Spalle al mare

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Foto di fraru.b

Qualche giorno fa sono rimasta bloccata tra i vicoli del centro storico a causa di una manifestazione, l’ennesima a Palermo.
I vicoli del centro sono stretti, in alcuni l’auto ci passa appena. Si attraversano con la sensazione di non averne il diritto: le persiane aperte per il caldo fanno intravedere le tavole apparecchiate, la televisione accesa, gli uomini in canottiera bianca, le donne con gli abiti attillati, qualunque sia la taglia di appartenenza. Non è guidare in città, è entrare nelle case della gente. L’estate del sud costringe al contatto, ci obbliga a vedere e sapere. Mentre sostavo sotto il sole cocente di fine giugno, priva di aria condizionata, ho notato alla mia destra un uomo e una donna che parlavano  in modo animato.

L’età della signora era indefinibile. Sembrava mamma, sembrava nonna, non so dire se mi apparisse vecchia pur essendo giovane, o se, essendo anziana conservasse un qualche scampolo prepotente di gioventù. So che per metà i capelli erano grigi e per l’altra metà di un castano meticcio. Era bassa e molto grassa, ma gli occhi erano vispi e grandi, ingenui, quasi. In braccio teneva un bambino di circa tre anni, biondo e monello. Non parlava il bambino. Si lamentava. E mentre la signora si intratteneva in un dialogo serrato con il vicino di casa, “u picciriddu” cercava di arrampicarsi sul corpo della donna servendosi del suo seno immenso come appoggio. Sembrava cercasse di andare oltre. Voleva scappare, scavalcare forse la vita che gli era toccata in sorte. Erano tenaci entrambi, però, perché ad ogni tentativo di fuga, la donna lo riportava giù, mille volte, ogni volta, come se non potesse stancarsi mai, come se non ci fosse altro luogo in cui andare, come se non ci fosse mondo oltre il suo seno.

L’uomo, il vicino di casa, ascoltava. Solo la donna parlava. E lo faceva con parole allungate, di forma anomala, con un dialetto fitto fitto, un po’ arabo, un po’ nostro. Raccontava di sua figlia, che “magari ora puru na tessera ciù scrivunu che è buttana! E quannu ci pari a idda a finisci ri fari a cagna”. Certo non le manda a dire la signora. Ma il fatto è che sua figlia partorisce a ciclo pressoché continuo figli senza padri. E pure il piccolo fuggiasco che portava in braccio era uno di questi: “U viri chistu, chistu vinni ca a Talassemia, che rappresenta a tipo anemia mediterranea”.

Noi a Palermo a spiegare le cose in un modo solo ci imbarazziamo, siamo a disagio. Ci pare di mentire, di dire bugie. Una stessa cosa la dobbiamo spiegare in modo diverso e per enunciare queste molteplici identità di cose e persone ed eventi ne pronunciamo il nome, la realtà che vogliamo esprimere e poi aggiungiamo “che rappresenta…”. Noi, a Palermo, lo sappiamo che le persone, le cose, gli accadimenti non hanno una sola faccia, sappiamo che niente è come appare. Noi per i quali… La Mafia è lo Stato? Oppure: La Mafia e lo Stato? Cioè: “Lo Stato che rappresenta la Mafia”, per capirci. Perché, insomma, da noi a Palermo tutto va al contrario, noi lungo la costa costruiamo le panchine che danno le spalle al mare e ci sediamo a guardare le costruzioni abusive che scaricano la fogna sulla spiaggia. Perché a noi in Sicilia la bellezza ci provoca terrore, il suo richiamo alla custodia, alla responsabilità, alla coscienza non lo possiamo sopportare. Così diciamo: “Haiu na casa a Villagrazia che rappresenta tipo na villa a mari”, appunto. Se esiste una cosa mica vuol dire che quella cosa significhi quanto chiaramente mostra di sé, ma manco per sogno! E pure per le persone è così, ovviamente. “Chistu rappresenta che è me cumpari”. La sua identità è data dal ruolo che svolge in relazione al soggetto che si esprime. E se non svolge nessun ruolo è un gran problema perché qualcuno con fare minaccioso può avvicinarsi a chiedere conto di quanto dici e fai esclamando: “Oh ma chi mi rapprisienti!?”. Già, tu, proprio tu…chi rappresenti?
Il bene non è il bene e il male non è il male. E’ dipende cosa rappresenta, cosa ci rappresenta.

Spero che il bambino biondo e monello, con la Talassemia che purtroppo non “rappresenta” la semplice anemia mediterranea, un giorno prenda bene la rincorsa e puntando con decisione e senza troppa pietà il piede sul cuore di questa terra senza verità possa trovare il suo modo di fuggire e vivere, dove le panchine guardano l’orizzonte e l’occhio non s’inganna.

