It takes a year (Il primo compleanno!)

Non c’è stato né mai ci sarà un anno simile a questo. Il primo della tua vita e il primo della mia maternità.

Alla fine dei nove mesi e un giorno eravamo pronti, ma acerbi. Dovevamo maturare insieme, al calore dei nostri corpi, bagnati da lacrime nuove, riparati all’ombra di tuo padre.

Siamo cresciuti intrecciati, impastati, mescolati, diversi ma uniti. E mentre tu cambiavi lineamenti ed espressioni, pur rimanendo identico a tua nonna e suo figlio, mutavo anch’io, lasciando ovunque brandelli di vecchia pelle, asciugandomi nel corpo, aderendo alle ossa,
sottile e forte,
stremata e forte,
debole e forte,
forte.

Il mio seno è stato la tua casa, il solo rifugio che ti riparasse dal freddo, dal pianto, dalla fame, dalle ingiustizie che da subito non sono riuscita ad evitarti, dalle malelingue, dalla tristezza, dalla prepotenza di un mondo che ci chiedeva d’esser presenti, disponibili subito, sorridenti, autonomi, efficienti.
Ma noi siamo rimasti a navigare lenti nel nostro mare di sangue nuovo e vita fresca, a fiumi: tra le gambe il tuo parto, la mia ferita che non può guarire, quella porta oramai attraversata, tu nato, io nata.
E stretti stretti ancora, pure nell’attesa più inattesa, il freddo e il tremore simile alla morte e il terrore allo stomaco, il cuore svuotato, il seno riempito: il latte.

È arrivato con una potenza inaudita, sembrava sgorgare dalle viscere della terra, il mio petto come un vulcano. Da allora abbiamo trascorso ore uno attaccata all’altra, di giorno, di notte, di giorno, di notte, sempre. Dormivi sul petto come un uccellino e sotto le coperte ci siamo scambiati sguardi che rimarranno nostri e segreti per sempre. Le notti in cui piangevi senza sosta ti spogliavo, nudo, mi spogliavo, nuda, pelle sulla pelle: “Mamma è qui, mamma non se ne va”.
Te lo ripetevo con convinzione profonda, naturale, istintiva e mi sentivo crescere le radici. Così sono diventata un albero che neppure il più funesto degli uragani può sradicare lontano da te.

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Ho pensato continuamente: muoio di stanchezza, di sonno, di smarrimento, di solitudine, muoio d’amore, di felicità, di tenerezza.
E sono morta, infatti, mille volte. E poi risorta, mille volte.

Ti abbiamo visto crescere come un prodigio, ti si è accesa la vita negli occhi, nei gesti, nelle gambe, nei passi ed allora ho capito: per te tuo padre ed io non siamo stati che una scintilla.

Ami l’acqua, l’aria, la luce.

E chiami a te quel che desideri. Anche se sei ancora muto, il tuo corpo è tutto parlante, è un alfabeto di cellule che si moltiplicano, di connessioni che si accendono veloci ogni secondo.

Dal chicco di riso sulla tavola alla nave che vediamo entrare in porto, ogni cosa è un grido di stupore, un indice puntato, il desiderio di un nome come Adamo nell’Eden.

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La notte tocchi me e poi tuo padre, me e poi tuo padre, come la bacchetta di un metronomo che scandisce il tempo e il buio. E ancora oggi, a dodici mesi compiuti, ti svegli dopo appena una manciata di sonno lasciandomi digiuna di riposo, una poltiglia d’amore e stanchezza. Senza aprire gli occhi mi cerchi con la mano, mi accarezzi, mi colpisci, mi respiri, il tuo fiato sul naso, sugli occhi e sulla bocca risana tutte le piaghe del cuore.

Per nove mesi mi hai condotta dentro il buio più nero delle mie paure, hai illuminato tutto perché potessi vederne il fondo. Nascendo mi hai fatta animale, mi dimenavo in acqua nella morsa della vita che viene, l’istinto delle viscere, le grida. Mi hai aperta come un seme la zolla, come un terremoto la terra, ero polvere, natura, seme, sangue, muscoli, tendini, ossa, senza pensiero, senza divinità, senza tormento, quasi morta, tutta viva: dove il corpo è intero non c’è paura.

