T’amo d’amor di terra
che mano generosa di semi adombra.
T’amo con cuor d’attesa,
io parola muta e tu Gerico di pietra.
Fiorisca in corpo, nostro
coraggiosa resa,
un’eterna estate
di desiderio audace,
intreccio d’ossa
di vita illesa.
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Rame
T’amo con cuore di rame
che faticoso fuoco senza morir contiene.
Tremula
Tremula s’apre la mano
le dita di resa, sconfitte.
E’ l’inizio. E’ la fine.
Cade, bagna la terra, nessun rumore
sangue di una vita intera,
frutto maturo di semina
senza raccolto.
L’amore miracoloso si fa vedere
adulto, all’improvviso
tutto nudo e intero
appare
agli occhi bagnati d’addio.
Venite, Venite!
Ho doni per tutti:
pelle, ossa,
lacrime e vene,
i respiri
prendete ogni cosa.
Che nulla resti d’unito.
Ovunque la mia pelle canterà di te,
ovunque le ossa suoneranno il tuo nome,
le lacrime bagneranno su ogni sabbia i tuoi piedi
le vene uniranno come filo d’oro i tuoi passi
e il respiro spingerà lontano le vele.
Tutta la fatica d’esser viva tra i vivi,
fiorita dentro ai tuoi occhi,
ogni felicità attesa dal mondo,
germogliata fra le tue mani.
Che ne hai fatto del ghiaccio di tutti i miei inverni?
Ora, spogliata
d’amore nudo
entro a piedi scalzi
nella bocca del mondo.
Di fiore in foglia
Di fronte, a sinistra.
La terra ha le viscere. Sotteranee e profonde.
Tra i cunicoli di queste viscere umide viveva una Ragazza. Non era nata lì, viveva in superficie, prima. Sottoterra c’era finita un giorno, per caso. Aveva sbagliato strada, si era persa, gli avevano fracassato il senso dell’orientamento, fu una vile aggressione. Un gruppetto di uomini e donne ben organizzato, vestiti di scuro, tutti uguali. Cercava la strada, la Ragazza. “Unisciti a noi” – gli disse il gruppetto, all’unisono, avvolto di tenebre. La Ragazza li seguì, ma poi si accorse che si addentravano in profondità, sempre più in fondo, sempre più al buio. E allora, la Ragazza, sentì nelle sue di viscere un istinto insopprimibile di luce, un desiderio di aria che la stordì. Si voltò, di scatto e si diresse correndo nella direzione opposta alla loro. Se ne accorsero quasi subito, cercarono di riacchiapparla, ma erano vecchi e storpi, e lei aveva piedi giovani, e correva. Si voltò, appena un attimo, per sentirsi rassicurata dalla distanza conquistata, ma una donna avvolta di buio la guardò e riuscì a fracassarle il senso dell’orientamento, ad avvelenare le radici buone del suo istinto.
Rimase sola e immobile. Il silenzio e il buio attorno. Cominciò a vagare in cerca di un’uscita. Niente. Passarono gli anni, e pensò diverse volte di essersi avvicinata alla luce, di vederla filtrare sotto la spessa coltre di terra, pietra e radici profonde. Niente. Nessun varco. Un giorno, camminava con gli occhi bassi e il buio dentro, occhi abituati alle tenebre e inciampò. Si ritrovò con la faccia a terra e mentre si tirava su cercava con le mani di spazzar via dal volto la polvere nera del suolo. Non era un sasso, né un ramo, non un cumulo di terreno indurito dalla siccità. Era inciampata in qualcosa di caldo e morbido, qualcosa che si muoveva e parlava:
“Ahi!”, disse infatti.
“Scusa!”, esclamò la Ragazza spaventata;
“Chi sei?”, rispose ancora dolente la voce dentro al buio.
“Io sono la Ragazza e tu?”, silenzio. “E tu?”.
“Parli con me?”,
“E con chi se no!”.
“Io sono il Mago”, disse, alzandosi in piedi.
“Un mago!?
“No, il Mago!”.
“Cosa ci fai qui?”, esclamò la Ragazza sempre più incredula.
“Non lo so bene – disse il Mago – sono alla ricerca di una nuova strabiliante magia”.
“Wow”, disse la Ragazza, mentre sentiva crescere nel suo cuore la gioia di aver qualcuno, vivo, con cui dialogare.
“Perchè non mi aiuti!”, gridò con entusiasmo il Mago, spalancando i suoi occhi grandi e scuri che però la giovane non poteva vedere.
“Aiutarti? Io? E come? Non so far niente, ho il senso dell’orientamento fracassato, non so mai dove vado, cosa faccio”.
“Non importa! – disse sorridendo il Mago, spalancando la sua bocca in un sorriso luccicante che gli occhi della Ragazza non potevano ancora vedere – sono sicuro che mi sarai d’aiuto”.
