’operatore e per la donna uccisi a Veracruz. Ho cantato per quelli che vengono lasciati nei fossi a putrefarsi, nelle discariche e tra i rottami. La luna era il faretto della natura, puntato sulle facce splendenti della gente radunata al parco di sotto. Le loro risate si sollevavano con la brezza e per un breve istante non c’erano più dolore né sofferenza, solo armonia.
Credo che finirò, che finiremo il libro prima che scocchi la mezzanotte, prima che arrivi il nuovo anno che sempre ha le radici in quel che solo convenzionalmente possiede un termine. Lo farò anche io, nonostante sia impossibilitata a vagabondare, come vorrei, lo farò cantando per i gabbiani del mare che ho di fronte, per le mie zone d’ombra, per gli amici, con voce sottile, perché sia dolce al mio bambino la festa dell’anno che viene. Senza petardi, fuochi di artificio, musica ad alto volume. Come i canti dei pellirossa sulle montagne le notti di luna, come le mani dello “Sciamano galilaico” sulle ferite umane o le cantilene delle donne di paese quando impastavano il pane o lavavano i panni, un canto che sostiene la fatica e guarda lontano.
Mio padre diceva di non ricordare mai i sogni, ma io riuscivo a raccontare i miei con facilità. Diceva anche che era rarissimo vedere le proprie mani in sogno. Ero sicura che se mi fossi concentrata ci sarei riuscita, idea che generò una marea di esperimenti falliti. Mio padre metteva in discussione l’utilità dell’operazione, ma l’essere capace di invadere i miei stessi sogni restava comunque in cima alla lista delle cose impossibili che un giorno sarei riuscita a fare.
Buon compleanno Patti, sei proprio il mio Capodanno.
Racconta di essere nata durante una bufera di neve, il 30 dicembre 1946 al North Side di Chicago e di aver visto la luce già pronta a richiudere gli occhi per sempre, a causa di una broncopolmonite e di un corpicino troppo magro e fragile. La salvò il padre, tenendola sospesa su una tinozza fumante. Nacque due volte, Patti Smith.
Oggi, 30 dicembre 2016, compie 70 anni, uno in più di mia madre, nata 355 giorni dopo, dove la neve in Sicilia cadeva ancora copiosa, allora.
Mi impressiona questa vicinanza di età e di neve fra Patti e mia madre, anche se le loro vite si sono svolte in modo assai diverso. Credo che dipenda dal riconoscere a Patti Smith un ruolo ri-generante per me, uno di quei parti misteriosi che solo l’arte può compiere fra persone lontane per generazione, ubicazione o secoli di distanza.
Brani come Because The Night o People Have The Power si impara a riconoscerli naturalmente, così come accade con Jiingle Bells o l’Inno nazionale. Poi, crescendo e avendo accesso allo sconfinato mondo del web, ho cominciato ad imbattermi in Patti Smith sempre più spesso. Ero incuriosita dai suoi capelli bianchi, gli occhi luccicanti e il più totale distacco da ogni modello estetico femminile, sempre diverso, ma continuamente imposto lungo i decenni che ha attraversato.
Ho cominciato ad ascoltare le sue canzoni, a tradurle e a cercarmi fra le righe o ad utilizzare le sue parole come tracce di vita buona per orientarmi nella comprensione del mondo.
Ma il vero incontro è avvenuto nella narrazione che fa di se stessa nelle pagine di Just Kids, un libro che, per me almeno, è una miscela esplosiva fatta di racconti e ricordi, musica, arte, relazioni, Brooklyn, amori ed anni ’70.
Patti Smith
Patti Smith capì di voler essere un’artista quando era ancora molto piccola, sulle sponde del fiume Prairie, lo capì osservando un cigno alzarsi in volo:
La vista del cigno generò in me un’urgenza per la quale non conoscevo parole; un desiderio di parlare del cigno, di dire il suo biancore, dell’esplosività dei suoi movimenti e del suo lento battere d’ali. Il cigno divenne tutt’uno col cielo. Mi sforzai di trovare una parola capace di descrivere la mia percezione dell’animale. Cigno, ripetei, non del tutto soddisfatta, e avvertii una fitta, un singolare struggimento impercettibile ai passanti, a mia madre, agli alberi oppure alle nuvole.
Crescendo non cercò di distrarsi da quell’urgenza per la quale non trovava parole né ignorò la fitta e lo struggimento impercettibile, non disse a stessa di provare qualcosa che non aveva importanza e non si rassegnò a fare la maestra e a sposare un brav’uomo di provincia, così come tutti si aspettavano facesse.
