Una fine…
Stringeva tra le mani la tazza calda e gialla, e il vapore della camomilla veniva su avvolgendole il viso. Non si accorgeva delle sue dita divenute bianche per la forza di quella stretta. Le scendevano giù le lacrime, senza che sul viso apparisse alcuna smorfia di dolore, nessun segno di sofferenza. Tutto era dentro, negli occhi. Due crateri ed eruzione d’ acqua e sale. Fu la suoneria del cellulare a destarla dal quel silenzio insonne, rimase immobile, solo si voltò, con la testa, verso il telefono, lesse il nome sul display, lo fissò per alcuni minuti, poi si alzò abbandonando sul tavolo della cucina quella melodia allegra. Appoggiò la testa alla finestra. E il fiato del suo sospiro appannò il vetro. Il mare era nero, rigato di bianco all’orizzonte, sembrava, e lo era, di una ostilità invincibile. Lo osservò per un paio di minuti poi posò la tazza, indossò il cappotto grigio, il cappello, i guanti ed uscì. Amava il vento freddo e quel velo di sale che si posa sulle labbra, tanto quanto odiava l’umidità che arriccia i capelli: “Amore e odio non si separano mai, neppure nelle briciole della vita” – pensò, di sfuggita.
Con passo veloce giunse alla panchina amata, sempre scartata, da tutti, per gli scogli troppo alti, ad impedire la vista del mare. Pochi sapevano, però, per una cronica anemia di pazienza, che nei giorni di tempesta il mare gli si scaglia contro e come una visione fa la sua comparsa in forma di schizzi e schiuma. Si sedette in punta, con le mani sotto le cosce, un po’ piegata in avanti, in modo da poter dondolare, indietro, avanti. Le parole di lui gli pulsavano in testa come fossero loro a dare il ritmo al cuore e al sangue: “ È stato un errore, ho sbagliato, scusa. Non c’è futuro per noi”. Lei non aveva risposto nulla. Come era solita fare. Lo guardò, si voltò e andò via, avendo l’impressione di sfaldarsi ad ogni passo, di lasciare pezzi di sé lungo la strada, di disseminare corpo sull’asfalto, brandelli di carne e sangue, come una scia.
Un inizio…
La neve scendeva ch’era un piacere. Mare grigio e bianco dappertutto. Il giorno di Pasqua. Da non credere! Il saluto del cielo al mio primo giorno di disoccupazione fu una nevicata da notizia in prima pagina: 5 Aprile neve sulle coste della Sicilia! Ed io restavo lì, imbambolata ai vetri della finestra, guardando i fiocchi imbiancare le mie prime ore di libertà e ricoprire, fino a seppellire, l’abitudine del passaggio in edicola, giornali e parole fresche che sporcano di nero le dita. Tutti i miei incarichi, in giro per il mondo, inabissati sotto quel morbido tappeto bianco, insieme ad una lettera di dimissioni scritta al volo, uno squarcio di lucidità. Una lettera di cui non ricordavo più una sola parola.
Neppure una. La sensazione si, quella la ricordavo, però. E’ stato come trovarsi in un uno spazio aperto dopo aver vissuto mille vite al chiuso. Senza aria. Sapevo che, in seguito, un seguito non troppo lontano, sarebbero arrivati i dubbi, le incertezze, quel panico sottile e crudele che attraversa i pensieri come un coltello, quando ci si chiede se si è fatta la cosa giusta. Sarebbero arrivati i pensieri cupi, il senso incerto del futuro, sarebbero arrivate le domande incalzanti e preoccupate degli amici e quelle agitate, concitate di mia madre. Ma, in quel momento, un momento da prima pagina, volevo solo restare imbambolata ai vetri a vedere la costa della Sicilia bianca di una neve rubata a cieli lontani.