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Hai riempito di te ogni anfratto, angolo, spazio, buco: te sulla bocca, sul seno, negli occhi, sulla pelle, sulle braccia, sulla pancia.

Quando corri lontano ti giri, mi cerchi, mi guardi, mi ami, mi raggiungi.

Guardi tuo padre quando mi abbraccia, mi bacia, mi cura, mi sorride, mi cerca, mi trova e impari da lui i gesti degli uomini forti, pieni di grazia.

Appena nato ti portava sul palmo, adesso sulle sue spalle stai come un agnello. Mentre parla o si muove lo osservi senza perdere una sillaba, memorizzando ogni gesto. Nel presente lui è già la tua memoria. Papà ti conduce dove il mondo si svela, fra le sue leggi, tra la terra e il mare, tra gli atomi e la carne, ti inizia ai suoi misteri, ti rende curioso, coraggioso, attento e quando ti pettina con la sua spazzola sei felice come… un bambino!

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Un anno.

Ho amore per te ed ho paura per te.
Tu sei piccolo e il cuore dell’uomo è un abisso.

“Devo insegnargli a volare – mi dico – devo insegnargli a nuotare, devo insegnargli a perdere”.
Ma ti guardo assorto nei tuoi pensieri e capisco che hai già il tuo mondo interiore, il giardino segreto da seminare, i luoghi nei quali io non avrò accesso, dove ti vedrò entrare da solo, senza seguirti, senza capirti.
E allora insegnami a volare,
insegnami a nuotare,
insegnami a perdere.

Quando rientro da scuola gridi e con le mani alzate corri per casa: è il rituale della tua gioia.Quando canto mi guardi senza batter ciglio, con la bocca socchiusa e gli occhi lucenti.Che il mio canto possa restarti nelle orecchie, il mio amore negli occhi, i baci nelle mani e nel corpo tutti i “Ti amo” sussurrati da tuo padre, spargili ovunque, come un contadino che semina grano e sii paziente per coloro che non sapranno riconoscerne il valore.

Un anno.

Dopo averti dato alla luce, ancora in vasca, la mia ostetrica mi teneva stretta stretta la mano, mentre l’ostetrica dell’ospedale cominciava a lavarmi con gesti sicuri, veloci, sapienti. Non dimenticherò mai di aver compreso in quel momento la forza che può dare far comunità e farla tra donne. Benedico il cielo per ogni mano che mi ha aiutata, per ogni voce che mi ha consolata, per ogni donna che mi ha guardata e amata, per ogni madre che mi ha sostenuta e per la mia che mi ha generata. Oggi è anche la loro festa.

Sei figlio mio, nostro, loro. Figlio di chi ti ha accolto, sorriso, atteso, curato.

Il tuo cuore sia in pace.

Buon compleanno!

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(Tutte le foto presenti nel post sono di Carlo Columba)

 

 

 

 

 

Corpo a corpo

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Allatto da quattro mesi e quindici giorni.
Allatto di giorno e di notte, col fresco e col caldo, col sorriso e nel pianto, se sto bene o se sto male.

All’inizio il mio bimbo non sapeva ciucciare. Ma ha imparato, mentre piangevamo insieme, lui di fame, io di un amore che non volevo perdere.
Ha imparato, aprendo la bocca grande che sembrava un uccellino. Bocca grande ed occhi chiusi.
E così dal 4 aprile non faccio altro che questo: allattare.

A volte mio figlio si attacca al seno perché è stanco o ha sonno o ha desiderio di stare con la sua mamma. Così ho compreso che la fame non riguarda solo le viscere.
E, poi, un’altra cosa ho capito allattando: che il dualismo non esiste. Bene, male, giusto, sbagliato, bello, brutto…Noi umani siamo tutti immischiati con tutto. E, infatti, allattare è bellissimo ed è terribile. Bellissimo come il più tenero dei sentimenti, la più selvaggia sensazione d’esser viva, il più sano degli istinti. Terribile come una stanchezza feroce, come i pianti di disperazione per il sonno che corrode il cervello e che fa dire ogni mattino: io non ce la faccio più.
Tutto mischiato, come il corpo del mio bambino su di me e l’odore acre del sudore e quello dolciastro del latte, il profumo della sua pelle nuova e quello pungente della pipì. Mischiato, come i rigurgiti sul materasso e la cacca fuori dal pannolino alle quattro del mattino. Come la gioia mischiata alla stanchezza e lo stupore allo sconforto.

