Vivo sullo stesso livello del mare, su di un’isola strana, bella, disgraziatissima e triangolare. Vivo sulla costa, dove il clima è mite anche in inverno e dove in estate “nevica fuoco”. Nei mesi più freddi la neve decora le cime di questa terra abbandonata in mezzo al mare. Ogni tanto si imbianca monte Pellegrino, il promontorio che galleggia sul Tirreno alle porte della città: la neve ricopre gli alberi morti ammazzati, divorati dal fuoco dell’ignoranza e della miseria del cuore. Se c’è la neve su monte Pellegrino, allora fa freddo davvero, anche a Palermo.
Io non scio, non amo fare a palle di neve, il freddo intenso mi fa venire i geloni alle mani e tutto quel bianco a volte mi blocca il respiro. Ma quando nevica, le cose accadono in modo diverso e questo l’ho imparato anche io.
Conflenti, provincia di Catanzaro
Mi pare fosse la fine di gennaio ed io ero ospite in una casa non mia, non contenta di esserci e, infatti, di quella casa ricordo appena una stanza. C’erano quadri, cornici dismesse, pennelli, carta di ogni tipo. Doveva essere la stanza di un artista. In quel periodo l’arte era praticamente tutto per me e dentro quella stanza mi sentivo quasi me stessa, quasi però. Ero poco più che adolescente e non molto felice. Un pomeriggio, insieme alle persone con le quali mi trovavo, abbiamo deciso di fare un giro. Sprofondavamo nella neve fino alle ginocchia e il sole faceva scintillare i cristalli di ghiaccio come un immenso abito da sera. Raggiungemmo una strada, un piccolo sentiero di neve spalata che si inerpicava fin sopra la collina. Dopo circa un’ora di cammino, bussammo ad una casa di legno scuro e ci aprì un uomo. Conosceva alcune delle persone che erano con me e ci fece entrare. Dentro era caldo e spoglio. Con l’uomo abitava la moglie e la loro bambina di un anno. Lui aveva la barba più nera che avessi mai visto, nero corvino, foltissima e lunga e aveva gli occhi verdi, malinconici e vergini. Non parlava italiano, tranne qualche frase fatta, parlava solo dialetto e pure la moglie, e la bambina balbettava parole che che noi non riuscivamo a decifrare. Ci raccontò della desolazione del luogo, immerso in una natura bellissima e selvaggia e abitato da un’umanità smarrita e feroce. Della natura conoscevano il linguaggio, le regole i rischi; dell’umanità capivano poco e non sapevano mai cosa aspettarsi veramente. Non avevano un diploma e non avevano un lavoro. Lui spaccava legna, lei cucinava. Volevano una vita diversa, si capiva ascoltandoli, ma forse non lo sapevano che le loro parole storpiate e i loro sguardi vergini mostravano un desiderio sconosciuto di cose sconosciute, non immaginavano che i loro corpi erano tutti protesi verso una vita nuova, ma i loro piedi piantati su una terra che gli pietrificava le ali. Si fece tardi, salutammo, andammo via. Era quasi buio, il cielo terso, il freddo intenso, nel cielo la luna. Intorno era blu, la neve scendeva giù color dell’argento e io decisi di studiare da allora in avanti con tutto l’impegno che potevo.
Gangi (Palermo)
La mia migliore amica è di Gangi, un paese poggiato su un rilievo a 1011 metri sul livello del mare. Ai tempi, quando amavo lasciare la città e passare lì i miei fine settimana non ero proprio una ragazza, ero più un bruco, neppure troppo fiducioso sulla riuscita della propria metamorfosi, ma ero un bruco attento e mi nutrivo della vita attorno a me, qualunque fosse la sua forma, avidamente. Amavo passare a Gangi il mio tempo, mentre i miei capelli ricrescevano e io imparavo l’esistenza di nuovo, daccapo. Amavo svegliarmi al mattino e guardare i tetti dalla finestra, dopo aver trascorso la notte a parlare con la mia amica, di tutto, di tutti, di noi: ascoltando capivo, capendo parlavo, parlando raccontavo, raccontando guarivo. I suoi amici divennero i miei e mi stupiva che mi volessero bene nonostante io non avessi fatto nulla per loro. Ho amato moltissimo le strade silenziose, le salite scoscese, la gente che si salutava per strada, i campanili, la tramontana, le mani premurose della mamma della mia amica, l’odore della cucina, il loro affetto.
Un pomeriggio d’inverno, di sabato, andammo a visitare la chiesa del convento dei Cappuccini, ma quando uscimmo da lì, per terra c’era un leggero strato di bianco, dal cielo cadevano fiocchi freddi e silenziosi, davanti a noi si estendeva la vallata, il sole moltiplicava la luce, tutto era illuminato e io volevo vivere.
Firenze (Stazione S.M. Novella)
Abitavo a Roma, ma ero stata al Monastero di Camaldoli per partecipare al “Dialogo ebraico cristiano”, che si tiene lì ogni anno. All’edizione precedente avevo preso parte come inviata di Rai Radio 3: dovevo intervistare Alexander Rofé, ebreo di origine italiane, professore di Sacra Scrittura all’Università ebraica di Gerusalemme. Quell’anno, invece, mi invitarono per prendere parte al confronto tra giovani ebrei, cattolici, protestanti, un appuntamento fisso, ogni anno, durante i tre giorni del convegno. Ritrovai i miei amici, me ne feci di altri. Con loro passai la notte, a bere nocino di Camaldoli e a discutere di religione, liturgie, filosofia, arte, vita, amore e morte. Forse fu grazie al liquore, non so, ma la serata trascorse allegra e costruttiva; nonostante le differenze, eravamo lì, tutti insieme, a mangiare, bere e far festa infischiandocene di secoli di divisioni, guerre sante e anatemi. La gente è sempre più sapiente di chi la governa, anche in campo religioso.
Senza toccar letto, alle sei del mattino, una donna dolcissima accompagnò me e la mia amica Miriam, ebrea della comunità di Milano, alla stazione di Arezzo. Da lì io avrei proseguito per Roma, lei per Milano, appunto. Lungo il tragitto verso Firenze ci raccontammo la fatica del continuare a credere ai nostri sogni, il teatro per lei, la scrittura per me. Parlammo di amore, della passione, di quella tenacia nel voler essere ciò che volevamo essere nonostante il mondo attorno a noi ci lusingasse per convincerci a cedere alla rassegnazione. Arrivammo a Firenze intorno alle 10, era venerdì. Ci abbracciamo forte e ci separammo, ma dopo qualche istante mi sentii chiamare per nome, era Miriam, oramai un po’ distante, che in mezzo alla folla, sorridendo, sventolava il braccio e gridava: “Shabbat Shalòm!”. Alzai il braccio anche io e risposi a voce alta: “Shabbat Shalòm!”. E’ l’augurio per l’arrivo del sabato, giorno santo degli ebrei. Shalòm significa “Pace”. E mentre noi due ce le auguravamo a vicenda, a voce alta per estendere quella speranza al mondo intero, cominciò a nevicare. La stazione fu ricoperta di una coltre di neve soffice, il freddo divenne pungente e io capii di stare vivendo finalmente, davvero.