Il tempo opportuno

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Oh, saprò aspettare il momento giusto.
Custodirò la tempesta,
fino alla sua esplosione resterò in silenzio.
Il respiro sarà lieve fino a che non sarà colma la furia.
Poi sarà uno scroscio d’acqua senza riparo,
sarà burrasca in ogni anfratto del mondo.
La terrà secca tornerà a partorire germogli,
e l’aridità non scamperà alla vendetta.
Il deserto arretrerà con il terrore negli occhi
e l’umidità esploderà in un canto di tuoni.
Ovunque arriverà la frescura,
ogni spigolo si ricoprirà di muschio.
La piena delle acque nuove sconvolgerà ogni cosa
e nulla resterà al suo posto.
Il vento spargerà sementi ovunque
e non troverà alcun rifugio la desolazione.
Sarò quel che sono fino all’ultima goccia di rugiada
e tutta la fatica cupa dell’attesa si muterà in festa.

Povero Ulisse

Ulisse_Penelope

“Navigo al buio su acque ignote e i venti mi portano ora in una direzione ora in un’altra e rendono sempre più difficile il mio rapporto con Penelope. Ogni sua parola, ogni suo gesto lascia un segno ambiguo nella mia memoria. Mi sono difeso dall’acqua e dal fuoco, dal ferro e dagli altri metalli, dalle pietre, dalla terra, dalle malattie, dai quadrupedi e dai mostri con un occhio solo, dagli uccelli, dalle Sirene e dall’invidia degli dei, ma non so come difendermi da Penelope.
Povero Ulisse.
Ti sei destreggiato senza mai perderti d’animo anche nelle più difficili emergenze della guerra e hai saputo evitare le infinite trappole che gli dei hanno disseminato sulla tua strada, e ora guardi come fosse un fantasma sfuggente la tua sposa che pure sta lì seduta di fronte a te e ti basterebbe allungare la mano per toccarla”.

da Itaca per sempre, di Luigi Malerba

Dovevamo saperlo

«Dovevamo saperlo che l’amore
brucia la vita e fa volare il tempo».

Vincenzo Cardarelli

Giugno

(foto di Mimmo Jodice)

(foto di Mimmo Jodice)

La testa che gira, l’amor che stordisce
la vita che avanza, eppure sparisce!
La notte silente affina gli artigli
la morte vogliosa che schiude i sigilli.

Ferite di sangue e lividi neri
cicatrici profonde dentro ai pensieri.
I piedi nel fango a passo di danza
negli occhi un bagliore ad intermittenza.

Il ventre ruggisce, di pietra, difende
il corpo che stanco pian piano s’arrende:
“Reagisci, ti prego!” – urla il ventre sventrato
al cuor dall’amore abbandonato.

“Ti han divorato il naso e la bocca?
Il buio profondo con le mani ti tocca?
Resisti piangendo le lacrime vere
vegliando la vita, di sera in sere!

E’ lento il risveglio, l’amor sembra muto,
ma il mostro vedrai sconfitto, abbattuto!
Dov’è la tua forza, gigante violento?
Le tue mani sacre d’abbrutimento?

La vita non tornerà da un paese lontano,
nessuno potrà offrirtela dalla sua mano.
La vita dall’intimo del tuo tormento
farà biondeggiare di luce il frumento.

Il corpo riavrà il profumo del pane,
risuscitate le labbra, morbide, sane.
Nei vostri baci nuovi affonderà la morte
dallo sfiorarsi di mani, la nuova sorte.

Libera gioia

(opera di Egon Schiele)

(opera di Egon Schiele)

Fortuito sfiorarsi di gomiti
nel pomeriggio afoso di giugno,
accende di scintille la notte.

Raccolgo a mani nude
briciole di fuoco,
una dopo l’altra
nel rincorrersi furioso del buio.

L’eco di cavallerie avanza
blatera a ritmo, la morte
ma l’ombra si dissolve,
codarda
fronteggiare non sa
con lame e parole
il perdurare fisso di uno sguardo.

La vita s’arrampica sulle rovine
rinverdisce lenta
le pietre una ad una perdono pallore.
Gomito a gomito
braccio a braccio
mano a mano
le tenebre sudano,
la fatica, la resa.

Sulla terra striscia
l’amore
di polvere e sangue
si libera gioia
dai corpi
e svuota di ombre e potere
gli antichi sepolcri.