Allatto da quattro mesi e quindici giorni. Il peso del mio bambino è più che raddoppiato ed io lo guardo e so che le sue cosce sono il mio latte, lo sono i suoi piedi e le sue mani, prima ferme e ora frenetiche, che mi carezzano il seno o lo afferrano per tenerlo in bocca stretto lasciandomi sulla pelle con le unghiette affilate dei cuccioli i segni della più intima e antica delle relazioni. Il mio latte sono i suoi occhi e il suo sorriso, quando si stacca un attimo per guardarmi e un rivolo di latte dalla bocca cola sulla guancia a zig zag.

Non appena la fame è saziata sul capezzolo ci poggia la faccia e dorme e affonda il naso dentro al seno. Quando posso lo lascio dormire così e dormo anche io e poi tra le mani gli trovo i miei capelli o le briciole del pane mangiato tenendolo addosso. A volte respiriamo all’unisono a volte a me manca il respiro perché il mio corpo è tutto nuovo e mi ci perdo dentro cercando una nuova strada. Quando è lui ad aver paura io faccio respiri profondi e lunghi e lui va su e giù sulla mia pancia e si placa. Ed io con lui.

Succhia il mio latte e succhia la mia malinconia, insieme al parmigiano che divoro, insieme ai miei desideri, alle paure, le ferite, le medicine, i ricordi. Fa un pasto completo di me. E il suo corpo mischia lui a me e a suo padre, ancora, anche fuori dall’utero, in una combinazione sconosciuta che la vita intera non basterà a scoprire.

La notte  dorme se gli alito addosso, come il bue e l’asinello, dormiamo poco e corpo a corpo. Cerca il seno, si attacca, dorme, si stacca, scalcia, lo riprende, si sveglia, mangia, piange, si gira, mi graffia, sorride, mi cerca, ri-dorme, ri-mangia, mi guarda.

Allatto da quattro mesi e quindici giorni e ho capito che anche per l’allattamento come per la gravidanza esiste un racconto edulcorato a misura di commercio, che ci vuole ordinate, composte e riservate, profumate di colonia, sorridenti e pettinate.

Perché spettinate e sudate coi seni all’aria, le occhiaie stanche, gli occhi lucidi e ogni imperfezione alla luce non corrispondiamo a nessun immaginario.

Che l’allattamento possa essere un’esperienza feroce lo s’impara sul campo. Ed è difficile accettare che sia così. Eppure, questo campo di vita e di battaglia, solcato da notti insonni e nuove solitudini è il solo posto dove desidero dimorare.

Lì cresce l’amore che il mio bimbo ha portato e cresce mio figlio. Lì cresco io, cresce la persona che non smette di venire alla luce nonostante lo strazio della stanchezza. Perché si può dire di essere stanche fino a vomitare senza contraddire la felicità. Si può dire che è difficile e che si soffre a vedersi diverse da come ci si era immaginate, ma che quel che si scopre è pulito come acqua di fonte.

Ogni mamma fa le sue scelte su come allattare e nutrire il suo bambino ed ogni scelta ha in se stessa tutto l’amore necessario perché il bimbo possa crescere sano e felice.

Io ho fatto la mia di scelta, e so che sono libera di trasformarla in qualunque momento senza che nessun giudizio o consiglio debba  dilaniare il cuore. Ma intanto, per trovare la forza che mi serve ogni notte quando lui mangia ed io vorrei solo dormire, lo bacio sulla testa, sulle guance, sulla bocca e prego sussurrando: Il tuo corpo non se ne dimentichi mai, resti benedetto per sempre da questi baci, da questo amore, da questa fatica. Il mio latte ti renda forte e il tuo corpo sia colmo di grazia e di ogni tenerezza. La vita sia abbondante in ogni tuo gesto come lo è il latte nel mio seno e sentiti libero d’esser debole, come mi sento io notte dopo notte, e la tua vita che cresce mi riempia di  tanto tanto coraggio. Così sia.

