La fine dell’anno, il compleanno di Patti Smith, noi tre che partiamo per la campagna. Oramai è un rituale. Una celebrazione del passaggio, silente, ma forte.
Patti Smith
Sono un tipo da incipit. Con i finali ho fatto sempre fatica e, per molto tempo, la mia resistenza estrema ad ogni trasformazione è stata eroica.
Ma le cose cambiano comunque, a volte finiscono, altre si trasformano e non c’è nulla che possiamo fare per evitarlo.
Per questo andiamo in campagna, perché in campagna s’impara che la trasformazione è necessaria alla vita, che i semi devono marcire sotto terra, le foglie cadere, gli uccelli mangiare i frutti. Andiamo per tacere e per osservare.
Giona e il pianeta terra.
A volte penso a Patti e alle persone che ha perso: i genitori, un giovane fratello, Robert e molti altri amici nel pieno degli anni, suo marito Fred, che un attimo prima era con lei a prendere il tè, dentro la barca nel giardino di casa, che non avrebbe visto mai il mare, e un attimo dopo era cibo per i vermi.
Il lutto è la peggiore delle mancanze. Non si esaurisce mai, un boccone al giorno per sempre, anche se il tempo ne cambia il sapore e attenua l’amarezza.
Quest’anno ho imparato che il nostro modo di reagire alle cose, di accettarle, di affrontarle è davvero il solo potere che possediamo. Sembra una banalità ed è una consapevolezza che non consola quando si è nel vortice del dolore. Ma aiuta a restare saldi. A darsi il tempo, anche. A non lasciarsi portar via.
Saranno giorni di vento dal Sahara, un capodanno con temperature sopra la media, un vento che scopre e lascia dinanzi alla tragedia climatica del mondo.
A volte mi sento incastrata tra impotenza e ingiustizia.
Non potremo fare altro che aver cura del nostro bambino, lo innamoreremo degli Iris selvatici, del boschetto di querce davanti casa, dei campanacci delle vacche.
La luce della campagna.
Guarderò Carlo muoversi tra gli alberi e cercare semi come i progenitori, mi sembrerà bellissimo e rinnoverò il senso del privilegio.
Carlo e il pianeta terra.
Svegliandomi al mattino, cercherò il silenzio fuori dalla finestra, l’odore delle pigne e dei licheni sulla terra. Penserò alla mia famiglia benedicendoli uno ad uno, invocherò lo spirito della forza e della sapienza. Le briciole della colazione saranno la mia Eucarestia, Giona le raccoglierà con le sue dita piccine e per ognuna che porterà alla bocca sussurrerò il mio amen.
Io che mi sveglio, fotografata da Giona.
Patti ha realizzato molti dei suoi desideri. Ha lasciato che si trasformassero nel tempo ed ha avuto una incredibile tenacia nell’attesa. Il suo compleanno mi rende felice, i suoi capelli bianchi mi danno coraggio. Al mattino lei si sveglia e trascrive i suoi sogni sul taccuino. Ed io le sono grata per ogni risveglio in cui ha dato credito a se stessa.
Noi proviamo a cominciare così, in una casa antica, con una doccia scomoda, senza TV e con una connessione scarsa. Domani andremo a dormire presto, tutti e tre in un letto e ci risveglieremo al nuovo anno facendo i conti con tutte le debolezze della sera prima.
Ma è bello pensare che l’anno sarà “nuovo”. Non sappiamo nulla di cosa accadrà, ma il desiderio non è un sentire inerme. Dovremmo dargli credito.
Patti e l’oceano, vicino alla sua casa sul mare, comprata quasi distrutta, e risanata piano, piano, piano.
Luna dei monti Iblei. Foto di @carlocolumbafineart
Le notti di luna piena non riesco a dormire. È così da quando portavo mio figlio in grembo.
Da allora ad oggi ho vissuto questo cambiamento come una fatica, stanchezza aggiunta a stanchezza.
Solo con l’ultima luna ho capito che il problema non era non dormire, ma non poter restare sveglia. Avere un ritmo di vita che non mi permette di offrire una notte allo studio o alla scrittura o a un libro letto d’un fiato, al disegno a star raggomitolata a pensare davanti al camino.
Non so ancora come, ma so che qualcosa cambierà.
E questo basta perché sia capodanno.
Ma io ho anche aggiunto una casa di campagna e l’ultimo libro di Patti Smith.
Foto di @carlocolumbafineart
Leggo di lei mentre mio figlio gira intorno al tavolo con la bicicletta, fuori fa buio presto, la stufa a legna è accesa e Carlo inforna le mele.
Così viaggio dai monti Iblei alla California, osservo le sue visioni e sogno di mangiare tacos di pesce insieme a lei in un locale di Santa Cruz.
Ma io non voglio essere lei. Vorrei solo essere me, come Patti sa essere se stessa.
Per questo sono felice di aver capito il senso delle notti bianche di luna il giorno del suo compleanno.
Felice di sperimentare che nel mio corpo è ancora vivo un richiamo ancestrale antico quanto il mondo.
Stamattina ho guardato il mio amore sotto i mandorli spogli, mi sembrava di scorgere i desideri del suo cuore, tutti illuminati dal sole.
Ci sono luoghi in cui la parte più vera di noi prende il sopravvento.