Patti Smith ha una scrittura sobria, senza orpelli e parole di troppo. Utilizza un linguaggio semplice, asciutto. Va dritta al punto e il punto era vivere la vita a modo suo.
Rimase incinta a sedici anni. Ebbe paura, ma fu sapiente e coraggiosa. Decise di aver cura di sé e della sua salute e di star bene per quella bambina che, una volta nata, avrebbe affidato ad una famiglia in grado di occuparsene.
Patti Smith
Col pancione insieme alla sua amica ascoltava Bob Dylan, cantava e frugava nei negozi di abiti usati per cercare cappotti simili a quelli di Oscar Wild. Quattro anni prima, al museo di Philadelphia, la visione del cigno aveva assunto un senso più compiuto nei disegni di Salvator Dalì e nei quadri di Picasso:
Mentre marciavamo giù dalla grande scalinata sono sicura di aver dato l’impressione di essere la stessa di sempre, un’anima in pena di dodici anni tutta braccia e gambe; in segreto però, sentivo d’essermi trasformata, commossa dalla rivelazione che gli esseri umani creano l’arte, che essere un artista voleva dire vedere ciò che gli altri non potevano vedere. Non avevo prove di possedere la stoffa dell’artista, ma bramai di esserlo con tutta me stessa.
Partorì la sua bambina, rimandando al tempo opportuno di attraversare lo strazio per quella separazione e partì alla direzione di New York. Non sapeva dove andare e cosa fare esattamente, sapeva soltanto di dover provare ad essere ciò che voleva essere.
Dormì a Central Park, vicino alla statua del cappellaio matto, ebbe fame, freddo e molti pidocchi, divenne amica dei barboni e di misteriose anime notturne che la presero a cuore dividendo con lei mozziconi di pane e un’infinità di racconti. Mai venne attraversata dal pensiero che quelle condizioni di vita le mostrassero la necessità di abbandonare il suo proposito o di rinnegare la sua intuizione. Stavano per cominciare gli anni’70, tutto sarebbe stato possibile.
Patti Smith
Trovò lavoro come commessa e un giorno, in quel negozio, entrò un ragazzo: “Aveva lampi di luce negli occhi”. Il ragazzo comprò la collanina che lei amava molto e lasciando di stucco se stessa gli disse: “Non darla a nessun’ altra che a me”. Lui sorrise, annuì e rispose: “Non lo farò”. S’incontrarono di nuovo, una notte, per caso, nel parco; aiutò Patti a venir fuori da una brutta situazione e non si separarono mai più. Quel ragazzo era Robert Mapplethorpe.
La vita prende direzioni impensabili grazie agli incontri che facciamo, si potrebbe costruire una mappa dell’esistenza basata sulle deviazioni che gli incontri provocano. Si vedrebbero vie tortuose e grandi rettilinei, scalate impervie di costoni rocciosi e lunghe navigazioni su mari a volte sereni e muti altre burrascosi e cupi.
Patti e Robert divennero intimi senza sforzo e senza bisogno d’esser prudenti. Appena ebbero soldi a sufficienza presero in affitto un appartamento “su un viale alberato, girato l’angolo da Myrtle El e dal quale si poteva raggiungere il Pratt a piedi”. Non aveva importanza che le pareti fossero incrostate di sangue e scarabocchi psicotici e neppure che il forno fosse pieno di rifiuti e siringhe usate. Ripulirono tutto e appesero al muro i loro disegni: malinconici, quelli di Patti, inquieti e deliranti quelli di Robert:
Certi giorni, grigi giorni di pioggia le strade di Brooklyn meritano una fotografia. Radunavamo le nostre matite colorate e disegnavamo come ossessi, figli ferali della notte finché esausti, non ci lasciavamo crollare a letto. Giacevamo l’uno nelle braccia dell’altra, ancora impacciati ma felici, a scambiarci baci mozzafiato durante il sonno. Il ragazzo che avevo conosciuto era schivo, incapace di esprimersi. Adorava essere guidato, essere preso per mano e varcare la soglia di un altro mondo a cuore aperto. Era virile e protettivo, anche se femminile e remissivo. Meticoloso nel modo di vestire e di comportarsi, era capace di un disordine terrificante all’interno delle sue opere. I suoi erano mondi solitari e pericolosi, preannunciavano libertà, estasi e liberazione.
