Semi tra le pietre

Viaggiamo nel tempo, ogni volta.

L'Etna

L’Etna

E torniamo diversi, più noi stessi e inadatti al mondo.

Ho cucinato torte di grano saraceno in un vecchio forno senza regolazione, Giona ha imparato a lanciare pigne oltre i muretti a secco, lavare i piatti, sedersi sul vasino, camminare tra le spine. Tu hai percorso la campagna in cerca di semi, uomo primitivo, visionario e profeta.

Foto di Carlo Columba

Foto di Carlo Columba

Siamo rimasti la sera seduti fuori, coi maglioni larghi e la kefiah al collo a farci punzecchiare dai moscerini, immobili come asceti, immersi nell’aria, nel silenzio e nel desiderio che gira come macina da mulino e dà sapore al nostro pane quotidiano.

Ci siam lavati poco, vestiti a caso, dormito mischiando calzini alle lenzuola e pigiami improvvisati ad un sogno ininterrotto, perseveranti come grilli nelle notti d’estate.

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Abbiamo attraversato l’isola per asciugare lacrime, abbracciare i vivi, seppellire i morti, portare il nostro amore agli amati ed osservare il dolore che non avvisa né risparmia. Siamo tornati alla campagna come si torna nelle tane, ci siamo leccati le ferite e baciati alla luce della luna che Giona scova sempre, di notte o di giorno, tra le fronde, i tetti, le nuvole: “Mamma ho trovato la luna e una stella!”.

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Giona impara che ci si bacia spesso e per tutto, dappertutto. Mi chiama mamma, Giulia, gioia.

Amore, amore, amore, cambiamo ancora! Con intatto timore. Mescoliamo ogni cosa, di nuovo, costruiamo futuri meticci e cresciamo un figlio animale selvatico, indomito che impari a spezzare recinti  di filo spinato coi denti.

Figlio selvatico

Chiamiamo per nome ogni dolore. Dimmi che mi ami con immutata e commossa meraviglia. Scambiamoci promesse feconde tra Acanti bruciati dal sole che affidano fiduciosi i semi alle pietre.

Foto di Carlo Columba

Foto di Carlo Columba

In campagna le cinciallegre saltellano tra i rami dei cipressi.

Hai nostalgia, tu, dei canti di uccelli numerosi sul pino grande.

Hai la vita dietro le spalle, il futuro fra i rami più alti degli alberi.

Giona è uno scoiattolo.

Foto di Carlo Columba

Foto di Carlo Columba

Siamo tornati, con bagagli di oracoli, miele e mandorle tostate.

Nostro figlio ha piccole radici sotto i suoi piedi.

 

 

 

Poiché c’è forza

 Robert Mapplethorpe, Calla Lily (Selenium) , 1988.


Robert Mapplethorpe, Calla Lily (Selenium) , 1988.

Poiché c’è forza…

nel nero più nero
una padronanza assoluta
l’esplosione di una calla
trombe
grazia corporea
c’è una mano ferma
che allaccia stringhe di bambino
e il volto del coraggio
nascosto da  un velo inviolato
c’è una mano ferma
provetta nella trama dei cieli
che si annerano
là dove i cuori puri
si fanno parenti.

Poesia in memoria, Patti Smith.

Attesa

Ero contenta di poter partire. Che la meta fosse Madrid mi importava poco. Quello che contava era trascorrere tre giorni lontana da tutto insieme al mio ragazzo: poco più di vent’anni, molti sogni nella testa e l’emozione per il mio primo rossetto rosso in tasca.

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Eravamo giovani, squattrinati e innamorati così come sapevamo esserlo allora, così come potevamo esserlo per le cose che la vita ci aveva insegnato fino a quel momento.

L’albergo era vicinissimo a Puerta del Sol, ma minuscolo. Ricordo che doveva abbassarsi, lui, per passare dalla porta del bagno, perché era il ragazzo più gigantesco e buono e malinconico che avessi mai incontrato. Ed era anche molto bello, secondo me.

Puerta del Sol, Madrid.

Puerta del Sol, Madrid.

Madrid fredda e caotica, con la gente che restava per strada fino a notte inoltrata. Abbiamo passeggiato a lungo, mangiato schifezze e immaginato il futuro, abbiamo parlato, molto, ci siam detti tutte le parole che poi, invece, avremmo purtroppo cominciato a tenere per noi ed abbiamo dormito vicini come solo a vent’anni si sa fare. Ci siamo emozionati, ci siamo cercati, invano qualche volta, come accade tra gli esseri umani. Siamo stati molto in silenzio. Ci piaceva, sembrava importante.