Anche Patti ha il suo ed una casa a Rockaway beach. L’ha acquistata che stava appena in piedi, oggi è il suo rifugio. Fino a quando non ha potuto ristrutturarla dopo ogni tempesta correva a contare i danni. Ne trovava sempre, ma la casa è rimasta su quel tanto che serviva ad alimentare il suo sogno, la sua intenzione, la sua necessità.
Casa di Patti Smith a Rockaway beach.
Chissà quando abbiamo cominciato a credere alla narrazione che distingue il desiderio dalla necessità, la realtà dal sogno. Come se, poi, anche quello che non si può realizzare, non valesse la pena sognarlo comunque. Fin nei particolari.
Stamattina una foglia di quercia è caduta proprio mentre passava il mio bambino. Lui si è fermato, l’ha guardata fino a quando non ha toccato terra, poi si è voltato, mi ha sorriso un attimo ed ha proseguito.
Sì guarda intorno con sguardo maturo ed è pronto a cogliere ogni segnale. Sembra più un animaletto selvatico che un bambino.
Anche lui sta imparando che il giorno del compleanno di Patti è un giorno in cui star lieti, una festa di famiglia.
Auguri ragazza mia, benedico ciascuno di questi tuoi settantaquattro anni nella luce del mondo.
Patti Smith gira il mondo, dal Giappone alla Francia, dall’Inghilterra alla Tunisia. Cerca le tombe degli scrittori, dei poeti, delle grandi voci femminili dell’arte e della letteratura. Pulisce le lapidi, toglie la polvere e le incrostazioni che la pioggia lascia sulle foto, mette fiori freschi, scatta con la Polaroid un ricordo e scrive versi di gratitudine.
Al cimitero, in questo 2019 che si chiude, io ci sono stata due volte. Ad aprile ho seppellito mia nonna e a dicembre la madre del mio amore.
Di mia nonna so dire poco. Non l’ho ancora pianta la sua morte. Ma so che lei aspetta con pazienza le mie lacrime e il mio addio. Sa che sono infinitamente stanca e provata e che non posso piangere, che mi servono acqua e sale per restare a galla. E, ne sono certa, è sicura che a galla ci riuscirò a stare.
Patti sarebbe affascinata dall’infanzia di mia nonna, vissuta tra le strade di un piccolo paese vicino al mare, sette fratelli una piccola casa, profumata ogni giorno di pane e di buccellati, zucchero e fichi a dicembre. La starebbe ad ascoltare mentre le racconta del suo lavoro al manicomio, quando sulla terrazza stendeva le lenzuola dei malati ad asciugare e si aggiustava i capelli che il vento scompigliava cercando di mandar via dal bucato l’acqua in eccesso e la disperazione di quel luogo. Il nonno passava di sotto in bicicletta, dando voce al campanello che risuonava come una melodia d’amore in una Palermo ancora silenziosa. Lei si riparava gli occhi dal sole per guardare meglio il nonno, lui salutava, lei sorrideva. Poi il nonno le scrisse una lunga lettera, “E che c’era scritto Nonna?”, a distanza di sessant’anni rispondeva ancora: “Le sue cosuzze”, custodendo integro il segreto del loro amore per sempre giovane.
La mano di Fatima, disegno di Zehra Dogan
E se potessi portare a Patti una fetta della mia torta all’arancia per il suo compleanno, mi siederei sulla sua poltrona di pelle scansando il gatto e le direi che la nonna mi manca e che non riesco a pensarla senza sentire uno strappo al cuore che non posso sopportare. Le racconterei dell’ultima volta che l’ho vista, ormai a letto e apparentemente senza memoria del presente. Ha aperto gli occhi su mio figlio e gli ha mandato dei baci con la mano che immagino siano arrivati al piccolo come benedizione perenne. Glielo racconterei cercando il conforto che le donne più giovani dovrebbero poter ricevere dalle più anziane, una volta liberate dallo stereotipo crudele che ci vuole nemiche, anziane contro giovani, brutte contro belle, grasse contro magre, madri contro donne senza figli. Una follia, una bugia, una violenza.
Io mi butterei tra le braccia di Patti, e le chiederei di raccontarmi della sera in cui consolò l’insicurezza di Janis Joplin o di quando passava la notte a disegnare sui pavimenti sudici del Chelsea Hotel, mentre i suoi sogni si trasformavano tutti e velocemente senza mai tradirsi o tradire.
La madre del mio amore è morta il primo giorno della novena di Natale. Io la conoscevo da poco anche se nel suo mito ci ero cresciuta e mia sorella porta il suo nome. Con mia madre ha condiviso un anno di viaggi verso una scuola sperduta sulle Madonie. Viaggiavano in tre, con la neve, con il vento, con il caldo. Durante il viaggio lei che era la più anziana coi figli ormai grandi dispensava consigli a chi, come la mia mamma, aveva una bimba piccola ed una appena nata, io. Nessuno avrebbe potuto pensare che un giorno quella bimba appena nata avrebbe corrisposto l’amore del suo primogenito dando vita ad una storia che Patti capirebbe senza troppe spiegazioni con quell’animo di animale fantastico che le è stato dato in dono.
