L’ultima attesa

IMG_20180206_130054All’ottavo mese di gravidanza è così che mi sento: un po’ mare e un po’ montagna. Gonfia di liquido primordiale e terra emersa dal nulla.

Più si avvicina il tempo del parto, più la sensazione è quella di inoltrarsi in una stanza segreta, dove la luce filtra appena, ma dove il buio non è tenebroso, solo sconosciuto. Il silenzio diventa una necessità, la lentezza una condizione di fatto, presente e vera al di là della volontà. Il fiato si accorcia e servono respiri decisi e profondi, il cuore diviene un setaccio: passano solo le relazioni buone, quelle di poche parole e molta, strabordante com-passione.

L’attesa si fa concreta, è di carne. Quella che si muove dentro sempre più impetuosa e crea una serie di onde che trasformano la pancia in mare.

Le idee, le teorie, perfino la propria immaginazione si sgretola. E’ una diversità costante che si fa vita quotidiana. Quello che vorresti non può essere, quello che è s’impara a volerlo, in prospettiva, nell’attesa di capire, vedere, toccare, sentire.

L’ottavo mese è stanchezza, soddisfazione e timore. La strada fatta, pesa. Alle spalle giacciono ferite a morte molte paure attraversate e sconfitte. Davanti però c’è la più difficile da vivere che non corrisponde a nessuna esperienza fatta e le abilità, le forze, le competenze per superarla bisogna credere di possederle, iscritte nel corpo, anche se non le si è mai viste. E’ una professione di fede, senza mistificazioni, nelle proprie viscere, costruita granello dopo granello nelle trasformazioni accettate, nei numerosi piccoli e grandi malesseri portati nella carne ogni santo giorno, nella pazienza delle notti ad occhi aperti e corpo dolente, senza che la felicità si allontanasse di un passo dal cuore. E’ l’affidamento di tutta intera la propria esistenza al figlio che è e che verrà, piccolo, ma capace di trovare la luce per il suo istinto vergine alla vita.

Ci si nutre di testimonianze, della sapienza di donne che quella porta l’hanno attraversata, le si scruta ed ascolta con la devozione dei discepoli, ma si sente dentro la certezza che questa esperienza che si ripete da sempre non è assimilabile, quanto già avvenuto non posso farlo diventar “mio”, perché la mia esperienza sarà diversa dalla loro pur essendo lo stesso miracoloso e concretissimo avvenimento.

E ci si nutre della presenza femminile di coloro che non hanno partorito, portatrici però di una sapienza diversa, accogliente, indispensabile, capace di ascolto e della curiosità che costringe alla riflessione, alla presa di consapevolezza nel e del momento.

L’ottavo mese è di solitudine, ma ogni abbraccio è necessario. Sono necessarie le mani del padre sul ventre, lo sguardo attento di uomo ai mutamenti del corpo e dell’animo, scorgere negli occhi amati l’attesa, accettare che sia diversa, ma sentirla autentica, audace.

Tutto il mondo e tutta la vita e perfino tutte le contraddizioni e la morte, tutto si invoca come necessario, perché non c’è parzialità che possa essere tollerata né autoinganno né autodifesa. E non si riesce a dare un nome corrispondente ad uno “schema” a nessuna divinità, perché di Dio si vuole tutto, lo si vuole maschio e femmina, potente e debole, presente e nascosto.

All’ottavo mese si comprende che ogni cosa è oramai trasformata, non importa quel che accadrà o in quale modo succederà, già ora si è altri, il maggior grado possibile di vicinanza a se stessi mai raggiunto e le madri, i padri, le sorelle e i fratelli si amano di amore più forte e la loro presenza rende coraggiosa e possibile l’ultima attesa.

My clandestine body

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I have a secret in the heart
Myself have the secret of my heart.
My body is a mystery
and I do not find the map to understand it.

I get lost looking for the secret,
I’m afraid of the dark
I’m afraid of the light
There is no one who helps me to search.

Only the wind helps me
the air gives me relief.
I need to have courage
I need to be strong.

Can’t scare me
The journey is endless,
The road cannot be interrupted.
I need to have courage.

My blood won’t hurt me
the darkness doesn’t bury the secret of my heart.
I will tame the darkness
with the strength of every day and all night
with the patience of all day and all night.

Shout to my body: you are allowed to exist!
And I understand who you are.
I’ll say it in the wind,
so the air will be pure
and I shall recover my breath.

Ho un segreto nel cuore
Io, sono il segreto del mio cuore.
Il mio corpo è un mistero
e non trovo la mappa per decifrarlo.

Mi perdo alla ricerca del segreto.
Ho paura del buio.
Ho paura della luce.
E non c’è nessuno che mi aiuti a cercare.

Solo il vento mi viene in soccorso.
l’aria mi dà sollievo.
Io devo avere il coraggio.
Io devo essere forte.

Non posso spaventarmi.
Il viaggio è senza fine,
la strada non può essere interrotta.
Io ho bisogno di avere coraggio.

Il mio sangue non mi farà del male
e il buio non seppellirà il segreto del mio cuore.
Io domerò il buio
con la forza di ogni giorno e per tutta la notte
con la pazienza di tutto il giorno e di tutta la notte.