Patti Smith e Sam Shepard al Chelsea Hotel
Si trasferirono al Chelsea Hotel, situato al 222 West della ventitreesima strada, Manhattan, tra la Seven e l’Eight Avenue. Lì oltre agli artisti vicini ad Andy Warhol, soggiornavano Leonard Cohen, Janis Joplin, Bob Dylan e molti altri. Era importante riuscire a mantenere una camera al Chelsea e i due fecero di tutto per riuscirvi.
Patti Smith e Bob Dylan
Patti rimaneva vicina a Robert anche quando piangeva e stava male e agitava le mani contro i demoni e urlava di inquietudine e dolore. Robert incoraggiava Patti a scrivere poesie, le regalò una copia di Ariel di Sylvia Plath e le insegnò ad amare le sue smagliature, segni feroci di una gravidanza precoce, cicatrici indelebili di una innaturale separazione. Seppero allontanarsi ogni volta che stare insieme non costituiva un bene per loro o per la loro arte e seppero tornare insieme, vicini, fratelli, dopo aver attraversato qualunque distanza. Erano necessari l’uno all’altra, senza che vi fosse perversa dipendenza:
L’opera di Robert mi attraeva perché il suo vocabolario visivo era affine al mio vocabolario poetico, nonostante potessimo dare l’impressione di muoverci in direzioni differenti. Robert mi ripeteva sempre: “Nulla è finito finché non lo vedi tu”.
Patti Smith e Robert Mapplethorpe
Si amarono moltissimo, anche quando Robert comprese di essere omosessuale. Si trasformava continuamente, lui, senza mai smettere di essere il ragazzo con il quale andare a Coney Island a far fotografie e a scambiarsi baci di sale e umidità. Patti era sempre contenta di andare, amava il pensiero di poter raggiungere l’oceano con la metropolitana.
L’Oceano. L’ho visto anch’io. Dalla costa opposta a quella di Patti e Robert. Era estate, era un viaggio importante, era l’uomo che mi vuol bene, una Fiesta Diesel grigia e 2000 Km tra Spagna e Portogallo. Fu durante quel viaggio che lessi Just Kids, fu durante quel viaggio che Patti Smith diventò compagna e maestra della mia vita da adulta, quella in cui io sono io, senza che vi sia più a questo alcuna alternativa possibile. Lo sapevo da sempre che prima o poi l’avrei incontrato, l’Oceano. Lo sapevo da quando ho studiato Cristoforo Colombo e letto Moby Dick, da quando sogno di visitare gli Stati Uniti d’America e da quando “il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce”, Sostiene Pereira. Così è proprio lì che gli ho dato appuntamento, sulla costa delle grandi partenze verso il nuovo mondo, sulle spiagge dove Antonio Tabucchi ha immaginato un uomo diventare finalmente se stesso.
– Vila Nova de Gaia, distretto della città di Porto, Portogallo
Indossavo pantaloni lunghi, una maglietta a righe e la felpa. Ma i ragazzi portoghesi, i pochi rimasti sul far della sera, avevano addosso solo il costume e il calore di abbracci e promesse sussurrate al tramonto del sole.
Mi tolsi le scarpe: la sabbia era di granuli grossi e ruvidi e molto, molto fredda appena sotto la superficie. Le onde lunghe mi raggiungevano, sempre, nonostante corressi veloce da una parte all’altra con una strana gioia nel cuore. L’acqua dell’Oceano è gelata e l’odore di alghe, fortissimo. E’ un’acqua scura e profonda e misteriosa. Mi spaventava, ma senza paura, come una magia.
E’ stato un viaggio nel viaggio, quello della lettura e quello alla scoperta dell’estremo occidente d’Europa. Per entrambi stupore e tenerezza, entusiasmo e grande partecipazione. Riempivo il libro di sorrisi disegnati con la matita accanto alle parole che più mi rallegravano il cuore, tra le pagine disegnavo alberi o punti esclamativi e facevo cadere come neve di dicembre a New York, briciole di pane portoghese, mangiato tra una tappa e l’altra, fra molti discorsi, carezze e baci rubati a 130 km/h.
Patti Smith
Da Patti Smith ho imparato la fiducia nelle proprie intuizioni e la disponibilità ad aprirsi alla vita con le sue rotte inattese. Mai avrebbe pensato di diventare una rock star, lo è diventata, ma non per questo ha rinunciato a scrivere poesie, a disegnare, a fotografare “a sentire in corpo la nascita di nuovi progetti”. E’ rimasta disponibile ad intraprendere ogni strada possibile e ad accogliere quel suo mondo interiore “metà garage e metà reame da fiaba”. Ha amato così come il cuore le suggeriva di fare e si è sposata, con un uomo che fu la sua gioia e che la seppe amare, accogliere e capire a sua volta; ha dato alla luce due bambini senza cedere allo stereotipo inverso, quello che vede incompatibile la vita artistica e la vita “normale”. Quando Robert la vide con in braccio sua figlia, la guardò e le disse: “Patti, lei è perfetta”. Si riferiva al piccolo, a lei, a quello che aveva scelto e a quanto Patti aveva fatto.