Mio figlio somiglia tanto a sua nonna paterna. Ha le stesse sopracciglia e le stesse espressioni, lo stesso labbro inferiore e lo stesso carattere forte. Non era una donna semplice, la madre del mio amore, un po’ l’ho capito ed un po’ l’ho saputo, ma la fedeltà che ha avuto verso se stessa è per me insegnamento ed eredità.
Anche in questo caso Patti avrebbe ascoltato con devozione i suoi racconti della guerra, di una Roma assediata, della fame, della miseria, della paura e della dignità. L’ho conosciuta poco e per poco, ma i racconti che mi ha fatto di quei tempi io non li scorderò finché avrò vita. I testimoni delle guerre non dovrebbero morire mai: l’attesa del padre, capitano dei Vigili del Fuoco, alla fermata del bus senza nessuna certezza di vederlo tornare, la madre incinta che piangeva al pensiero di come nutrirsi per poter allattare quel figlio che stava per arrivare, quella bomba caduta sul palazzo di fronte al loro, dove una madre che aveva appena partorito e non poteva correre ai ripari è rimasta sotto le macerie insieme alla sua bambina, davanti ai loro occhi che quasi non sapevano più piangere. Per aver superato e raccontato tutto questo io le sarò per sempre grata.
Patti Smith, autoritratto.
Il compleanno di Patti è da anni oramai il mio personale capodanno, quel giorno denso di sentimenti e bilanci, di paure e speranze, con un nodo in gola ed il cuore che trema dinanzi all’esistenza che procede senza farsi dominare. Quest’anno, per me quello della resistenza e della vita e della morte avvinghiate fra loro, è così che l’ho voluta celebrare la mia Patti, raccontandole idealmente di queste due donne, di una letteratura orale che resta scritta nella vita delle persone, del mio giro del mondo dentro alle storie incrociate, delle mie passeggiate lungo i viali dei cimiteri della mia città, dove non c’è modo di ripararsi dalla morte che circonda.
Ma una volta, la madre del mio amore, raccontandomi di alcune sue dolorose vicissitudini matrimoniali, mi ha preso la mano fra le sue e mi ha detto: “Non ti spaventare mai, noi ragazze ce la caviamo sempre!”. Questa solidarietà e questa confidenza sono nel mio cuore un argine alla morte.
La condivisione della propria vita accorcia le distanze e crea legami indissolubili. Non importa se questo avvenga tra persone che si conoscono davvero o grazie alle parole che si scrivono e si condividono. Io ho pianto la morte di Fred Sonic Smith, perché Patti l’ha raccontata mettendo in gioco se stessa. Così come ho gioito delle sue gioie e ho avuto con lei paura e fame, con lei ho sopportato i pidocchi ed ho mangiato pane raffermo insieme ai barboni afro americani, poeti notturni di Central Park.
Questa è la forza dei testi di Patti, in quelle pagine si consegna a chi legge, non ignara dei rischi immagino, ma fiduciosa, quasi bisognosa di credere che la forza delle esperienze vere sostiene le persone, disinnesca gli odi e i rancori, attenua i dolori, espande la gioia.
Ecco cos’è questo compleanno/capodanno per me oggi, è un inno di gratitudine per chi è com’è e ne fa dono al mondo.
Buon compleanno Patricia Lee Smith, la vita sia sempre con il tuo spirito.
Patti Smith quest’anno ha composto il suo piccolo presepe sudamericano sulla bandana rossa che gli regalò William S. Burroughs.
Quando l’ho letto ho pensato: “Diamine, wow!”. Non solo riflettendo su quante persone che hanno fatto la storia di musica e letteratura lei abbia incontrato, ma anche per il suo modo personalissimo di ricordarsi del Natale.
Il mio modo personalissimo di prepararmi al nuovo anno è, da qualche capodanno a questa parte, scrivere di lei, e di lei e me.
Nei 365 giorni che sto per lasciarmi alle spalle mi rendo conto di aver corso all’impazzata a cavallo fra i miei trentasette e trentotto anni, percorrendo territori sconosciuti terribili a tratti, straordinari.
Il ventre mi si è gonfiato come vela di maestrale, nuda, in acqua, ho partorito mio figlio, tra grida, sangue, mani di uomo amato sulla fronte. Ho sentito tutto il potere di cui sono regina e poi la fragilità, la stanchezza, la solitudine, la tenerezza, la passione, l’amore.
Tutto diverso,
tutto maestoso e bellissimo,
tutto tragico,
tutto disordinato,
tutto vero a perdifiato.
Capisco in altro modo, lo dico, lo scrivo, lo ridico, lo riscrivo.
Giro lo sguardo interiore come la testa delle civette e vedo cose che prima non sapevo esistessero.
E Patti e lì. Con un altro libro da leggere (da Devotion, Patti Smith, Edizione Passaggi Bompiani), insieme all’uomo con cui condivido l’affetto e la stima per lei. Libro letto lentamente, abitando i brandelli di tempo comune senza bocca da nutrire, culo da pulire, vita da crescere, benedetta in ogni cellula, in eterno.
Patti parte, attraversa l’oceano verso l’Europa continuamente. Sceglie con cura i libri da portare in viaggio e chiude gli occhi immaginando di trovarsi sulla punta di enormi ghiacciai:
Mi sistemo al mio posto, bevo acqua minerale, e mi lascio trasportare da un libro che racconta una vita, un frammento di Simone Weil. Il libro scelto di fretta si è rivelato più che utile e il soggetto è un modello ammirevole per una moltitudine di modi di pensare. […] Chiudendo gli occhi, visualizzo la cima di un ghiacciaio e scivolo in un’intima primavera rovente circondata da pareti impenetrabili di ghiaccio.