La Ragazza era confusa e anche spaventata, per un attimo pensò potesse essere uno del gruppetto di tenebre tornato ad ingannarla, ma la voce di quel Mago aveva qualcosa di luminoso e vivo che non gli sembrò compatibile con il buio.
Si misero a camminare uno accanto all’altra, senza una direzione, in cerca di una nuova strabiliante magia. Il Mago aveva piedi buoni e tanta voglia di camminare e ogni tanto saltellava alzando polvere e facendo traballare i sassi. Alla Ragazza non importava non sapere dove si trovasse davvero il Mago, se dietro o davanti, a destra o a sinistra, amava la polvere e il traballare dei sassi perchè voleva dire per lei non essere più sola. In altri momenti, invece, il Mago rallentava, e procedeva con andatura felpata e silente. La Ragazza allora con voce tremante sussurrava: “Ci sei?” – “Ci sono”, rispondeva il Mago con voce serena.
Durante quel folle procedere senza meta il Mago raccontò alla ragazza di essere cresciuto in un castello grigio e isolato e di aver deciso un giorno di catapultarsi giù da un balcone e di correre a valle, inseguendo l’allegro mormorare del villaggio. Lì conobbe tante persone semplici e buone e giocando con i bambini si accorse di esser capace di magia. Dalle sue dita venivano giù fiumi di luce brillante, arcobaleni e farfalle, ma nonostante tutto questo non riusciva a cacciare dal suo cuore tutto il grigio del castello. La Ragazza lo ascoltava trattenendo il respiro e sentì dentro di sé che qualcosa si muoveva. Ebbe paura, ma non disse nulla. Percossero le viscere della terra in lungo e in largo, raccontandosi il passato e immaginando un futuro dentro alle tenebre. Nonostante la Ragazza avesse imparato a percepire i passi felpati e silenziosi del Mago, le piaceva ogni tanto esclamare: “Ci sei?”. E il Mago ne era felice perchè lui amava risponderle: “Ci sono”.
Un giorno mentre si raccontavano il futuro la Ragazza sentì i piccoli movimenti avvertiti dentro di sé, ogni giorno, diventare un terremoto, le viscere si agitavano senza sosta, il cuore e le ossa sembravano muoversi a passo di danza. Si fermò, ansimò spaventata e felice. Il Mago si accorse che la ragazza si era appoggiata alla parete di un cunicolo e le si avvicinò. Piano. Piano. Voleva toccarla, sfiorarla appena, ma le chiese: “Posso avvicinarmi?”. La Ragazza sentiva tutta la vita agitarsi dentro di lei, nei piedi, nel naso, tra i capelli e disse: “Si, avvicinati”. Il Mago fu felice e stava per farlo, senza indugio, ma si fermò, lì, dentro al buio, trattenendo il respiro perchè capì cosa stava accadendo, fu un attimo e con voce calma chiese alla Ragazza: “Spiegami dove sei esattamente, perchè possa avvicinarmi”. Senza neanche pensarci la Ragazza gli gridò: “Sono qui! Davanti a te cioè non davanti, ma…di fronte, a sinistra”. Il Mago per essere sicuro che la strabiliante magia si stesse realizzando davvero le chiese: “Sinistra? Ma la sinistra qual è?”, e la Ragazza, senza indugio: “Dalla parte del cuore!”. Appena pronunciate quelle parole, scoppiò in un pianto di gioia, rendendosi conto che era stata di nuovo capace di orientarsi, di individuare coordinate, di offrire indicazioni, di distinguere. La felicità era incontenibile e il Mago fece appena in tempo a raggiungerla per evitare che la Ragazza si accasciasse a terrà per la troppa emozione. Appena i due si toccarono, furono riportati immediatamente in superficie, alla luce del sole. La Ragazza vide gli occhi grandi e scuri e il sorriso scintillante del Mago, e nel cuore del Mago si prosciugò ogni residuo di grigio. Nessuno dei due sapeva cosa sarebbe accaduto adesso, cosa del futuro immaginato sottoterra potesse diventare realtà. Uno di fronte all’altra, mano nella mano si guardarono a lungo e l’unica cosa che la Ragazza riuscì a dire fu: “Ci sei?” . “Ci sono”, rispose lui.
Presente, muto.
Ho guardato un muto negli occhi.
E’ muto l’amore di chi fugge il contatto,
la pelle che sfiora la pelle.
Ho guardato un muto nel cuore,
forse ho divorato io le tue parole?
Fisso le labbra senza riposo,
aspetto di vedere il buio della bocca appena socchiusa,
quelle tenebre che solo il fiato dirada veloce.
Il suono, la lingua che danza,
gli occhi vivaci che tengono il ritmo.