Patti Smith e Fred “Sonic” Smith
– Patti Smith, seduta al Cafè’ Ino di New York
Non ha potuto fare a meno d’essere se stessa e oggi, a settant’anni, sogna ancora di aprire un caffè sulla spiaggia e ripercorre coraggiosa le vie dei ricordi e degli incontri, seduta al Cafè’ Ino di New York, appartata in un angolo con i suoi quaderni d’appunti, la sua malinconia e la Polaroid. Ha visto morire la maggior parte dei suoi amici, di AIDS, di overdose e di troppa, esagerata vita, impossibile da imparare a vivere tutta, ma rimane dritta davanti al dolore, oggi come allora, guardandolo per quello che è: una realtà misteriosa, terribile e necessaria in modo inspiegabile alla vita:
Patti Smith e Robert Mapplethorpe
Robert morì il 9 marzo 1989 […] Fui sopraffatta da un senso di agitazione e frenesia, quasi che, per via dell’intimità che avevo vissuto con Robert, dovessi condividere la sua nuova avventura, il miracolo della sua morte. Quella sensazione indomabile rimase con me per qualche giorno. Ero sicura di non averla lasciata trasparire, ma forse il mio dolore era più evidente di quanto non credessi, perché mio marito ci mise tutti in macchina; ci dirigemmo a sud. Trovammo un motel sul mare e ci restammo per le festività di Pasqua. Su e giù per la spiaggia deserta, camminavo nel giaccone nero. Tra le sue pieghe grandi e asimmetriche mi sentivo come una principessa o una monaca. Sono sicura che Robert avrebbe apprezzato questa immagine: un cielo bianco, il mare grigio e questo singolare impermeabile nero. Finalmente, al cospetto del mare, dove Dio è dappertutto, riuscii a calmarmi.
Secondo me Patti Smith è bellissima, ora molto più di prima. La sua bellezza si fa beffa di ogni cliché, ma risuona nella sua voce ancora sicura e nello sguardo sempre luminoso.
Si muove con la grazia di chi è passata in mezzo al fuoco, disposta a bruciare pur di non rinunciare alla fedeltà verso se stessa.
Patti Smith
Se potessi prendermi un caffé con lei, le chiederei di raccontarmi dei disegni sui tovaglioli dei bar, della morte del marito, Fred, dei suoi gatti e di quel primo reading di poesie con la voce tremante, che cambiò il suo destino e l’idea che aveva di se stessa. Io le racconterei del mio viaggio, dell’Oceano, della malattia, delle ferite e di tutte le resurrezioni conquistate attimo, dopo attimo, dopo attimo. Con lei vorrei parlare di Dio, di quando decise di non pregare più con le parole che la madre le aveva insegnato, di quando cominciò a comporre lunghe missive a Dio, piene di domande, desiderose di conforto e di confronto. Patti prega per strada, davanti ai sepolcri dei poeti, per la vita disgraziata dei poveri e per le esistenze spezzate dei suoi amici di sempre.
Le racconterei delle soste forzate nel traffico di questa città decadente in mezzo al mare, di April Fool cantata a squarciagola o di Gloria a tutto volume, mentre guardo le travi di legno sdraiata sul letto a pancia in su e penso a quanta fatica costa la fedeltà a se stessi e a quanta misericordia ci vuole per non soccombere.
Le direi che i suoi libri, le sue parole, le sue canzoni sono intrecciate alla mia storia d’amore e le chiederei di recitare per me una delle sue preghiere perché nulla finisca, prima che sia compiuto.
Questa, di seguito, è As the night goes by, Nel trascorrere della notte.
E’ bellissima. Ascoltatela sul far della sera, quando sarete molto innamorati o molto ubriachi, ascoltatela quando sentirete di essere poeti, umani e perduti o santi. Oppure ascoltatela di fronte all’Oceano, il giorno in cui andrete ad incontrarlo.
All through the Night Sirens call
Come to me
I’ll come to you
As the night softly
Goes by bye.
Per tutta la notte
le Sirene chiamano
Vieni da me
Io verrò da te
nel trascorrere dolce della notte.
Happy Birthday Patti Smith!
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