Patti è con noi, come una maestra interiore, la leggiamo, l’ascoltiamo, la citiamo mentre diamo forma ai nostri sogni futuri di viaggi, di arte nelle mani, di libertà realizzate, di identità inesplorate.
Noi, per niente precisi ed efficienti… Le sue visioni ci danno il coraggio di navigare a zonzo fra i nostri desideri, mangiando mandorle sul divano e
intrecciando i piedi e i fiati ad ogni riga,
gli sguardi e cuori,
la stanchezza e i dolori.
Patti visita i cafè francesci, ripercorre la vita degli scrittori europei, mangia e beve dove hanno bevuto e mangiato loro, legge quel che loro hanno letto, rende omaggio alle loro tombe. In Italia visita gli affreschi di Giotto, le stanze dei monasteri antichi, resta in piedi, silenziosa, all’idroscalo di Ostia dove fu straziato Pasolini e offesa l’intelligenza e piagato l’animo di tutti.
Tornata a New York, ho faticato un po’ nel riaggiustarmi chimicamente. Avevo soprattutto dei lunghi momenti di nostalgia, una brama di essere dove ero stata. Prendere il caffè la mattina al Cafè de Flore, i pomeriggi al giardino della Gallimard, esplosioni di produttività su un treno in corsa.
Trascorre molto tempo con sua figlia Jesse, parla ai gatti, scrive, beve caffè nero al bar del quartiere. Ha cura e devozione per il suo tempo interiore e vive senza rancori. Imparo da lei che non esiste il tempo perso, imparo perfino che mai niente è perduto, dei vivi come dei morti.
Tutto è solenne, onesto, potente.
Imparo da lei che d’imparare non finisce mai il tempo, da quel che non si conosce e perfino da quel che si sa bene.
La racconto a mio figlio che non pronuncia parole, lui tutto corpo ancora muto che parla con il pianto, con gli occhi, con le braccia tese, con la saliva in faccia, con sillabe stentate.
Da quando il mio corpo ha dato vita alla vita desidero trovare la forza di ogni cosa, la magia delle persone, le alchimie che tengono in piedi il mondo. Nessun mito, nessuna idealizzazione. La forza come è, l’amore come è, la morte perfino e il buio com’è.
Patti ha tanto sofferto. Ha patito la fame, la solitudine, ha partorito a sedici anni una bambina che non ha potuto crescere, ha perduto l’amore della sua vita all’improvviso e prematuramente, ha vissuto il lutto per la morte del fratello e di mille amici che AIDS ed eroina falciavano senza nessuna misericordia o pietà.
Eppure la vita le piace moltissimo, ama il giorno del suo compleanno e sempre ringrazia i suoi genitori per averla fatta nascere.
Racconta del dolore come il fuoco che brucia, riscalda, rinnova. Lo accetta, lo guarda, lo tocca, infila dentro le mani, i piedi, ci cammina dentro. Non fugge.
Non fugge.
Ho guardato in cielo le nuvole minacciose.
Ho supplicato mio fratello. “Todd, puoi aiutarmi? Sono da sola nel giorno del tuo compleanno e cerco una persona che si chiama Simone”. Ho sentito la sua mano che mi guidava. Alla mia destra c’era un’area boscosa e ho sentito che dovevo andare lì. Di colpo mi sono fermata. riuscivo a sentire l’odore della terra. C’erano allodole e passeri, un fascio di luce sottile che appariva e poi scompariva. Ho girato la testa senza alcuna pausa estatica e l’ho trovata, in tutta la sua umile grazia. Ho aperto il soffietto della macchina fotografica, ho regolato le lenti e ho fatto qualche foto. Mentre mi inginocchiavo per mettere il mio piccolo fagotto sotto il suo nome, si sono formate parole, ruzzolando come una filastrocca. Mi sono sentita nella pace più assoluta. La pioggia è andata scemando. Avevo le scarpe fradice. La Luce non c’era, ma l’amore sì.
C’è chi fa bilanci alle porte del Capodanno e chi, invece, scandisce il tempo contando i compleanni di Patti Smith.
Oggi è il suo 71° e dai 70 sono mutate una infinita quantità di cose per me, come per lei, credo.
Patti ha ricevuto all’Università di Parma la laurea ad honorem in Lettere, ha esposto le sue foto e fatto una super mega tournée in Italia. Io l’ho vista in concerto a Roma, ho un essere umano vivo nella pancia e abito in riva al mare.
Tutte cose belle, direi. Anche se, al di là di quel che si vede e quel che si sa, nel cuore c’è il proprio giardino segreto con cui fare i conti, dove sarà stato necessario potare, estirpare, combattere la siccità, lavorare la terra, piantare. Molte foglie cadute e sfiorite le rose, molti germogli sugli alberi spogli e tanti semi frementi di vita eppure sepolti dalla terra.
