Ludovico Quaroni-Luisa Anversa Ferretti, Chiesa Madre, Gibellina (foto di Carlo Columba).
Ho fatto un giro intorno al mondo. Mi ci è voluto un pomeriggio d’estate e migliaia di chilometri macinati di buon passo sui sentieri interiori.
Il Festival internazionale di fotografia “Gibellina Photoroad” è un viaggio. Road, appunto, “la strada”. Un viaggio non solo perché le foto è così che sono: per strada, nelle piazze, dietro gli angoli, fra le mura degli edifici che fanno di Gibellina un posto unico al mondo, ma soprattutto perché le fotografie accompagnano nella sempre difficile e ardua operazione dell’introspezione guidata e sostenuta da un’opera d’arte. Non sono un critico, non capisco nulla di tecniche fotografiche, non conosco le avanguardie o i fotografi di tendenza, ma cerco di tenere gli occhi aperti, su me stessa e sulla storia che sto attraversando.
Il mio viaggio comincia da Baglio Di Stefano, tra canti di cicale e vento di campagna. Ci arrivo con il bagaglio delle parole intense scambiate durante il tragitto con l’uomo che mi accompagna, parole che demoliscono, parole che costruiscono, il dolce affanno del conoscere se stessi, del provare a conoscere l’altro. Entrare nel padiglione di arte contemporanea che custodisce le opere di Arnaldo Pomodoro è stato come metter piede in un mondo incantato. Muovermi tra le opere dello scenografo, tra le sue sculture geometriche di bronzi e ingranaggi, tra i dipinti e le installazioni di diversi artisti contemporanei, tra le foto della rassegna, è stato come avere una visione, non spaventarmi, attraversarla. Dalla vita notturna delle case, ritratta nelle foto bellissime di Turiana Ferrara, si passa, nel giro di pochi metri quadrati, a mondi diversi e complessi e a diversi e complessi modi di esprimere l’essere umani. Nessuna definizione a restringere lo spazio, nessun ruolo obbligato a determinare l’identità. Materiali diversi e le più disparate tecniche di realizzazione utilizzate per dar vita al proprio mondo, per dar sfogo al tormento o all’inquietudine, per creare spazi altri dove sperimentare l’esistenza così come accade e così come si vorrebbe che fosse.
Nel padiglione poco più lontano, molto luminoso e scarno, ci sono le foto di vari artisti, giunti sulle rovine di Gibellina ancora fresche di polvere e disperazione, subito dopo il sisma, a catturare i volti e le storie che il terremoto aveva seppellito mandando in frantumi la vita quotidiana di uomini e bestie. Tra le foto due si impongono ai miei occhi con forza fra gli scatti di Melo Minnella: una tendopoli e una donna con in braccio il suo bimbo. Potrebbero essere foto di oggi, frammenti di uomini e donne sparsi in uno fra i tanti campi profughi della terra: che brutta cosa – penso – dimenticare il dolore fino a non saper più riconoscere quello che si ha sotto gli occhi negli occhi degli altri, ogni giorno. Come è corta la nostra memoria.
Nella piazza del Municipio c’è un bar che bisogna visitare se si va a Gibellina. Si chiama “Agorà” ed entrarci è come sentirsi catapultati in uno dei paesi della dittatura comunista del secolo scorso. Vedere per credere. In piazza le foto sono enormi, a grandezza naturale, foto di facciate di palazzi, di persone che tornano da lavoro, foto di città devastate e squallidi spazi abbandonati ripresi dall’alto. Spazi urbani che si alternano a volti, volti che contengono storie, storie che si deve esser disposti ad ascoltare per capire il senso degli spazi e le espressioni dei volti: un girotondo di sensazioni, una vertigine.
Era la mia seconda visita a Gibellina e l’ho amata molto. Le sue stranezze mi erano più famigliari e le sue pietre più comprensibili. La sfera di luce bianca della cattedrale mi è parsa bellissima e così gli angoli del giardino antistante fra le cui mura si trovavano le foto delle “Pietre di Palermo” di Ezio Ferreri. Palermo, la città dalle rovine mute che ancora oggi non si riescono a raccontare, rovine di malinconia feroce e decadente, dal cui peso ogni giorno proviamo a riemergere. Si può sostare al riparo, custoditi da spigoli pungenti, seduti su panche ruvide di muro orizzontale, con la sfera di luce incombente alle spalle e il corpo di Cristo al di là del cemento armato, seduti a guardar le foto appese o a pensare o a raffinar l’olfatto per odorar la salvia e il rosmarino piantati a circondare la chiesa, forse nel tentativo di farla sentire una casa per tutti.
Le foto sparse nella città obbligano ad attraversamenti pedonali di piccola o media portata. E’ ancora estate e ci sono i ragazzi per strada. Ad ogni luogo la sua porzione di giovinezza: i bambini che giocano a pallone al Sistema delle piazze e gli adolescenti nella Piazza della memoria, i ragazzi che giocano a carte ai tavolini del bar e le ragazze che passeggiano, con gli smartphone in mano a causar distrazione e a far perdere la partita, fin da subito, a scanso di equivoci. Chissà se crescere in questo museo a cielo aperto che è Gibellina crea in loro un immaginario diverso. Chissà se le opere d’arte tra le quali giocano, camminano e crescono avranno la meglio sulla fantasia banale di orizzonti resi tutti uguali da facebook e dalla Tv. Chissà se lo spazio immenso, il silenzio e la luce di questo luogo li aiuteranno nelle scelte da fare per diventare adulti, chissà.