Grido al mio corpo: hai il permesso di esistere!
E capisco chi sei.
Lo dirò, al vento
così l’aria sarà pura
e riavrò il mio respiro.

 

Dovevamo saperlo

«Dovevamo saperlo che l’amore
brucia la vita e fa volare il tempo».

Vincenzo Cardarelli

Ehm…No, niente.

©Bart Synowiec

©Bart Synowiec

L’etimologia della parola niente è incerta, dicono i vocabolari. Perfino le sue origini lasciano un senso di vuoto, una certa instabilità. Niente, probabilmente dal latino ne inde, nec entem, con molta probabilità nec gentem. La parola niente è per lo più utilizzata in contesti di negazione e sofferenza: “Non vali niente“, “Non mi importa niente“, “Non sei niente“. Chi è capace di venir fuori indenne da costrutti grammaticali così?

Non è solo negazione dell’esistenza è anche negazione di ogni originalità, di ogni compassione: “Per te (lui, lei, l’altro!) non provo niente“. E si, come quando da bambini si cade e mamma e papà, per non scoraggiare i primi passi, esclamano: “Dai, su, non ti sei fatto niente!”. E ci si convince, benevolmente e tenacemente che sia vero così, nonostante i graffi e il dolore (seppur momentaneo) del sedere sul pavimento!

E poi, cosa dire di quando si vede una persona amata pensierosa e preoccupata e ci si avvicina per chiedere: “A che pensi? Cos’hai?”, per sentirsi rispondere: “No, niente!”.

Niente è artifizio, maschera indossata alla fatica di comunicare e forse anche di dire a se stessi cosa fa male o, semplicemete, cosè che proviamo e che pare, però, incondivisibile, poco importante agli occhi degli altri.

Niente è negazione del corpo, ma il corpo non prova mai il niente. Forse non capisce, forse non sa esprimere un sintomo, forse serve la fatica di collegare una sensazione al sentimento corrispondente, ma, il corpo, è un continuo accadimento di cose, fosse solo del sangue che circola, del cuore che pompa, dei polmoni e dell’ossigeno in sinergia.

Niente paura/niente panico”, lo si sente dire, sempre, quando i motivi per provar paura e scatenare il panico sono così veri ed evidenti da essere innegabili! Come nei films americani: il fuoco divampa tra gli uffici di un grattecielo e il polizziotto, sudato e ansimante, esclama: “Niente panico!”, nel medesimo istante in cui il protagonista si accorge degli abiti del migliore amico avvolti dalle fiamme!

Niente è il termine che segna la frattura del dialogo, quando non si riesce ad andare avanti e la relazione si infrange: “È inutile che continui a parlare, non c’è niente che può farmi cambiare idea”. Che senso di disperazione e rabbia provoca l’infrangersi delle nostre ragioni sulle convinzioni dell’altro.

“Non c’è più niente da fare”. È il colpo mortale inferto alla speranza.

E poi, quando sì è a fianco di una persona alla quale si vuole dire qualcosa di importante, di veramente nostro; mentre lei parla di tutt’altro, ci si concentra per trovare il modo giusto desprimere quello che vogliamo dire, il coraggio necessario a farlo, cominciamo a borbottare qualcosa, l’altro si gira, ci guarda ed esclama: “Cosa?” E noi: “Ehm…no, niente“.

Niente è l’aggancio mancato, il contatto non avvenuto. È il rinnegamento di ogni responsabilità. E, infatti, quando i ragazzini giocano senza prudenza e capita che il più piccolo fra loro rovini per terra, il più grande si rivolge all’adulto vicino, alza le braccia e afferma: “Io non gli ho fatto niente!”.

Niente è il desiderio degli altri per noi quando soffriamo, come se negare il motivo del dolore fosse un modo di evitare la sofferenza.

Il niente è il contrario della realtà. È la separazione di una parte dal tutto a cui appartiene. È minimizzare, dire che qualcosa non è importante, è il grottesco tentativo di negare le nostre reazioni.

“Non è successo niente“, è il re degli ossimori! L’accadere e il niente non sono compatibili, la vita e il niente sono contrari inconciliabili! Noi siamo un flusso continuo di avvenimenti, un incessante procedere di fatti, un misterioso seguitare di pensieri, un incalzante proliferare di sensazioni. Tutto ci coinvolge e a tutto noi reagiamo. E quando la nostra reazione ci travolge, ci coinvolge fin dalle viscere e ci svela parti di noi inesplorate, quando non sappiamo cosa e come fare, lo smarrimento diviene terreno fertile al germogliare del niente, che, in realtà, vuol dire: “Non capisco cosa mi accade, non so cosa succede, non riesco a dire quello che provo!”.

Se solo riuscissimo a descrivere quanto ci attraversa mentre ci attraversa, descrizione del sentire senza categorie e senza timore di inciampare su definizioni che non ci appartengono! Forse saremmo tutti più fragili, esposti ai pericoli dell’incomprensione, impauriti dalla consapevolezza di ciò che siamo, di come siamo eppure vivi, presenti, esistenti.