Durante il 2017 io e l’uomo che mi vuol bene abbiamo letto ad alta voce il suo M Train, lo abbiamo letto soprattutto on the road, macinando chilometri sulle autostrade siciliane, fra mare e montagna, tra i boschi e la desolazione dei paesaggi mangiati dal fuoco, guidando incontro ad amici sinceri, inseguendo gli impegni di lavoro, facendo ritorno a casa, cercando riparo dall’arsura del logorio quotidiano nella Sicilia d’oriente, tra i monti Iblei e il mare ionio, tra i panini degli autogrill e gli snack senza glutine consumati con le gambe a penzoloni fuori dall’auto, mentre si osservano le persone e si immaginano le loro storie.
M Train ci ha accompagnati ovunque, provocando scoppi di risate a risanare il cuore, lacrime per liberare i polmoni, riflessioni dalle trame ingarbugliate da sciogliere la notte, prima di dormire. Da quando la nausea ha fermato la nostra auto e trasformato di attesa le nostre vite, abbiamo riposto il libro sul comodino.
Restano le ultime 20 pagine, quelle che si vorrebbe non finissero mai.
Patti, che legge Murakami in un albergo messicano specializzato in sushi, è una compagna di viaggio necessaria: nutre le utopie e le rende “normali”, un modo d’essere quotidiano che non ha certo voglia di mostrarsi per il gusto di stupire, che cerca piuttosto la possibilità di esistere (da ex e sistere, forma secondaria derivata da stare “stare saldo, essere stabile, essere in atto), come una necessità, come un’urgenza.
Ho imparato molte cose da Patti Smith durante quest’anno, dalla Patti che prega Dio e legge i tarocchi e si mette in ascolto degli spiriti degli antenati, tutto senza dottrine da difendere, con la curiosità dei bambini e la fiducia sapiente degli anziani. M Train è un libro entusiasmante, ma in modo diverso da come lo è Just Kids. Quest’ultimo contiene l’euforia della giovinezza, degli anni’ 70, le sperimentazioni e il viaggio interiore e psichedelico di un’intera generazione. M Train, invece, è carico di nostalgia e fatica, è pieno della straziante assenza di Fred, della solitudine, delle paure e delle conquiste costate la vita intera. Non è l’epilogo che viene raccontato: “Trova la verità della tua situazione. Comincia con coraggio”, scrive Patti. Ma lo dice come per narrare un’operazione giornaliera, un proposito ed una azione che comincia al sorgere del sole e che nella notte si rigenera per riprendere d’accapo, ancora, fino a quando ci sarà fiato.
Ho riempito la tazzina ed ho bevuto. “Tutti gli scrittori sono vagabondi”, ho mormorato. “Magari un giorno potessi essere dei vostri!”.
Patti gira il mondo, dal Giappone alla Francia, per pulire e rendere onore alle tombe degli scrittori e dei musicisti. Non vede alcuna fine lì dove tutti, invece, la fine crediamo di fissarla sul marmo. Lei vede incipit, il generarsi e rigenerarsi sempre e dovunque possibile:
Quella sera mi sono seduta al parco a bere succo di anguria in tazza conica di carta, comprato da un venditore ambulante. Tornata in camera riuscivo a sentire tutto quello che succedeva di sotto. Ho cantato canzoncine agli uccelli sul davanzale. Ho cantato per i giornalisti, per l’operatore e per la donna uccisi a Veracruz. Ho cantato per quelli che vengono lasciati nei fossi a putrefarsi, nelle discariche e tra i rottami. La luna era il faretto della natura, puntato sulle facce splendenti della gente radunata al parco di sotto. Le loro risate si sollevavano con la brezza e per un breve istante non c’erano più dolore né sofferenza, solo armonia.
Credo che finirò, che finiremo il libro prima che scocchi la mezzanotte, prima che arrivi il nuovo anno che sempre ha le radici in quel che solo convenzionalmente possiede un termine. Lo farò anche io, nonostante sia impossibilitata a vagabondare, come vorrei, lo farò cantando per i gabbiani del mare che ho di fronte, per le mie zone d’ombra, per gli amici, con voce sottile, perché sia dolce al mio bambino la festa dell’anno che viene. Senza petardi, fuochi di artificio, musica ad alto volume. Come i canti dei pellirossa sulle montagne le notti di luna, come le mani dello “Sciamano galilaico” sulle ferite umane o le cantilene delle donne di paese quando impastavano il pane o lavavano i panni, un canto che sostiene la fatica e guarda lontano.
Mio padre diceva di non ricordare mai i sogni, ma io riuscivo a raccontare i miei con facilità. Diceva anche che era rarissimo vedere le proprie mani in sogno. Ero sicura che se mi fossi concentrata ci sarei riuscita, idea che generò una marea di esperimenti falliti. Mio padre metteva in discussione l’utilità dell’operazione, ma l’essere capace di invadere i miei stessi sogni restava comunque in cima alla lista delle cose impossibili che un giorno sarei riuscita a fare.
Buon compleanno Patti, sei proprio il mio Capodanno.
Racconta di essere nata durante una bufera di neve, il 30 dicembre 1946 al North Side di Chicago e di aver visto la luce già pronta a richiudere gli occhi per sempre, a causa di una broncopolmonite e di un corpicino troppo magro e fragile. La salvò il padre, tenendola sospesa su una tinozza fumante. Nacque due volte, Patti Smith.
Oggi, 30 dicembre 2016, compie 70 anni, uno in più di mia madre, nata 355 giorni dopo, dove la neve in Sicilia cadeva ancora copiosa, allora.