Alla fine del giro, tornando in auto, ripenso alle cose viste e capisco che due sono i lavori che ho particolarmente apprezzato. Il primo è di Giulio Piscitelli. Le sue foto ritraggono “quell’evento storico inarrestabile, quell’energia collettiva davanti alla quale si svelano le nostre meschinità” ovvero i viaggi dei migranti verso l’Europa. Le foto enormi costeggiano la strada e sono poste in alto. Bisogna alzare lo sguardo, quindi, con la testa leggermente indietro per poterle osservare. Sembra che ti vengano addosso e senti il mare e senti il deserto e senti la disperazione e vedi la paura, la vedi in quegli sguardi e sotto la tua pelle, anche se non hai da scappare con la morte alle calcagna e l’ignoto ad ogni passo.
Il secondo è di Issa Touma, un fotografo siriano, di Aleppo. Io a queste foto non ero preparata. Stavo ancora ammirando le geometrie e le asimmetrie delle Case Di Lorenzo realizzate dall’architetto Francesco Venezia, i muri color della terra e il cielo a stabilirne il confine, quando, voltato l’angolo, mi sono ritrovata davanti la guerra di Siria. Ritratti di giovani donne con una fascia bianca sugli occhi, donne violate proprio nell’intimo sacrario della propria identità: amici e parenti morti, lavoro perduto, le bombe sulla testa, l’impossibilità di progettare il futuro e di vivere il presente. Non so se si può dire di aver visto il volto di qualcuno se non lo si può guardare negli occhi, ma forse quello che la fascia bianca posta dall’artista nasconde è svelato dalle poche parole riportate dietro ad ogni foto. Solo il nome e un pensiero breve: Dima, Zanous, Angela, Lama e molte altre.
Le loro parole le voglio riportare alla fine di questa piccola cronaca, perché si dice che sono le ultime parole quelle a rimanere più impresse. Prima voglio provare, se riesco, a rendere un momento di questa visita a Gibellina, un momento breve, quasi invisibile, ma importante. Era il crepuscolo, tirava un vento sottile e dappertutto attorno era silenzio. Passeggiando insieme all’uomo che mi ha accompagnata ho avuto la percezione netta di quanto fosse importante tornare a casa con la consapevolezza di dover non ricordare, ma metabolizzare le cose viste, le parole lette, le sensazioni provate, farle diventare parti del mio corpo, pezzi di me. Le foto del Gibellina Photoroad non sono al riparo fra le mura di un museo. Sono affidate alla strada, agganciate in gran numero solo dalla parte superiore: il vento le fa dondolare, il sole ci batte contro. Sono nascoste fra gli angoli, trovarle è una caccia al tesoro. Non ci sono custodi a difenderle, né riparo alcuno dai temporali estivi, dai vandali, dai gatti randagi. Mi davano l’idea di appartenere a chiunque ed io le ho sentite mie. Lui mi camminava accanto, ma in questo incedere non eravamo soli. Eravamo in cammino con tutti e niente di quanto quelle foto ci avevano raccontato poteva esserci davvero estraneo o indifferente: da una sensazione personale e privata ai grandi drammi sulle spalle dei popoli, tutto quello che avevamo visto era nostro.
E lo erano anche le parole delle giovani donne siriane. Andrebbero ripetute a voce bassa queste parole, a fior di labbra, come un rosario, fino a quando non sarà chiaro a ciascuno quella cosa piccola, piccolissima, forse inutile eppure da fare per porre fine a tanto insostenibile, ingiusto, inaccettabile dolore:
Hiba, 31 anni.
Dopo 13 anni di indipendenza economica, oggi sono terrorizzata di perderla se Aleppo dovesse cadere nelle mani degli estremisti. Sarei intrappolata nel mio appartamento, incapace di uscire se non accompagnata da un familiare di sesso maschile. Ho attacchi di panico quando penso di perdere la mia vita, il mio lavoro, solo perché sono una donna.
Angela, 35 anni.
Ho studiato farmacia in Russia. È terribile non essere in grado di dispensare medicine alle persone che ne hanno bisogno. Nel 2012-2013 le medicine erano particolarmente difficili da trovare. Non potevo stare ad Aleppo. Dopo tre anni di guerra sono tornata nel mio villaggio, lontano dal puzzo della città che muore.
Zanous, 26 anni.
Non ho paura di morire, ho paura di un handicap fisico o mentale. Credo che Dio sia il Salvatore onnipotente ed ho intenzione di rimanere qui ad Aleppo.
Dima, 21 anni.
Da quando è iniziata la guerra ho detto addio a tante persone. Allora ho smesso di incontrare persone così non avrei dovuto più dire addio. Ho perso ogni senso di vivere. Sono rimasta ad Aleppo per finire i miei studi e ogni notte conto le bombe che esplodono intorno a casa mia fino a quando non mi addormento.
Lama, 25 anni.
Non avevo paura della morte, perché non sapevo che cosa significasse. Quattro anni di guerra mi hanno cambiata. Ora vivo ad Aleppo, il luogo più pericoloso del mondo. Ma sono ancora determinata a sognare, vivere e godere di ogni atomo di aria fresca e nubi bianche. Se sopravvivo a questa guerra voglio visitare la grande muraglia in Cina, praticare la meditazione indiana e continuare a disegnare.
“Se sopravvivo a questa guerra”. Prima persona universale.
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