Questa è la mia esperienza, fino ad oggi: quattro mesi e quindici giorni.

Adesso, la vita.

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Non ho smesso di scrivere solo perché non ho più un minuto di tempo per me e se ce l’ho, dormo. Ho smesso anche perché sento di non avere al momento nulla da dire  come prima.

Mio figlio mi ha resa muta.

Adesso la vita si svolge sul piano del sentire e dell’agire, sopratutto: di minuto in minuto percepire cosa bisogna fare e farlo.
Ci vuole forza fisica, è una prova di resistenza. Forza e nervi flessibili, così come richiede la vita che cresce.

È un allenamento spietato, spesso dolce, fatto di latte che fuoriesce dal seno e macchia le magliette, fatto di occhiaie e lacrime sotto la doccia, fatto di smarrimento e di momenti imperfetti e felici.
I vestiti di prima non vanno, servono scollature buone a nutrire ovunque e a qualsiasi ora e sorrido di quelli che per farmi un complimento mi dicono d’esser magra “come prima”, perché in me non vi è neppure una fibra uguale a prima.

Io non ho la forma che avevo e neppure sento di corrispondere alla forma di mamma. Ognuna è madre a modo suo, credo, con la propria felicità indicibile e la propria ferita da rimarginare.

Esiste un’idea di maternità a cui si fa riferimento che con la realtà dell’esperienza c’entra poco. È costruita. Ma la maternità non è una costruzione, un prodotto che può esser progettato a tavolino, è corpo che s’impone, è una gioia incisa nella carne anche quando sembra che tutto vada a scatafascio. È un sentiero obbligato che si percorre, però, a modo proprio dove ci si può incontrare con altre donne se si è disposte a rivedersi in esperienze simili e a non ritrovarsi ma ad accogliere storie diverse. Dovremmo esser capaci di creare una rete sociale di solidarietà e mutuo aiuto, capaci anche di immaginare e costruire un mondo diverso. Noi possiamo. Messe a nudo davanti a noi stesse e dopo un faccia a faccia tanto intenso con la vita e con la morte, noi possiamo, se abbiamo la pazienza e l’audacia di abitare tutto quel che proviamo e non diventare le madri che gli altri si aspettano o che l’immaginario comune impone.

C’è troppa meraviglia nello sguardo dei nostri bimbi nello scoprire il mondo, per non tentare almeno di viverlo in modo nuovo.

Per questo sento che le mie parole sono e vogliono essere differenti. Cercano di dar voce al desiderio che ho di far emergere la trasformazione e di comprenderla man mano che ininterrotta continua ad accadere. Tutto è più scarno, breve, forte, vero.

E in questo laboratorio esistenziale anche “Eufemia”, inevitabilmente, è alle prese con la sua metamorfosi.

Il tempo imperfetto

(foto di Artem Rozhnov)

(foto di Artem Rozhnov)

Io non so se esistono esperienze che non possono essere narrate, quel che sperimento, al momento, è che per raccontare l’esperienza del parto, non esiste nulla di esaustivo nel vocabolario della mia lingua madre.

Si procede allora a piccoli passi muti e non certo mentre “si torna alla normalità”, perché dopo il parto di “normale” non c’è nulla e non si può ritornare a quel che era, c’era e si faceva prima. E’ un passaggio verso un altrove e solo una direzione è possibile, soltanto avanti si può andare. Il parto lancia verso la vita con la forza delle cose vere che tolgono spazio a qualunque tipologia di ragionamento. Serve la consapevolezza dell’essere e del fare, di giorno così come nella notte.

Ma è un punto di partenza da ri-visitare, piano piano, per recuperare ogni pezzo dell’esperienza vissuta e trarne  la forza e lo stupore necessario per non lasciarsi travolgere dalla stanchezza né tanto meno dalle aspettative, neppure le nostre.