Piccole schegge sparse ovunque

(foto di Beth Moon)

(foto di Beth Moon)

E’ successo ieri sera, mentre spegnevo la luce su una giornata piena di pensieri. All’improvviso. Mi sono ricordata di una cosa vista ogni giorno per molti anni e incredibilmente dimenticata per altrettanti.
Avuta sotto gli occhi da sempre, quotidiana, ordinaria. Non ho idea di come abbia fatto a non pensarvi durante tutti questi anni e neppure so perché me ne sono ricordata adesso.

Mia nonna portava al collo un ciondolo, un ciondolo con la fotografia di suo marito. Mio nonno cioè. Un primo piano, in bianco e nero. E anche mia nonna era in bianco e nero, il bianco dei capelli, intrecciati pazientemente ogni mattina e il nero del lutto, segno di un dolore che non si vuol dimenticare.
Mio nonno era più grande di lei di ben dieci anni. Era ordinario allora: “Il maschio 28, la femmina 18” – diceva lei. Della loro storia non so praticamente nulla, perché non gliel’ho mai chiesto. Ero troppo piccola finché c’è stata. So che si volevano bene, me lo dice mia mamma, so che quando erano sposini mangiavano un chilo di pasta in due: “E non ingrassavamo mai” – aggiungeva sempre la nonna, con una punta di orgoglio e nostalgia. D’ingrassare non c’era il tempo: la guerra, il lavoro, lui in campagna, lei a casa con l’acqua da riempire alla fontana e un paese fatto a scale, da arrampicare. So che andavano a braccetto fino al seggio, poi lui votava il partito comunista e mia nonna la democrazia cristiana e di nuovo abbracciati verso casa.

Oggi, ripensare a quella foto che portava addosso ogni giorno e ogni notte per i ventanni della sua vita senza di lui, è un ricordo che mi stordisce. Il fatto è che, adesso, io le domande ce le avrei e forse sarei anche in grado di ascoltare le risposte, di capirle, intendo. E’ che l’amore, più di altre dimensioni di questa complessa cosa che è l’esistenza, diventa fortissimo quando viene raccontato, non quando viene visto, desiderato, cantato, celebrato, consacrato e neppure quando è detto, che fra dire e narrare c’è una bella differenza. Dell’amore si dicono molte cose, infatti. Dire l’amore è come cercare di centrare un bersaglio in movimento. Non per niente l’amore, tra tutti i verbi possibili, predilige il “fare”. Ma al racconto l’amore si piega,  forse perchè la narrazione non esiste se non quando si passa attraverso la vita,  in mezzo, magari temendo di non riuscire a venirne a capo.

L’amore.

L’amore, io l’ho visto, mi pare, ma non  so se ci ho girato attorno o se mi ci son persa dentro: l’amore impossibilie, l’amore platonico, l’amore vicino ma assante, l’amore assoluto, di gran lunga l’esperienza peggiore. Ma l’amore da tenere al collo fino alla morte, forse non lo so cos’è e forse per questo mi sono ricordata del ciondolo della nonna e di quel primo piano in bianco e nero. Lo baciava al mattino, al risveglio, e la notte, prima di dormire. E adesso io vorrei tanto che mi raccontasse di lui, di quando lo salutava all’alba e di quando lo attendeva, al tramonto, della gioia della sera e di tanti quotidiani ritorni, dell’amore che c’è e che resta sempre perfino quando la morte si mette in mezzo.

Adesso che sento repulsione per ogni teoria, qualunque siano le sue argomentazioni e qualunque forma essa assuma, adesso l’amore lo vorrei così, frantumato, piccole schegge  sparse ovunque: come lievito nel pane impastato a spinta di polsi, come residui di cenere ad imbiancar le lenzuola, come fili che tessono l’abito della festa, come parole nell’aria sull’uscio di casa sul far della sera. Mia nonna cantava sempre. Melodie di campagne innevate che le rendevano meno amaro, forse, il suo esilio in città. La morte del nonno è stata la fine di molte cose per lei. L’inizio di una vita in una città non sua, dove la figlia da amare e le nipoti da crescere sono diventate tutto il suo mondo. Ma lui stava lì, poggiato sul petto, sempre.
Oggi chi non ha qualcosa da dire sull’amore? L’amore non va idealizzato, l’innamoramento – attenzione – non è l’amore! L’amore non è tutto rosa è fiori, si sa. Mia nonna avrebbe crucciato lo sguardo davanti a tutti questi professionisti dell’amore, davanti ai dottori delle leggi che lo governano e definiscono. Forse avrebbe risposto che il nonno le voleva bene, che le portava rispetto. Troppo poco per le nostre consapevolezze moderne? Mi rendo conto, si.