Mi impressiona questa vicinanza di età e di neve fra Patti e mia madre, anche se le loro vite si sono svolte in modo assai diverso. Credo che dipenda dal riconoscere a Patti Smith un ruolo ri-generante per me, uno di quei parti misteriosi che solo l’arte può compiere fra persone lontane per generazione, ubicazione o secoli di distanza.
Brani come Because The Night o People Have The Power si impara a riconoscerli naturalmente, così come accade con Jiingle Bells o l’Inno nazionale. Poi, crescendo e avendo accesso allo sconfinato mondo del web, ho cominciato ad imbattermi in Patti Smith sempre più spesso. Ero incuriosita dai suoi capelli bianchi, gli occhi luccicanti e il più totale distacco da ogni modello estetico femminile, sempre diverso, ma continuamente imposto lungo i decenni che ha attraversato.
Ho cominciato ad ascoltare le sue canzoni, a tradurle e a cercarmi fra le righe o ad utilizzare le sue parole come tracce di vita buona per orientarmi nella comprensione del mondo.
Ma il vero incontro è avvenuto nella narrazione che fa di se stessa nelle pagine di Just Kids, un libro che, per me almeno, è una miscela esplosiva fatta di racconti e ricordi, musica, arte, relazioni, Brooklyn, amori ed anni ’70.
Patti Smith
Patti Smith capì di voler essere un’artista quando era ancora molto piccola, sulle sponde del fiume Prairie, lo capì osservando un cigno alzarsi in volo:
La vista del cigno generò in me un’urgenza per la quale non conoscevo parole; un desiderio di parlare del cigno, di dire il suo biancore, dell’esplosività dei suoi movimenti e del suo lento battere d’ali. Il cigno divenne tutt’uno col cielo. Mi sforzai di trovare una parola capace di descrivere la mia percezione dell’animale. Cigno, ripetei, non del tutto soddisfatta, e avvertii una fitta, un singolare struggimento impercettibile ai passanti, a mia madre, agli alberi oppure alle nuvole.
Crescendo non cercò di distrarsi da quell’urgenza per la quale non trovava parole né ignorò la fitta e lo struggimento impercettibile, non disse a stessa di provare qualcosa che non aveva importanza e non si rassegnò a fare la maestra e a sposare un brav’uomo di provincia, così come tutti si aspettavano facesse.
Patti Smith ha una scrittura sobria, senza orpelli e parole di troppo. Utilizza un linguaggio semplice, asciutto. Va dritta al punto e il punto era vivere la vita a modo suo.
Rimase incinta a sedici anni. Ebbe paura, ma fu sapiente e coraggiosa. Decise di aver cura di sé e della sua salute e di star bene per quella bambina che, una volta nata, avrebbe affidato ad una famiglia in grado di occuparsene.
Patti Smith
Col pancione insieme alla sua amica ascoltava Bob Dylan, cantava e frugava nei negozi di abiti usati per cercare cappotti simili a quelli di Oscar Wild. Quattro anni prima, al museo di Philadelphia, la visione del cigno aveva assunto un senso più compiuto nei disegni di Salvator Dalì e nei quadri di Picasso:
Mentre marciavamo giù dalla grande scalinata sono sicura di aver dato l’impressione di essere la stessa di sempre, un’anima in pena di dodici anni tutta braccia e gambe; in segreto però, sentivo d’essermi trasformata, commossa dalla rivelazione che gli esseri umani creano l’arte, che essere un artista voleva dire vedere ciò che gli altri non potevano vedere. Non avevo prove di possedere la stoffa dell’artista, ma bramai di esserlo con tutta me stessa.
Partorì la sua bambina, rimandando al tempo opportuno di attraversare lo strazio per quella separazione e partì alla direzione di New York. Non sapeva dove andare e cosa fare esattamente, sapeva soltanto di dover provare ad essere ciò che voleva essere.
Dormì a Central Park, vicino alla statua del cappellaio matto, ebbe fame, freddo e molti pidocchi, divenne amica dei barboni e di misteriose anime notturne che la presero a cuore dividendo con lei mozziconi di pane e un’infinità di racconti. Mai venne attraversata dal pensiero che quelle condizioni di vita le mostrassero la necessità di abbandonare il suo proposito o di rinnegare la sua intuizione. Stavano per cominciare gli anni’70, tutto sarebbe stato possibile.
Patti Smith
Trovò lavoro come commessa e un giorno, in quel negozio, entrò un ragazzo: “Aveva lampi di luce negli occhi”. Il ragazzo comprò la collanina che lei amava molto e lasciando di stucco se stessa gli disse: “Non darla a nessun’ altra che a me”. Lui sorrise, annuì e rispose: “Non lo farò”. S’incontrarono di nuovo, una notte, per caso, nel parco; aiutò Patti a venir fuori da una brutta situazione e non si separarono mai più. Quel ragazzo era Robert Mapplethorpe.
La vita prende direzioni impensabili grazie agli incontri che facciamo, si potrebbe costruire una mappa dell’esistenza basata sulle deviazioni che gli incontri provocano. Si vedrebbero vie tortuose e grandi rettilinei, scalate impervie di costoni rocciosi e lunghe navigazioni su mari a volte sereni e muti altre burrascosi e cupi.