Entrati al museo del Prado abbiamo lasciato gli zaini alla reception e preso una piantina per essere sicuri di non perderci. Riuscire a vedere tutto, con il tempo che avevamo a disposizione, era impossibile. Abbiamo vagato a zonzo, senza sapere cosa stavamo cercando. Devo essere sincera, io non ricordo nulla di quella visita, nulla tranne una cosa: Il Cristo crocifisso di Diego Velasquez. Lo avevo visto riprodotto infinite volte ed infinite volte non mi era piaciuto. Mi sembrava un’immagine “scontata”, uno dei tanti poveri cristi che pendono da milioni e milioni di croci ovunque nel mondo. Ma quella mattina, all’improvviso, mi fu chiarissima la differenza che esiste tra una riproduzione e un’opera originale. Era…incredibile.

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La tela mi parve molto, molto  grande e il nero del fondo la cosa più buia che il mio sguardo avesse mai percepito. Il bianco del corpo fa si che Gesù sembri venir fuori dal quadro. Si ha l’impressione che dalla croce il corpo stia per piombarti addosso. E’ come se avesse un volume, come se si potesse mettergli un braccio attorno, per sostenerlo.

Ma non lo si può sostenere, invece. Né il corpo né il volto. Ebbi l’istinto di scostargli dal viso la ciocca di capelli che lo ricopre per metà. Gesù in quel quadro è un uomo bellissimo e questo rende la morte che tutto lo afferra, insopportabile. Osservando quel volto si desidera di vederlo sorridere, di vederlo riprendere colore, di poterlo guardare negli occhi, di sentirlo parlare, di riaverlo vivo.

Il sangue è appena accennato. Come se quell’uomo non avesse patito la violenza delle percosse, dello scherno, del tradimento da parte dei suoi, del peso della croce. E’ un dolore tutto interiore, il corpo non fa che dirne la presenza. Non c’è rabbia in questo dipinto. Non c’è disperazione. Ma è palpabile il senso della fine, l’assenza della vita. E questa assenza di fiato e colore si scontra con la luce che il corpo morto emana: accecante e bianchissima.

Non credo di aver pensato  nulla di “spirituale”, forse perché nel tempo ho imparato a diffidare dei passaggi troppo veloci che vanno diritti alla resurrezione. A quella gioia melliflua che è più vicina alla nevrosi che alla fede. Neppure oggi riesco a pensare nulla di “spirituale” di fronte al Cristo crocifisso di D. Velasquez. Porto impressa a fuoco la potenza dell’opera e quando mi riesce la raffronto con tutta la morte, la fine e il dolore che scorgo attorno a me o dentro di me.

Forse, se un’immagine di rimando mi si apre in cuore è quella legata al tempo della gestazione. Così mi appare il dolore: un tempo di nascondimento, silenzio e crescita, fino a che si è pronti a venire alla luce, di nuovo. Se si rimane troppo poco a contatto con il proprio dolore, il parto di se stessi è prematuro, non si è autonomi e ci si sente esposti ad ogni debolezza, se si resta nel grembo del dolore più del tempo necessario, si muore.

Ecco, il Cristo del Velasquez sembra proprio che dalla morte e dalle tenebre fitte, venga alla luce. Non riusciamo a vedere il compimento di questo processo, lo si può intravedere, lo si può sperare, lo si può solo aspettare. Se potessi intitolare io l’opera la chiamerei: L’attesa, perché se una scintilla d’inquietudine la fede accende in cuore è proprio l’affidarsi alla possibilità che un termine al dolore sia stato stabilito per tutti e che il senso del nostro patire ci verrà disvelato: Il Cristo resta in croce da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Un tempo determinato. Poi è il dolore muto e intenso, poi è il buio del sepolcro e poi è… .

 

Una perla di ragazza

(foto di Barry Feinstein)

(Janis Joplin, foto di Barry Feinstein)

Da quando gli anni ’70 hanno fatto irruzione nella mia vita attraverso la storia di chi era un ragazzo in quegli anni, ho imparato, conosciuto e cominciato ad amare molte, moltissime cose e ho compreso che quegli anni esistono come una traccia genetica, inconscia, ma fortissima nella vita di chiunque sia arrivato dopo.

Janis Joplin fino a qualche mese fa era per me uno dei tanti nomi leggendari della musica: Jim Morrison, Bob Dylan, Jimi Hendrix, John Lennon…. Questa estate, invece, percorrendo le assolate strade del Portogallo, ho scoperto chi fosse. Osannata per la sua voce blues, particolarissima in una donna bianca, capace di interpretare brani dal folk al rock and roll (per esempio: https://www.youtube.com/watch?v=sfjon-ZTqzU) e morta come tutte le stars della musica a 27 anni.

