Caro Abuna Paolo,
in questi giorni tutti parlano di te. Vengono dette molte cose, diverse tra loro, contraddittorie, confuse, presuntuose. Neppure in questo ti è toccato in sorte un destino diverso da quello toccato alla Siria e alla sua gente.
Ci si chiede se sei vivo, se sei morto, e quale senso abbia sperare che tu possa venir fuori come Lazzaro dal sepolcro, fra le macerie di un paese offerto in sacrificio sotto gli occhi di tutti, sull’altare di sistemi infami e di un mondo troppo troppo ingiusto.
Ti si rimprovera d’essere andato a morire, inutilmente. Che pensavi di fare? Parlare con Al Baghdadi? Riuscire in mediazioni fallite (ma mai veramente provate?) dai più alti corpi diplomatici internazionali? Far liberare i prigionieri? Riportare gli estremisti all’Islam della pace? Volevi fare meglio di Gesù forse? Riuscire a disinnescare la miccia della guerra, il furore dell’odio?
Ma il punto, io credo, non è questo, il punto non è cosa volevi fare quel 29 luglio di quattro anni fa, tornando clandestinamente a Raqqa. Il punto è quel che avevi fatto nei trent’anni precedenti, quando tutti i riflettori sulla Siria erano spenti e tu vivevi tra le montagne rosa di un paese oppresso si, ma vivo, attivo e bellissimo.
In quel viaggio assurdo che ti ha inghiottito chissà dove e chissà per quanto, hai cercato di non disperdere i frutti di una vita. Non volevi assistere alla morte dei ragazzi che avevi visto crescere e con i quali avevi parlato, studiato, lavorato perché la Siria diventasse libera, unita, colta, spirituale oltre qualunque intolleranza religiosa, perché la convivenza e la reciproca conoscenza sono le fondamenta della pace e tu lo sapevi già e tu lo vivevi già.
Non potevi guardare dalla poltrona della tua casa di Roma, dove il regime ti aveva esiliato, lo sfacelo di un sogno per il quale avevi comunque già offerto la tua vita.
Basta leggerti ed ascoltarti per capire che in te e nella tua storia personale di equilibrato non c’è nulla. Tu stesso lo dici di essere cresciuto tra “collera e luce”. E per paura di mancare l’obiettivo e il senso della tua esistenza, sei stato probabilmente puntuale all’appuntamento, incomprensibile per molti, con la tua morte.
Ma, caro Paolo, tu che all’appuntamento con la mia personale rivoluzione umana e spirituale sei stato di una puntualità disarmante, tu che hai polverizzato con la forza della tua esperienza l’idea di un cristianesimo chiuso, sempre in trincea, autoreferenziale, ridicolmente e pericolosamente asservito ai giochi feroci di dominio di pochi piccoli uomini, tu che hai fatto moltiplicare il frutto dei miei studi biblici e dato senso alla faticosa ricerca su quelle parole antiche, sapienti e difficili, tu non puoi certo pensare che io mi rassegni così alla tua morte.
Tu devi tornare per forza. Perché in questi quattro anni tanti di noi si sono preparati, come hanno potuto e saputo, a ricostruire la Siria, tanti giovani e meno giovani, in occidente, oggi sanno e fanno cose che prima sarebbero state impensabili: studiano l’arabo, leggono il Corano, si informano e si formano cercando di capire il mondo arabo e l’islam, costruendo il dialogo, tendendo le loro mani.
Abbiamo fatto e continuiamo a fare quel che possiamo, perfino in un paese come il nostro Paolo, dove le ingiustizie sembrano non suscitare sdegno. Lo abbiamo fatto e lo facciamo nelle scuole dove insegniamo da precari, nelle librerie indipendenti che lottano per una cultura plurale e libera, nei circoli Arci, nei comitati antirazzisti, lo facciamo da giornalisti freelance sottopagati, seppur bravissimi.
Cosa è questo a fronte di un milione di morti e undici milioni di sfollati? A fronte delle torture nelle carceri di Bashar al Assad? A fronte dei gas che uccidono i bambini? A fronte dei morti nel mar Egeo e nel mar Mediterraneo? A fronte di potentissime forze politiche e militari, delle loro bombe, delle loro tattiche sporche? A fronte delle divisioni interne al mondo arabo, antiche e dolorosissime? A fronte del dilagare di una sottocultura fascista che si nutre di ignoranza e che scansa la fatica di qualsivoglia conoscenza?
Niente. Non è niente. Ma lo stiamo facendo lo stesso.
Però, Paolo, se tu, da solo, pensavi di poter evitare la distruzione della Siria, noi, siriani e non siriani, arabi e occidentali, cristiani, atei e musulmani, noi che, prima di tutto, ci sforziamo di lavorare alla consapevolezza dei nostri cuori e poi alla pace tra le persone, tra le infinite contraddizioni della condizione umana e i più svariati errori, rivendichiamo il diritto alla speranza, rivendichiamo il diritto di vederti, parlarti, ascoltarti, di nuovo.
Chi potrà guarire le ferite che tanta morte, abbandono, ingiustizia e violenza hanno provocato? Davvero, non lo so. Non so se sia possibile, non so neppure se Dio sia capace di sanare tanto dolore. Ma so che la pace può essere invocata e credo, oltre il limite di ogni ingenuità, che la consolazione e la grazia della vita sono risorse inesauribili perfino nel cuore degli umani più feriti.
Lo vedo negli occhi, nelle parole, nelle azioni dei genitori di Giulio Regeni, per esempio, così come negli occhi, nelle parole e nelle azioni delle famiglie siriane giunte nella mia città. I loro bambini giocano con i miei nipoti e la loro speranza di riuscire a ri-vivere incontra l’impegno e la tenacia di coloro che non considerano inutile lottare contro i giganti. Proprio come hai fatto tu, prima abbandonato dai tuoi, in quell’isolamento che la “struttura chiesa” riserva ai profeti colmando, con la malizia e la menzogna, la distanza che c’è tra il compimento della giustizia e la propria sclerocardia e poi vessato dal regime, ma tenacemente convinto della forza del popolo siriano e della potenza di quel vangelo di pace che le comunità credenti ovunque nel mondo continuano ad annunciare.
Quindi, Paolo, ora basta, adesso è tempo di tornare.
E nell’attesa che non demorde, intanto, As Salaam alaykum fratello mio, ovunque tu sia.