Patti e Robert divennero intimi senza sforzo e senza bisogno d’esser prudenti. Appena ebbero soldi a sufficienza presero in affitto un appartamento “su un viale alberato, girato l’angolo da Myrtle El e dal quale si poteva raggiungere il Pratt a piedi”. Non aveva importanza che le pareti fossero incrostate di sangue e scarabocchi psicotici e neppure che il forno fosse pieno di rifiuti e siringhe usate. Ripulirono tutto e appesero al muro i loro disegni: malinconici, quelli di Patti, inquieti e deliranti quelli di Robert:
Certi giorni, grigi giorni di pioggia le strade di Brooklyn meritano una fotografia. Radunavamo le nostre matite colorate e disegnavamo come ossessi, figli ferali della notte finché esausti, non ci lasciavamo crollare a letto. Giacevamo l’uno nelle braccia dell’altra, ancora impacciati ma felici, a scambiarci baci mozzafiato durante il sonno. Il ragazzo che avevo conosciuto era schivo, incapace di esprimersi. Adorava essere guidato, essere preso per mano e varcare la soglia di un altro mondo a cuore aperto. Era virile e protettivo, anche se femminile e remissivo. Meticoloso nel modo di vestire e di comportarsi, era capace di un disordine terrificante all’interno delle sue opere. I suoi erano mondi solitari e pericolosi, preannunciavano libertà, estasi e liberazione.
Patti Smith e Sam Shepard al Chelsea Hotel
Si trasferirono al Chelsea Hotel, situato al 222 West della ventitreesima strada, Manhattan, tra la Seven e l’Eight Avenue. Lì oltre agli artisti vicini ad Andy Warhol, soggiornavano Leonard Cohen, Janis Joplin, Bob Dylan e molti altri. Era importante riuscire a mantenere una camera al Chelsea e i due fecero di tutto per riuscirvi.
Patti Smith e Bob Dylan
Patti rimaneva vicina a Robert anche quando piangeva e stava male e agitava le mani contro i demoni e urlava di inquietudine e dolore. Robert incoraggiava Patti a scrivere poesie, le regalò una copia di Ariel di Sylvia Plath e le insegnò ad amare le sue smagliature, segni feroci di una gravidanza precoce, cicatrici indelebili di una innaturale separazione. Seppero allontanarsi ogni volta che stare insieme non costituiva un bene per loro o per la loro arte e seppero tornare insieme, vicini, fratelli, dopo aver attraversato qualunque distanza. Erano necessari l’uno all’altra, senza che vi fosse perversa dipendenza:
L’opera di Robert mi attraeva perché il suo vocabolario visivo era affine al mio vocabolario poetico, nonostante potessimo dare l’impressione di muoverci in direzioni differenti. Robert mi ripeteva sempre: “Nulla è finito finché non lo vedi tu”.
Patti Smith e Robert Mapplethorpe
Si amarono moltissimo, anche quando Robert comprese di essere omosessuale. Si trasformava continuamente, lui, senza mai smettere di essere il ragazzo con il quale andare a Coney Island a far fotografie e a scambiarsi baci di sale e umidità. Patti era sempre contenta di andare, amava il pensiero di poter raggiungere l’oceano con la metropolitana.
L’Oceano. L’ho visto anch’io. Dalla costa opposta a quella di Patti e Robert. Era estate, era un viaggio importante, era l’uomo che mi vuol bene, una Fiesta Diesel grigia e 2000 Km tra Spagna e Portogallo. Fu durante quel viaggio che lessi Just Kids, fu durante quel viaggio che Patti Smith diventò compagna e maestra della mia vita da adulta, quella in cui io sono io, senza che vi sia più a questo alcuna alternativa possibile. Lo sapevo da sempre che prima o poi l’avrei incontrato, l’Oceano. Lo sapevo da quando ho studiato Cristoforo Colombo e letto Moby Dick, da quando sogno di visitare gli Stati Uniti d’America e da quando “il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce”, Sostiene Pereira. Così è proprio lì che gli ho dato appuntamento, sulla costa delle grandi partenze verso il nuovo mondo, sulle spiagge dove Antonio Tabucchi ha immaginato un uomo diventare finalmente se stesso.
– Vila Nova de Gaia, distretto della città di Porto, Portogallo
Indossavo pantaloni lunghi, una maglietta a righe e la felpa. Ma i ragazzi portoghesi, i pochi rimasti sul far della sera, avevano addosso solo il costume e il calore di abbracci e promesse sussurrate al tramonto del sole.
Mi tolsi le scarpe: la sabbia era di granuli grossi e ruvidi e molto, molto fredda appena sotto la superficie. Le onde lunghe mi raggiungevano, sempre, nonostante corressi veloce da una parte all’altra con una strana gioia nel cuore. L’acqua dell’Oceano è gelata e l’odore di alghe, fortissimo. E’ un’acqua scura e profonda e misteriosa. Mi spaventava, ma senza paura, come una magia.
E’ stato un viaggio nel viaggio, quello della lettura e quello alla scoperta dell’estremo occidente d’Europa. Per entrambi stupore e tenerezza, entusiasmo e grande partecipazione. Riempivo il libro di sorrisi disegnati con la matita accanto alle parole che più mi rallegravano il cuore, tra le pagine disegnavo alberi o punti esclamativi e facevo cadere come neve di dicembre a New York, briciole di pane portoghese, mangiato tra una tappa e l’altra, fra molti discorsi, carezze e baci rubati a 130 km/h.