Perché anche “tu” non sei più quella che ha infilato di fretta e con fatica le scarpe da tennis per correre in ospedale tra una contrazione e un respiro profondo e serve tempo  ed occorre coraggio per rendersi conto della metamorfosi. Frutto di una nuova nascita, come il proprio bambino, madre di se stesse con una identità da scoprire e da plasmare che le notti insonni e la fatica e la paura e perfino la gioia non possono cancellare se non al prezzo di sacrificare ogni nuova cosa sull’altare della paura che tutto invecchia.
E così bisogna fare la strada, farla e poi percorrerla, perché non ne esistono due uguali nonostante il parto sia forse la più condivisa tra le umane esperienze.

Ed è oggi che si comincia, che il tempo di rimandare è terminato e la vita adesso è verissima ed ha la forma e l’odore e il calore di un essere umano di carne e sangue e del proprio sangue pure e del proprio calore che è tutto da sentire, perché il corpo, se ne ha la prova esperenziale ed evidente oramai, non può ingannare.

Il parto porta verità, ovunque, come un’esplosione. E la luce può essere accecante e paralizzare il cuore che non regge, nel senso proprio di supportare, nulla che non sia reso dalla vita a sua misura. Penso che tale compito spetti all’amore, l’amore concreto che con la quotidianità della sua presenza quella luce la rende da inaccessibile, vivibile, da troppo forte a necessaria agli occhi.

E il corpo accompagna l’animo nella gradualità di adattamento, si riprende piano dalla fatica della luce, si riprende con una poesia nascosta nelle piaghe, nelle suture, nel sangue in eccesso, nel latte che compare come una sorgente e che trasforma il corpo ancora una volta, di nuovo.

Io lo so, lo sento, di non aver ancora capito niente, di non aver ancora pianto tutta l’acqua buona ad irrigare e sanare, so, però, perché lo riconosco adesso nello sguardo di molte donne, che il tempo imperfetto del post parto è quello buono, così com’è, perché è quello adatto a se stesse, al bambino e all’uomo con il quale quel figlio lo si è generato e che pure si ama diversamente ora, perché quella luce non lascia fuori niente.

Per questo il post che sto scrivendo lo sto anche amando tanto, perché non è scritto come i precedenti, nella concentrazione e nella disponibilità del mio tempo, ma con una mano sola, mentre l’altra dondola la culla dove al caldo di una coperta color del cielo respira, sommessa e potente, la vita che mi aspetta.

 

Di luce

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Le cose che si trasformano con la gravidanza sono moltissime anche se so che saranno più chiare dopo aver attraversato l’esperienza del parto.

Oggi sono stata in ospedale per fare il tracciato. Mi sono messa sul lettino, ho scoperto la pancia ed ho sentito i 145 battiti al minuto del nostro bambino.

Nel lettino accanto al mio una giovane donna con le contrazioni. Seduta, perché di stare sdraiata con quel dolore non se ne parlava. Aveva i capelli neri lunghi, una camicia da notte bianca. Ad ogni contrazione, a voce bassa, si lamentava. “Ahi ahi – diceva – non ce la faccio più”. Le contrazioni erano cominciate alle due del mattino, ma la dilatazione era ancora a zero.

Osservandola ed ascoltandola mi sono chiesta molte cose, cercando di capire a cosa corrispondesse quanto stavo sentendo in quel momento.

Quella donna era bella, di una bellezza che non avevo mai visto. Aveva i capelli spettinati, non un filo di trucco, la peluria sulla pancia, un paio di fantasmini blu ai piedi. Ma era davvero bellissima. Fragile e potente, sfinita e forte, terrorizzata e coraggiosa. Aveva fame e caldo, aveva fretta, ma restava calma, seduta su quel lettino.

“Non pensavo che non mi interessasse nulla di stare mezza nuda davanti ad estranei”, mi ha detto. Era libera, tutte le categorie che di solito ci incasellano o ci imprigionano stavano lì, in frantumi ai suoi piedi, accanto alle ciabatte a fiori, quelle di tutti i giorni, perché quelle nuove, nella fretta, erano rimaste a casa.
“Sta andando tutto in modo diverso da come avevo immaginato”, mi ha confidato. Ma non lo diceva con tristezza o rabbia, lo diceva con stupore e tremore, come chi sta camminando e di gran passo su una strada che non aveva mai attraversato prima.
Era talmente libera che in quel momento di esserlo non le importava nulla. Voleva smettere di star male, voleva il suo bambino.