Ehm…No, niente.

©Bart Synowiec

©Bart Synowiec

L’etimologia della parola niente è incerta, dicono i vocabolari. Perfino le sue origini lasciano un senso di vuoto, una certa instabilità. Niente, probabilmente dal latino ne inde, nec entem, con molta probabilità nec gentem. La parola niente è per lo più utilizzata in contesti di negazione e sofferenza: “Non vali niente“, “Non mi importa niente“, “Non sei niente“. Chi è capace di venir fuori indenne da costrutti grammaticali così?

Non è solo negazione dell’esistenza è anche negazione di ogni originalità, di ogni compassione: “Per te (lui, lei, l’altro!) non provo niente“. E si, come quando da bambini si cade e mamma e papà, per non scoraggiare i primi passi, esclamano: “Dai, su, non ti sei fatto niente!”. E ci si convince, benevolmente e tenacemente che sia vero così, nonostante i graffi e il dolore (seppur momentaneo) del sedere sul pavimento!

E poi, cosa dire di quando si vede una persona amata pensierosa e preoccupata e ci si avvicina per chiedere: “A che pensi? Cos’hai?”, per sentirsi rispondere: “No, niente!”.

Niente è artifizio, maschera indossata alla fatica di comunicare e forse anche di dire a se stessi cosa fa male o, semplicemete, cosè che proviamo e che pare, però, incondivisibile, poco importante agli occhi degli altri.

Niente è negazione del corpo, ma il corpo non prova mai il niente. Forse non capisce, forse non sa esprimere un sintomo, forse serve la fatica di collegare una sensazione al sentimento corrispondente, ma, il corpo, è un continuo accadimento di cose, fosse solo del sangue che circola, del cuore che pompa, dei polmoni e dell’ossigeno in sinergia.

Niente paura/niente panico”, lo si sente dire, sempre, quando i motivi per provar paura e scatenare il panico sono così veri ed evidenti da essere innegabili! Come nei films americani: il fuoco divampa tra gli uffici di un grattecielo e il polizziotto, sudato e ansimante, esclama: “Niente panico!”, nel medesimo istante in cui il protagonista si accorge degli abiti del migliore amico avvolti dalle fiamme!

Niente è il termine che segna la frattura del dialogo, quando non si riesce ad andare avanti e la relazione si infrange: “È inutile che continui a parlare, non c’è niente che può farmi cambiare idea”. Che senso di disperazione e rabbia provoca l’infrangersi delle nostre ragioni sulle convinzioni dell’altro.

“Non c’è più niente da fare”. È il colpo mortale inferto alla speranza.

E poi, quando sì è a fianco di una persona alla quale si vuole dire qualcosa di importante, di veramente nostro; mentre lei parla di tutt’altro, ci si concentra per trovare il modo giusto desprimere quello che vogliamo dire, il coraggio necessario a farlo, cominciamo a borbottare qualcosa, l’altro si gira, ci guarda ed esclama: “Cosa?” E noi: “Ehm…no, niente“.

Niente è l’aggancio mancato, il contatto non avvenuto. È il rinnegamento di ogni responsabilità. E, infatti, quando i ragazzini giocano senza prudenza e capita che il più piccolo fra loro rovini per terra, il più grande si rivolge all’adulto vicino, alza le braccia e afferma: “Io non gli ho fatto niente!”.

Niente è il desiderio degli altri per noi quando soffriamo, come se negare il motivo del dolore fosse un modo di evitare la sofferenza.

Il niente è il contrario della realtà. È la separazione di una parte dal tutto a cui appartiene. È minimizzare, dire che qualcosa non è importante, è il grottesco tentativo di negare le nostre reazioni.

“Non è successo niente“, è il re degli ossimori! L’accadere e il niente non sono compatibili, la vita e il niente sono contrari inconciliabili! Noi siamo un flusso continuo di avvenimenti, un incessante procedere di fatti, un misterioso seguitare di pensieri, un incalzante proliferare di sensazioni. Tutto ci coinvolge e a tutto noi reagiamo. E quando la nostra reazione ci travolge, ci coinvolge fin dalle viscere e ci svela parti di noi inesplorate, quando non sappiamo cosa e come fare, lo smarrimento diviene terreno fertile al germogliare del niente, che, in realtà, vuol dire: “Non capisco cosa mi accade, non so cosa succede, non riesco a dire quello che provo!”.

Se solo riuscissimo a descrivere quanto ci attraversa mentre ci attraversa, descrizione del sentire senza categorie e senza timore di inciampare su definizioni che non ci appartengono! Forse saremmo tutti più fragili, esposti ai pericoli dell’incomprensione, impauriti dalla consapevolezza di ciò che siamo, di come siamo eppure vivi, presenti, esistenti.