Djali im këndon!
Nella lingua di mia nonna e di mia madre vuol dire: “Mio figlio canta!”.
Djali im, il mio bambino, ieri ha cantato per la prima volta.
Lui ha 21 mesi e pochi giorni, pronuncia molte parole ma non articola frasi, eppure canta!
Lo ha fatto ieri, prima di andare al nido: “…guri a te, guri a te!”. Parole storpiate su note perfette: la canzone del buon compleanno.
Era stupito e contento d’esservi riuscito, l’ho capito da come mi ha chiamata. Sì è messo dietro la porta del bagno, dentro il quale una mancata diagnosi spesso mi imprigiona e nasconde ai suoi occhi e mi ha fatta partecipe del suo successo: “Mamma! …guri a te! Mamma mamma …guri a te!”.
Sono uscita dal bagno con la faccia stravolta dal dolore, ma lui non si è preoccupato come quando mi vede star male, perché un lampo di gioia mi aveva acceso lo sguardo e i miei occhi erano in festa!
Djali im lo ha capito e si rimesso a cantare girando su stesso, senza mai togliermi gli occhi dagli occhi mentre insieme, così, giravamo il mondo!
Lo guardavo, e mi sentivo come se tutte le ferite del pianeta si potessero cicatrizzare, i bulbi fiorire all’istante, i deboli rinvigorire e risorgere i morti!
Ho trascorso la giornata attraversando il futuro per tutte le strade che riuscivo ad immaginare, così l’ho sognato con una chitarra tra le braccia, la pelle di sale, il sole nel cuore, nel corpo l’amore, che cantava in cerchio sul far del tramonto di una spensierata estate, un po’ profeta e un po’ marinaio in tempesta, come il suo nome vuole.
E poi in auto, mentre guida solo rientrando a casa, con la radio accesa a storpiare intonato le parole di una famosa Hit.
E poi sotto la doccia, dopo una giornata di lavoro, avvolto dal vapore e da pensieri difficili da districare.
E poi guardando negli occhi il suo nuovo amore o il suo amore di sempre.
E poi mentre cucina l’arrosto la vigilia di Natale.
E poi ai suoi bambini per farli addormentare con Pale Blue Eyes dei Velvet Underground, mentre pensa o racconta che così faceva sua madre.
E’ stato come se prendendo la sua prima nota, lo avessi visto saltare sul trampolino della vita con un salto lento e altissimo, fino a vederlo scomparire dal mio sguardo, così come è giusto che accada. Mi sono emozionata, entusiasmata, spaventata ed innamorata di questo figlio ancora e ancora, stupendomi della sua esistenza, che ce lo avevo nel sangue questo figlio, nelle cellule, nei pensieri, tutto dentro la carne, tutto a riempire il cuore. Era tutto sotto le palpebre, nelle orecchie, infilato sotto le unghie, dentro ai seni, navigava nel midollo, nelle pieghe del cervello, nelle curve dell’intestino, nella radice di ogni capello, dentro le pupille gustative, nel nucleo più profondo della leucina-encefalina delle lacrime che ho pianto, temendo di non riuscire a trovarmi mai; era nelle corde vocali che ho aperto, spalancato come una finestra all’aria fresca del mattino mentre lo consegnavo, altro da me, alla Luce di un giorno di primavera!
Letteratura italiana, greca, latina, inglese e poi elucubrazioni teologiche e spirituali, ideologie, teorizzazioni.
Poi.
Poi mio figlio.
Distruttore implacabile di tutte le chimere.
Djali im këndon!
Mia nonna materna cantava sempre, forse per questo ho pensato in albanese ascoltando il primo canto di mio figlio. Cantava mentre cucinava, grattugiava il pane raffermo o puliva la verdura. Cantava in albanese, in dialetto, in italiano. Prendeva una parola della frase che le avevi appena detto e la trasformava in un canto! Cantava pregando il suo Dio, come Miriam nel deserto o il re Davide davanti l’Arca dell’Alleanza, cantava quando era triste e quando era contenta, e solo il cielo sa quanto lo abbia fatto per sopportare la nostalgia.
Quando mio figlio ha cantato io mi sono sentita… salva! Perché “Dove si canta nessuno viene derubato, i malvagi non hanno canti” (Johann Gottfried Seume).
Da quando è nato abbiamo la grazia di vivere dove arriva il canto degli uccelli: i gabbiani, i merli, le tortore, i passeri, le cinciallegre e qualche pettirosso. Passeggiamo tendendo l’orecchio: “Sshhh, ascolta!”. E lui ascolta, li cerca con gli occhi, ma non sempre riesco ad indicargli da dove arrivi quel canto. E mi pare sia proprio sensato così: da dove venga il canto che ci commuove ed emoziona nessuno davvero lo sa. E’ difatti un mistero, nonostante tecnicamente si possa ricostruire, analizzare, osservare. Un po’ mistero, un po’ miracolo, come il canto delle balene, come il sibilo del vento, come l’ululato dei lupi, come mio figlio.