Ho resistito in equilibrio,
sul filo di terra a strapiombo sul niente,
passi quotidiani all’indietro
per sfuggire al silenzio che divora lo spazio.
Tra noi praterie sterminate di desideri incolti,
fiori, erbacce e alberi forti.
Muto l’amore dai piedi di piombo,
che non corrono,
che non fuggono,
né lontano né vicino.
Se corro via, tu resti lì,
se rimango non ti avvicini di un passo.
Ovunque io vada, la distanza non si allunga,
ovunque io sia, tu resti qui.
Presente e muto.
Il silenzio sazia la rabbia,
i fantasmi trattengono il sonno in ostaggio
e fanno della notte, giorno
e del giorno tenebre fitte.
Muto e in tempesta il mare,
furioso e silenzioso
con il porto sempre a vista
e irragiungibile,
un’ancora senza terra da toccare
che scende a vuoto
legata ad un filo infinito.
E non è vero niente
e non è falso niente.
Solo la mia voce,
solo i miei errori
recitati a memoria davanti allo specchio.
Il tempo non trova più la strada
non procede diritto
non ha meta,
si attorciglia attorno al corpo,
lega i piedi,
copre gli occhi,
serra le mani
e gira e gira.
La speranza vanitosa
cambia ogni giorno la sua veste,
si tinge, si trucca, cambia faccia
ed è estranea ogni volta,
vicina e irriconoscibile.
Sono io che non sento?
Sono io che non sento?
Ho perso l’udito e la fame,
sono io che non sento.
Amore muto,
labbra serrate da dolori antichi,
che le tue parole trovino la via di uscita,
e possano crescere forti,
posarsi ovunque, germogliare,
arrampicarsi veloci sui muri,
saltare gli ostacoli,
attraversare i mari.
E alle mie orecchie, rese sorde dalla troppa attesa
possa giungere notizia, un giorno,
delle tue labbra socchiuse alla gioia.
Settembre senza titolo
Pensavi fossero eterne le mie risate?
Gioco di rincorse tra le ombre del vento.
Fuori
trema la terra di lievi sospiri.
Dal buio alla luce,
le tue palpebre d’oro,
si apre e si schiude la bocca
un migrare di sillabe mute.
Lontano,
riposa il corpo stremato,
l’occhio non dorme,
fame, sete, scintille.
Tutto il presente in un punto
fisso
il passare dei giorni.
Fuoco di viscere in fiamme,
il sangue su palmo di mani,
foglie di rami sugli occhi.
Viene il futuro all’indietro
cieco
su strade di fame.
Di notte, a Palermo.
S’addummisciu lu celu
e lu scuru mi trasiu nta l’ossa.
Lu cori, lu me cori si voli manciari!
Pi saziarisi di tia, ca dintra di mia t’ammucci.
Ti truvau a tenebra, amori miu,
ma io scappo e curru
e t’addifiennu e ieccu vuci,
ca lu scuru si scanta
di li peri nudi
ca currunu nta la notti,
si scanta di l’occhi mei
d’amuri addumati,
si scanta di mia ca cantu,
di li balati ca luciunu di luna,
di i statui vistuti di biancu,
di la storia,
ca ferita a morti un chiui l’occhi
e s’attacca a li mura
e risisti.
Si è addormentato il cielo
e il buio mi entra nelle ossa.
Il cuore, il mio cuore vuole divorare!
Per saziarsi di te, che dentro di me ti nascondi.
Ti hanno trovato le tenebre, amore mio, ma io scappo e corro
e ti difendo e grido,
perchè le tenebre si spaventano
dei piedi nudi che corrono nella notte,
temono i miei occhi vivi d’amore,
si spaventano di me che canto,
della strada che brilla di luna.
delle statue vestite di bianco.
della storia che ferita a morte
non chiude gli occhi,
ma si attacca alle mura
e resiste.
E poi spirisci
Ma cu si tu, occhi niuri,
funnu mistiriusu di biddizza.
Calamita ca mi scippa lu cori
di lu pettu, pi fallu scinniri
dintra lu pozzu ca si tu.
E poi, però, t’ammucci e ti nni vai
e sugnu sula, dijuna di li to paroli
ca mi danno forza e ciatu.
Ma cu si tu,
ca comu faru t’affacci
comu un mago addumi u mari di faiddi,
ca sugnu io lu mari sinza lustru di luna,
sinza stiddi.
E comu un ciuri di campu
a spiranza mi germogghia nta l’ossa
e poi spirisci.
E secca lu sangu nta li vini
e lu cori chiù un s’abbivira.
Ma cu si tu,
unna nta la riva
c’arrivi e m’arrifirschi di l’arsura
e t’arritiri
e un ti pozzu taliari
e ieccu li me mani e strinciu li pugna,
ma tu t’ammucci e un ti fai pigghiari.