Patti Smith
Da Patti Smith ho imparato la fiducia nelle proprie intuizioni e la disponibilità ad aprirsi alla vita con le sue rotte inattese. Mai avrebbe pensato di diventare una rock star, lo è diventata, ma non per questo ha rinunciato a scrivere poesie, a disegnare, a fotografare “a sentire in corpo la nascita di nuovi progetti”. E’ rimasta disponibile ad intraprendere ogni strada possibile e ad accogliere quel suo mondo interiore “metà garage e metà reame da fiaba”. Ha amato così come il cuore le suggeriva di fare e si è sposata, con un uomo che fu la sua gioia e che la seppe amare, accogliere e capire a sua volta; ha dato alla luce due bambini senza cedere allo stereotipo inverso, quello che vede incompatibile la vita artistica e la vita “normale”. Quando Robert la vide con in braccio sua figlia, la guardò e le disse: “Patti, lei è perfetta”. Si riferiva al piccolo, a lei, a quello che aveva scelto e a quanto Patti aveva fatto.
Patti Smith e Fred “Sonic” Smith
– Patti Smith, seduta al Cafè’ Ino di New York
Non ha potuto fare a meno d’essere se stessa e oggi, a settant’anni, sogna ancora di aprire un caffè sulla spiaggia e ripercorre coraggiosa le vie dei ricordi e degli incontri, seduta al Cafè’ Ino di New York, appartata in un angolo con i suoi quaderni d’appunti, la sua malinconia e la Polaroid. Ha visto morire la maggior parte dei suoi amici, di AIDS, di overdose e di troppa, esagerata vita, impossibile da imparare a vivere tutta, ma rimane dritta davanti al dolore, oggi come allora, guardandolo per quello che è: una realtà misteriosa, terribile e necessaria in modo inspiegabile alla vita:
Patti Smith e Robert Mapplethorpe
Robert morì il 9 marzo 1989 […] Fui sopraffatta da un senso di agitazione e frenesia, quasi che, per via dell’intimità che avevo vissuto con Robert, dovessi condividere la sua nuova avventura, il miracolo della sua morte. Quella sensazione indomabile rimase con me per qualche giorno. Ero sicura di non averla lasciata trasparire, ma forse il mio dolore era più evidente di quanto non credessi, perché mio marito ci mise tutti in macchina; ci dirigemmo a sud. Trovammo un motel sul mare e ci restammo per le festività di Pasqua. Su e giù per la spiaggia deserta, camminavo nel giaccone nero. Tra le sue pieghe grandi e asimmetriche mi sentivo come una principessa o una monaca. Sono sicura che Robert avrebbe apprezzato questa immagine: un cielo bianco, il mare grigio e questo singolare impermeabile nero. Finalmente, al cospetto del mare, dove Dio è dappertutto, riuscii a calmarmi.
Secondo me Patti Smith è bellissima, ora molto più di prima. La sua bellezza si fa beffa di ogni cliché, ma risuona nella sua voce ancora sicura e nello sguardo sempre luminoso.
Si muove con la grazia di chi è passata in mezzo al fuoco, disposta a bruciare pur di non rinunciare alla fedeltà verso se stessa.
Patti Smith
Se potessi prendermi un caffé con lei, le chiederei di raccontarmi dei disegni sui tovaglioli dei bar, della morte del marito, Fred, dei suoi gatti e di quel primo reading di poesie con la voce tremante, che cambiò il suo destino e l’idea che aveva di se stessa. Io le racconterei del mio viaggio, dell’Oceano, della malattia, delle ferite e di tutte le resurrezioni conquistate attimo, dopo attimo, dopo attimo. Con lei vorrei parlare di Dio, di quando decise di non pregare più con le parole che la madre le aveva insegnato, di quando cominciò a comporre lunghe missive a Dio, piene di domande, desiderose di conforto e di confronto. Patti prega per strada, davanti ai sepolcri dei poeti, per la vita disgraziata dei poveri e per le esistenze spezzate dei suoi amici di sempre.
Le racconterei delle soste forzate nel traffico di questa città decadente in mezzo al mare, di April Fool cantata a squarciagola o di Gloria a tutto volume, mentre guardo le travi di legno sdraiata sul letto a pancia in su e penso a quanta fatica costa la fedeltà a se stessi e a quanta misericordia ci vuole per non soccombere.
Le direi che i suoi libri, le sue parole, le sue canzoni sono intrecciate alla mia storia d’amore e le chiederei di recitare per me una delle sue preghiere perché nulla finisca, prima che sia compiuto.
Questa, di seguito, è As the night goes by, Nel trascorrere della notte.
E’ bellissima. Ascoltatela sul far della sera, quando sarete molto innamorati o molto ubriachi, ascoltatela quando sentirete di essere poeti, umani e perduti o santi. Oppure ascoltatela di fronte all’Oceano, il giorno in cui andrete ad incontrarlo.
All through the Night Sirens call
Come to me
I’ll come to you
As the night softly
Goes by bye.
Per tutta la notte
le Sirene chiamano
Vieni da me
Io verrò da te
nel trascorrere dolce della notte.
Happy Birthday Patti Smith!
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