Non è la nostalgia di un’età dell’oro, tra l’altro mai vissuta. E’ piuttosto la rivendicazione del diritto a non dimenticare, il diritto ad avere molta nostalgia delle persone amate e di non sottostare alla legge del chiodo schiaccia chiodo o dei portoni che si spalancano inghiottendo le porte chiuse. Vorrei avere un cuore dove le porte chiuse restano lì, chiuse ma presenti, magari con un bel rampicante fiorito che ci cresce addosso. Rivendico il diritto ad una nostalgia esagerata che cammina dritta dritta sullo stesso binario del presente, senza impedirmi di andare avanti e senza impedirmi di voltarmi ogni volta che vorrò farlo. Rivendico il diritto all’esistenza per il mio cuore tortuoso dove la vita non scorre fluida, lasciando a secco alcune zone e paludose molte altre. Rivendico davanti all’amore il diritto di coltivare la mia propensione alla solitudine senza sensi di colpa o frustrazioni. Rivendico il diritto di amare chi non mi ama o chi pur amandomi non vuole o non riesce a restare. Rivendico il diritto di sentirmi molto molto innamorata salvo poi scoprire che non era davvero così, senza disperazione. Rivendico davanti al buon senso il diritto di credere possibile quanto non lo è, sognando ad occhi aperti, il diritto di commuovermi al pensiero che quella persona lì esiste davvero, il diritto a morire d’amore per un fugace sfiorarsi di mani. Se è l’esperienza a suggerirmelo, rivendico il diritto di capovolgere ogni legge, voglio poter dire: innamorarmi è stato molto più difficile e doloroso che amarlo per tutta la vita al mattino quando lascia in disordine il bagno!

Una foto in bianco e nero sul petto silenzioso di una donna riemerge nella mia memoria come la possibilità di amare a modo mio. Forse non me ero dimenticata, forse aspettavo soltanto di capire cosa significasse per me.

Sfiorare

(foto di Gyula Halász Brassaï)

(foto di Gyula Halász Brassaï)

“Sfiorare” : preceduto da DIS, privativo.
Cogliere il fiore, il meglio di checchessia.
Perdere il più vago della bellezza, la parte migliore.
Toccare lievemente passando vicino.
Andare molto vicino al conseguimento di qualcosa, senza raggiungerlo.
Ciononostante inteso nel senso contrario: Sfiorare è anche raggiungere.

Il fiato si spezza sfinito,
oppresso da eccessiva lunghezza.
Corro con gambe veloci
e tu resti ad uguale distanza.

Di fronte e invisibile,
fantasma di felicità velata.
Gomito a gomito.
Ripeto a memoria, di notte in giorno
la rima baciata del tuo calore.

Resto,
a vegliarti le mani tra luna e sole,
piegata dal vento.
Canto le sillabe del tuo nome
e tu scopri sorpreso che esisti.

Ti svegli dal buio del sonno
le gambe che tremano vergini
si muovono vive di passi.
Palmo a palmo si svela l’amore,
t’abbraccio di fiato immortale.

Argento

Disegno di Carlo Levi

Disegno di Carlo Levi

T’amo con cuore di vento
tormento di foglie appese a rami d’inverno.
T’amo con amor di tempesta
che si abbatte violenta
e nera divora d’appuntiti morsi
l’ombra severa degli spettri.
T’amo con cuore di pioggia
che lenta disseta,
e vita segreta germoglia
sugli occhi, perle di rugiada
sangue caldo sui desideri morti.
T’amo con cuore d’argento
freddo e prezioso
che ricopre la silenziosa attesa
d’amare te a piedi nudi,
il coraggio ardito, la temeraria impresa.

Cuore di legno

Gli amanti, olio su tela. Carlo levi.

Gli amanti, olio su tela. Carlo levi.

T’amo con cuore di roccia
che frana, di sasso in sasso
sotto il peso grave del tuo silenzio.
T’amo con amor di luce
che le tenebre inghiotte
come grumo di lacrime in gola.
T’amo con amore di mosto
custodito dal buio in cuore di legno
che aspetta dell’uva nera il tramutarsi in festa.

Neve

Carlo Levi, Amanti.

Carlo Levi, Amanti.

T’amo con amor di coltello
che a cuore nudo la tua lama affonda.
T’amo con cuore di neve,
che della tua assenza mi ricopre, lieve.
T’amo con cuore d’inverno
di vita che fredda muore
e germoglia, insieme.
T’amo a viso scoperto
e sguardo teso,
che l’amor spavaldo
si mostra nudo, si mostra arreso.