Ma della sua storia, più di tutto, mi ha impressionato il disagio e l’inquietudine che l’hanno quasi costretta ad una ricerca continua di se stessa e alla gestione di una sofferenza molto molto profonda.
Dicevano che non fosse bella e pensava anche lei di non esserlo. Grassa per tutta la durata della sua maledetta adolescenza e con la pelle del viso rovinata dall’acne era il bersaglio perfetto per quella massa di idioti presenti nelle scuole di ogni tempo. Janis pativa la solitudine e desiderava essere amata da tutti, tutti, senza distinzione. Scappò via dalla cittadina del Texas dove era nata, da un futuro scritto che la voleva sposata ad un brav’uomo e insegnante in una scuola di provincia. A diciassette anni scoprì di saper cantare e da allora, fino alla morte, non fece altro che questo: cantare e desiderare l’amore.

Io solitamente ascolto Janis Joplin quando sono triste o quando ho bisogno che la malinconia prenda una forma. Possiede una strana forza Janis: quella di portare in corpo un grande tormento e di riuscire a condividerlo come un dono. E’ graffiante ed è dolce. Sfacciata a volte e timida come una bambina. Ascoltare Janis Joplin è come partecipare ad un dolore che è di tutti e cantare con lei aiuta a capire che la fragilità non è una colpa e che nello sguardo di ciascuno si può ritrovare un frammento di qualcosa che ci appartiene.

Janis entrava ed usciva dai tornanti dell’eroina continuamente, era la sua tragica metafora della vita. Vi entrava per amore e vi usciva per amore. Janis ha fatto tutto per amore. Non si è accorta di morire e questo mi consola quando la penso spaventata per la sua solitudine. Forse aveva troppa vita addosso per attraversare l’esistenza  camminando su sentieri già battuti: “Lei non riusciva a trovar il modo per essere come tutti gli altri. Grazie al cielo”, raccontano i suoi amici.

Tra le mie canzoni preferite c’è “To love somebody” ( https://www.youtube.com/watch?v=fkGUt4QYc08; testo e traduzione: http://www.theblacksnack.com/to-love-somebody-janis-joplin/). Mi piace perché descrive bene la sua paura di non poter essere veramente amata da qualcuno. Janis era emotivamente onesta. Patty Smith che l’ha conosciuta e frequentata durante la permanenza al Chelsea Hotel, racconta: Janis trascorse gran parte della festa in compagnia di un bel ragazzo che le piaceva, ma poco prima dell’orario di chiusura il tizio se la svignò con una delle sue leccapiedi più carine. Janis ne fu sconvolta: “Capita sempre a me. Un’altra notte da sola”. Io la riportai in camera. Quando feci per andarmene si guardò allo specchio, e sistemò i boa di piume: “Come ti sembro amica?”.  “Una perla – le risposi. Una perla di ragazza”. (da Just Kids di Patti Smith).

Nel 2005 al 72° Festival di Venezia è stato presentato un documentario che ripercorre la sua storia, guardatelo se potete (https://www.youtube.com/watch?v=UI3NxZIcd2A). E’ molto bello. Viaggerete con lei tra le vie tortuose, tragiche e bellissime dell’animo umano, tra la California e Manhattan, fino al compimento di una vita che sembra spezzata solo in superficie. Nel montaggio è inclusa la lettura di alcune sue lettera. Quella che amo in particolare si conclude con una esclamazione che è forse un grido, forse una bestemmia, ma che a me sembra davvero una delle più belle preghiere che abbia mai sentito in vita mia: “Cristo, quanto cazzo vorrei essere felice!”.

 

Spasimo

Spasimo, spasimare, spasimante. Parola appesa a radici lontane: Stendo, stiro, strappo. Radice europea a doppia punta. Biforcazione che trattiene di un solo ceppo due significati: dolore e desiderio. Essere in preda a spasimi, a dolori molto forti e acuti, e, insieme, desiderare ardentemente/preso dagli spasimi d’amore.

31 dicembre, ultimo giorno dell’anno, gocce che scendono giù lentamente, dopo fiumi d’acqua veloce. Palermo, tutta grigia e bagnata. Sono entrata in macchina, decisa a ritagliarmi tra i drappi festosi delle vacanze uno scampolo di solitudine, un residuo d’intimità, prima di rimpizzare la valigia con i pezzi trasportabili della mia vita e rimettermi in viaggio sulla rotta di un futuro dallo sguardo precario e dai lineamenti incerti.

