Un mese e dodici giorni. Scuola superiore e un’altra città. Ma dopo un mese e dodici giorni dall’inizio della scuola, la mia sensazione è la stessa, più o meno. Certo, qualcosa è cambiato: posso usare qualche espressione in dialetto con i ragazzi, condivido con loro la stessa congenita nostalgia negli occhi, in quella tonalità originale che appartiene di diritto ai palermitani e riesco a costruire un dialogo più diretto rispetto a quanto potevo fare con i non-più-bambini-quasi-ragazzi delle scuole medie. Ma il disagio nel rapporto con l’Istituzione-scuola è lo stesso, anzi, cresce a dismisura.
Un mese e dodici giorni e la mia casella di posta è già piena zeppa di circolari che specificano doveri e divieti: Non arrivare tardi, non uscire prima, se hai bisogno di un permesso devi avvertire, se ti devi assentare per malattia devi comunicarlo entro le 7.45, altrimenti devi portare prova provata della ritardata comunicazione, oltre al certificato medico (tipo che se ti senti male e ti viene da vomitare alle 10 o vai a scuola e vomiti in presidenza oppure ti fai un selfie inginocchiata davanti al water del tuo bagno, in modo da giustificare il fatto che non hai avvertito entro le 7.45!); non mettere note tranne che un alunno non ti punti una pistola alla tempia e non mettere insufficienze a chi ha un problema, di qualunque tipo, vero o presunto, che “non si sa mai ci fanno ricorso!”. L’azione legale è la paura più grande dei dirigenti, è il manico del coltello con il quale famiglie sempre meno consapevoli del ruolo della scuola tengono in ostaggio ogni forma di azione educativa. Non sequestrare i cellulari (sopratutto quelli costosi), non rimproverare, non gridare, e se ci riesci non respirare fino al suono della campana! Non violare privacy, neanche per chiedere: “ehi, ti fa male la testa?”. E se un alunno in preda a crisi epilettica ti sta per morire in classe non somminastrare farmaci, neanche quelli salvavita che ha nello zaino, mai mai e poi mai! Lascialo lì e chiama il 118! Mantieni il controllo, sempre e comunque, non stancarti, non soffrire, non compatire, non farti coinvolgere.
Le classi non hanno porte né cartine, un cancellino per corridoio e quando finisce il gesso puoi tagliarti le vene e scrivere con il sangue. In bagno non esiste la carta igienica e se per caso ti dimentichi di portare un fazzolettino, puoi scegliere tra la vasta gamma di parolacce e bestemmie scritte sulle pareti e sulle porte. Però abbiamo i registri elettronici! Si, più o meno. Solo in alcune classi. E per le altre? Ti appunti tutto sull’agenda e poi ti colleghi da casa. E vogliamo parlare dei grandi passi avanti fatti grazie a questa tecnologia? Se i ragazzi, minorenni (la maggior parte cioè) arrivano in ritardo, prendono un brutto voto o si assentano, il registro invia un avviso ai genitori del malcapitato/a. Ai tempi miei per comunicare una nota o un brutto voto bisognava imparare l’arte dell’attesa: aspettare il momento opportuno, saperlo riconoscere e cogliere, trovare il coraggio di affrontare i genitori, ammettere l’errore, provare a ripararlo, recuperare. Adesso no. Adesso nessuna attesa e nessun momento opportuno. Decide la macchina. Siamo convinti, evidentemente, che i ragazzi non siano più capaci di gestire se stessi, non hanno bisogno di imparare a farlo, la vita ha altre esigenze. Nessuna responsabilità. Gli innocenti marciscono in galera, i corrotti governano gli stati. Va bene così.
Abbiamo scelto la settimana corta, perchè fa molto Stati Uniti d’America, ciò significa che i ragazzi alle scuole superiori entrano alle 8 ed escono alle 15. Sette ore in pochi metri quadrati (perchè le nostre scuole non sono come quelle degli Stati Uniti d’America!), tranne 20 minuti di ricreazione, seduti, in aule senza alcuna bellezza. Chi ha la sfortuna di dover fare lezione all’ultima ora ha la possibilità di vedere nei loro occhi il fuoco rosso di una rabbia compressa pronta ad esplodere, la noia, la fame, la testa altrove. Le scuole non hanno spazi esterni adatti a far lezione fuori, e comunque non possiamo portarli da nessuna parte: “E se cadono? E se si fanno male?”. Non ci sono fondi per organizzare progetti, per pagare figure competenti e specializzate per inventarsi nuove modalità di lezione. Quando si va in presidenza per condividere l’idea che ti è venuta, magari mentre stendi il bucato, perchè a cosa e come fare ci si pensa tutto il giorno, non ti fanno neppure finire di parlare: “Si, ma è a costo zero per la scuola?”. E tu ti alzi e te ne vai, in silenzio, e invece vorresti far esplodere la stessa rabbia rossa e compressa degli occhi dei ragazzi e urlare a squarciagola che l’idea di una scuola a costo zero ti fa schifo! Ti fa schifo la burocrazia, la mortificazione della tua professionalità, ti fa schifo lo squallore degli ambienti a cui tutti sembrano assueffatti, ti fa schifo lo stato di polizia nel quale devi agire ogni giorno e che piano piano diventa anche il tuo modo di ragionare, ti fa schifo che a sedici anni i ragazzi non sanno cosa sia e dove si trovi a Palermo la Cappella Palatina, la Cattedrale, il palazzo Steri, ti fa schifo che esprimano tutti, ognuno a suo modo, il desiderio di fuggire lontano da questa terra maledetta che ti fa crescere con il complesso di appartenere alla parte sbagliata dell’Italia. Ti fanno schifo le riforme che si sono divorate ogni progetto educativo riducendo pelle e ossa le fondamenta della società civile.
La scuola si regge sulle spalle di docenti che inspiegabilmente credono ancora al lavoro che fanno, che suppliscono all’ignavia di altri, che non si impuntano su questioni di principio, che decidono di correre rischi e prendersi responsabilità. Ieri, ai consigli di classe si parlava di tutto: qualche considerazione sugli alunni, qualche lamentela, un paio di frecciatine al collega rompipalle, cosa fanno sta sera in tv e quanto sono buone le melenzane fritte cucinate domenica. E secondo me è un bene che sia così. Magari fosse sempre così, magari la scuola fosse una comunità che condivide gioie e dolori, piaceri e dispiaceri di questa bizzarra cosa che è la vita. Perchè la vita, come la scuola, non può essere, mai, a costo zero.