L’ho lasciata lì, mentre io venivo liberata dal macchinario e rimandata a casa.

Spero abbia partorito, e spero stia bene. Ma, soprattutto, spero di non dimenticare quel che ho visto e intravisto: canoni diversi, criteri differenti.

Capita spesso che venute meno le condizioni di lotta, trasformazione e si, anche  di sofferenza, ci si dimentichi della libertà sperimentata. Si sente la vertigine, il rischio della solitudine e si cerca il conforto della strada conosciuta. Non è certo una colpa. Spesso non è neppure un meccanismo riflesso e proprio per questo accade e basta.

Però, nonostante la paura dell’ignoto che è di ogni partoriente, nonostante il corpo senta potenza di vita e pericolo di morte abitarlo contemporaneamente senza poterli separare fin dai mesi di gravidanza, nonostante la perdita dell’immagine che si è costruite di se stesse, nonostante vengano scoperchiati in quel momento tutti gli angoli chiusi e remoti del cuore, e ci sia paura e ansia e tanto dolore, spero che quella donna non perda memoria della libertà che ha sperimentato e condiviso con me, seppur di passaggio. Non lo dimenticherò: mentre dava alla luce il suo bambino, in qualche modo ha dato un po’ di quella luce anche a me.

Passaggio. In ebraico si dice Pesah, in italiano si traduce Pasqua, appunto.

L’ultima attesa

IMG_20180206_130054All’ottavo mese di gravidanza è così che mi sento: un po’ mare e un po’ montagna. Gonfia di liquido primordiale e terra emersa dal nulla.

Più si avvicina il tempo del parto, più la sensazione è quella di inoltrarsi in una stanza segreta, dove la luce filtra appena, ma dove il buio non è tenebroso, solo sconosciuto. Il silenzio diventa una necessità, la lentezza una condizione di fatto, presente e vera al di là della volontà. Il fiato si accorcia e servono respiri decisi e profondi, il cuore diviene un setaccio: passano solo le relazioni buone, quelle di poche parole e molta, strabordante com-passione.

L’attesa si fa concreta, è di carne. Quella che si muove dentro sempre più impetuosa e crea una serie di onde che trasformano la pancia in mare.

Le idee, le teorie, perfino la propria immaginazione si sgretola. E’ una diversità costante che si fa vita quotidiana. Quello che vorresti non può essere, quello che è s’impara a volerlo, in prospettiva, nell’attesa di capire, vedere, toccare, sentire.

L’ottavo mese è stanchezza, soddisfazione e timore. La strada fatta, pesa. Alle spalle giacciono ferite a morte molte paure attraversate e sconfitte. Davanti però c’è la più difficile da vivere che non corrisponde a nessuna esperienza fatta e le abilità, le forze, le competenze per superarla bisogna credere di possederle, iscritte nel corpo, anche se non le si è mai viste. E’ una professione di fede, senza mistificazioni, nelle proprie viscere, costruita granello dopo granello nelle trasformazioni accettate, nei numerosi piccoli e grandi malesseri portati nella carne ogni santo giorno, nella pazienza delle notti ad occhi aperti e corpo dolente, senza che la felicità si allontanasse di un passo dal cuore. E’ l’affidamento di tutta intera la propria esistenza al figlio che è e che verrà, piccolo, ma capace di trovare la luce per il suo istinto vergine alla vita.

Ci si nutre di testimonianze, della sapienza di donne che quella porta l’hanno attraversata, le si scruta ed ascolta con la devozione dei discepoli, ma si sente dentro la certezza che questa esperienza che si ripete da sempre non è assimilabile, quanto già avvenuto non posso farlo diventar “mio”, perché la mia esperienza sarà diversa dalla loro pur essendo lo stesso miracoloso e concretissimo avvenimento.

E ci si nutre della presenza femminile di coloro che non hanno partorito, portatrici però di una sapienza diversa, accogliente, indispensabile, capace di ascolto e della curiosità che costringe alla riflessione, alla presa di consapevolezza nel e del momento.