Palermo senza traffico è privilegio di fine anno. Il Cassaro scorre sotto le ruote della macchina e i palazzi di corso Vittorio strisciano lentamente sul viso mentre procedo in avanti a 30 all’ora. Ai Quattro Canti, i turisti sono pesci surgelati avvolti in plastica impermeabile blu e avanzano, con gli occhi in su, pronti ad abboccare agli sguardi severi delle statue nere di smog. Agli angoli le carrozze immobili sulla schiena di vecchi cavalli dai cappelli rosa e plaid scozzesi sotto il culo di cocchieri senza scuola e parole, abili nel farsi comprendere da facce straniere, a forza di sguardi e mani volteggianti nell’aria. Sembrano personaggi di un film drammatico, cominciato a Palermo secoli fa e ancora lontano dalla fine del Primo Tempo. Da Porta Felice il mare annuncia nera la sua presenza. L’orizzonte si riposa dagli sguardi che sempre lo cercano avidi di spazi, dietro un cumulo di nuvole grigioblu. Eppure è immobile il mare e alla Cala le barche a vela sembrano tutte poggiate sopra la mensola di vetro di un grande appartamento. Scendo, un attimo. Mi volto verso Santa Maria della Catena che sta lì, staccata dalla terra grazie ai suoi gradini di pietra e con le spalle al mare, ha l’aria di chi sa d’essere al sicuro da tutto, con quella fierezza spavalda che solo l’esperienza sa dare, dopo aver affrontato la paura innumerevoli volte.

Sono diretta dove non mi reco da tempo. Tanto tempo. Tempo sufficiente a confondere le traverse e far perdere la strada. Posteggio la macchina a Piazza Marina, lancio uno sguardo complice al Ficus dalle mille braccia a tener stretta la terra, mi fermo davanti a Palazzo Steri. La piazza è un cantiere di polvere e sacchetti di spazzatura in cerca di patria, mi scivola dietro le spalle e mi lascio inghiottire dalle viscere di viicoli sottili. Per le strade soltanto camerieri, davanti a porte di locali, a fumar sigarette, una pausa nel ritmo frenetico della preparazione per la notte dal conto alla rovescia. Cesserà il silenzio e sarà guerra di petardi e scorrere di spumante in vena.

Molte vie del centro storico hanno la faccia nuova, pulita e si affacciano sulle balate antiche con l’orgoglio di una lenta e sudata resurrezione. Dai balconi aperti si sente il brusio di opere in corso. Pentole sul fuoco e litri di capuliato in cui gettare numerosi e piccoli salvaggenti di grano duro. Giro angoli, scopro strade. Da una traversa arriva il grido deciso di una madre: “Salvatoreeee, unni si, disgraziatu, arricampati dintra!”. Le donne in certe strade di Palermo hanno voci potenti di tuono.

L’ho ritrovata. Entro. Trattengo il respiro. Non c’è nessuno. Mi sento come il burattino dentro al ventre della balena. S. Maria dello Spasimo, in ricordo della “Madonna che soffre dinanzi al Cristo in croce”.

WP_001699Chiesa commissionata e mai portata a termine. Senza fine, come il dolore della Madre davanti al figlio che muore. Pietre. Una sull’altra a toccare il cielo. La testa si piega all’indietro a cercare il confine tra le mura e le nuvole. Gigante antico in rovina sopra la carne viva e fragile della mia presenza. Carezzo con la mano la linea immaginata sul muro. Percorro l’intero perimetro, lentamente, cercando di ritrovare il canto dei monaci, le musiche degli attori, il lamento degli ammalati, la rassegnazione dei poveri, l’odore del grano. Convento, teatro, lazzaretto, ricovero, magazzino. Identità cangiante, mai definita, mai definitiva. Abbandonata, amata, celebrata, dimenticata. Spasimo, dolore e desiderio. Mi fermo, al centro, alzo le braccia, distendo le dita delle mani per toccare idealmente gli archi sventrati che mi sovrastrano per decine di metri. “Dove sono, dove sei?”, balbetto con voce sommessa, senza un tu definito a cui rivolgermi: io, lui, Dio, la città, la vita.

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Desiderio e dolore di terra, radici di parole antiche ed esperienza di uomini, ieri e oggi e per sempre. Spasima la mia città, che cerco senza trovare, che desidero senza toccare, che scelgo, senza restare.

WP_001694Santa Maria dello Spasimo. Alluvioni e terremoti a sommergere e distruggere le pietre, sommersa nella città cieca fino alla resurrezione sulle labbra dei palermitani, il loro stupore sotto strati spessi di ruggine, in mezzo al niente di una città tutta da rifare, ieri e oggi e per sempre.

Palermo, finestre murate, balconi forti di ferro, pavimento d’aria per cadere nel vuoto di rivoluzioni addensate nei grumi di sangue dei tuoi martiri. Palermo che costruisci le case ai cani nelle strade povere e ti nutri di polvere antica nel tempo che passa senza azione, appoggiata ai muri.

SPASIMO