L’ottavo mese è di solitudine, ma ogni abbraccio è necessario. Sono necessarie le mani del padre sul ventre, lo sguardo attento di uomo ai mutamenti del corpo e dell’animo, scorgere negli occhi amati l’attesa, accettare che sia diversa, ma sentirla autentica, audace.

Tutto il mondo e tutta la vita e perfino tutte le contraddizioni e la morte, tutto si invoca come necessario, perché non c’è parzialità che possa essere tollerata né autoinganno né autodifesa. E non si riesce a dare un nome corrispondente ad uno “schema” a nessuna divinità, perché di Dio si vuole tutto, lo si vuole maschio e femmina, potente e debole, presente e nascosto.

All’ottavo mese si comprende che ogni cosa è oramai trasformata, non importa quel che accadrà o in quale modo succederà, già ora si è altri, il maggior grado possibile di vicinanza a se stessi mai raggiunto e le madri, i padri, le sorelle e i fratelli si amano di amore più forte e la loro presenza rende coraggiosa e possibile l’ultima attesa.

La strada sconosciuta

(Foto di Carlo Columba)

(Foto di Carlo Columba)

Una volta un mio professore di Sacra Scrittura mi disse che diventando adulti prima e anziani poi il tempo comincia a trascorrere più lentamente perché s’impara a vivere, a fare il proprio mestiere, a relazionarsi alle persone, a difendersi e a dare quel che si vuole. E così che tutto rallenta e viene da questo la necessità di non smettere di leggere, interessarsi e fare cose nuove.
Nel mezzo (e un po’) del cammino della mia vita non so ancora dire se avesse o no ragione. Certo è vero, a stare al mondo piano piano s’impara e anche ad avere a che fare con se stessi piano piano s’impara. Di questo sono stata convinta fino a qualche mese fa, quando cioè è cominciata la mia gravidanza.

Da allora la strada è ignota e il cammino è incerto. Mi dicono che diventare genitori è ufficialmente diventar grandi, ma io mi sento come se fossi tornata al punto di partenza, come se tutto fosse da rimparare, daccapo. E quel che si è e quel che si ha non serve ad agire bene, serve semmai ad imparare bene, se non ci si lascia travolgere dalle paure e dalle mille voci che si scatenano alla notizia che un nuovo uomo sta per venire al mondo. Come se quello che sto vivendo potesse essere vissuto sulle orme di miliardi di esseri umani venuti prima. Non è così. Ogni volta è l’unica volta. Questo è quel che capisco.

Le esperienze è bello ascoltarle, per trovare differenze e per sentire parlare le donne, ciascuna con il proprio mistero, presente da sempre e a prescindere dalla gravidanza, per la verità. Perché alcune donne generano, ma il mistero non sboccia e altre, invece, non generano, ma il mistero le avvolge come una scia luminosa.

La gravidanza è una strada sconosciuta. E non c’è passo che si compia che lasci prevedere il prossimo. Non sai chi c’è dentro di te, come sarà e non sai come sarai tu, quale esito avrà la trasformazione che contando le settimane e affrontando i malesseri ti porterà alle doglie del parto, quando di trasformazione ne comincerà un’altra e poi, ancora, una differente non appena sarà il tempo della cura.

A volte è come rimanere sospesi nel vuoto, in attesa che il tuo corpo faccia quello che la tua volontà non può decidere né nessuna forma di controllo determinare. E bisogna nutrire la fiducia che lo farà, nonostante la paura porti a temere che così, forse, non accadrà?

Non è vero che le mamme devono essere forti, ma è vero che lo sono. Perché se moltissime cose io ancora non le so, so che non c’è modello o senso del dovere a cui sono chiamata ad obbedire.

Forse la gravidanza, oltre ai timori più ancestrali e alla gioia più viscerale, può essere anche questo, allora: un processo di liberazione. Ma esiste strada di liberazione che sia un sentiero battuto, facile da attraversare? Semmai il cammino da compiere è a ritroso, verso un’istintività quasi animale, perché è lì che devo arrivare dove tutto è cominciato, ma lo devo fare a modo mio, anzi no, eccolo il cambiamento: devo farlo a modo nostro.