Scrivi qualcosa per me

Abbiamo ricevuto in dono per Eufemia questa canzone di Alex Baroni. Da brave raccoglitrici di frammenti la pubblichiamo…nella speranza che la vita ci renda abili a cercare, capire, saper dire, condividere, senza perderci, senza perdersi.

“Scrivi qualcosa per me scrivi
una frase per me quando saremo soli poi
io la cantero’ vedrai scrivi
le cose che non mi dici mai
scrivi di quello che fai
scrivi piu’ forte che puoi
il cuore di una canzone batte veloce
non lo sai scrivi qualcosa
che non hai detto mai
grandi deserti e liberta’ lettere
perse chissa’ dove da te e da me
scrivi qualcosa che non hai detto mai
scrivi qualcosa con me scrivi
pensando che c’e’ qualche distanza
in meno se lo possiamo fare noi
scrivi di quello che non hai detto mai
cerca nel fondo di te
apri le porte segrete dammi una frase
unica forse un po’ ne soffrirai
ma scrivi le cose che non hai detto mai
grandi deserti e liberta’
lettere perse chissa’ dove da te
e da me
scrivi le cose che non hai detto mai
scrivi qualcosa che non hai
detto scrivi le cose che non hai
scrivi qualcosa che non hai detto mai”

Contrabbando di nostalgie

…Dunque è davvero un viaggio nella memoria, il tuo! – Il Gran Kan, sempre a orecchie tese, sobbalzava sull’amaca ogni volta che coglieva nel discorso di Marco un’inflessione sospirosa – , È per smaltire un carico di nostalgia che sei andato tanto lontano! – esclamava, oppure: – Con la stiva piena di rimpianti fai ritorno dalle tue spedizioni! – e soggiungeva, con sarcasmo: – Magri acquisti, a dire il vero, per un mercante della Serenissima!

Era questo il punto cui tendevano tutte le domande di Kublai sul passato e sul futuro, era da un’ora che ci giocava come il gatto e il topo, e finalmente metteva Marco alle strette, piombandogli addosso, piantondogli un ginocchio sul petto, afferrandolo per la barba: – Questo volevo sapere da te: confessa cosa contrabbandi: stati d’animo, stati di grazia, elegie!

Foto di Gordon Parks, Somerville - Maine 1944

Foto di Gordon Parks, Somerville – Maine 1944

Angels

Roma, Ponte Sant'Angelo

Roma, Ponte Sant’Angelo

Palermo, Piazza San Domenico

Palermo, Piazza San Domenico

Colori nell’ombra

Chiaroscuro. Penombra. Sempre ho immaginato così lo spazio interiore nel quale prendono vita le nostre domande. Un gioco di luci ed ombre. Le domande nascono da intuizioni. Da qualcosa che comprendiamo ma non del tutto, frammenti di verità a cui vorremmo dar forma, spesso senza riuscirvi. Sono domande grandi, domande che molti rinunciano a farsi: la vita, la morte, il dolore, il perchè delle cose che siamo, il perchè di ciò che desideriamo, il perchè di quanto non comprendiamo. Di questi tempi poi…la crisi riduce gli orizzonti, dicono. I bisogni primari non sono soddisfatti. Si ha fame. E la fame del corpo divora i bisogni dell’animo. Dicono. Ma per i bambini forse non è così, non ancora. Il loro spazio di penombra è ampio. I bisogni sono tutti primari. Riempire la pancia e sapere perchè sei nato bambino e non cane, sono entrambi istinti in cerca di risposta. Meraviglia. Ho affidato ai miei alunni di prima media uno spazio di silenzio. Una porzione di tempo durante il quale andare a scovare e tirar fuori le domanade alle quali vorrebero abbinare una risposta, quelle che magari hanno timore di fare ai “grandi”. Ho detto loro che potevano chiedere tutto. E mi sono premurata di chiarire loro che non sarei stata in grado di rispondere. Soltanto mi sarei impegnata ad accogliere. Il risultato di questo piccolo esperimento dentro ad una piccola aula di una piccola scuola mi è sembrato avere proporzioni universali, ascoltare, una dopo l’altra le loro domande mi ha dato l’impressione di assistere ad una esplosione di colori che ha del tutto mutato il mio immaginario di chiaroscuro . Le domande sono colori nell’ombra.

Federica: Perchè io sono io?

Martina: C’è il paradiso dopo la morte oppure rimarremo polvere senza anima?

Tommaso: Perchè esiste la natura?

Luca: Perchè non possiamo rispondere alle domande?

Federico: Perchè esiste il mondo?

Leonardo: Perchè dopo aver raggiunto degli obiettivi non si sa più qual è il senso della vita?

Carlotta: Perchè certe volte sembra che Dio non ci assista?

Benedetta: Perchè si vive se poi bisogna morire?

Leyla: Perchè non possiamo vivere senza acqua e cibo?

Chiara: Perchè si sogna?

Davide: Perchè l’universo è infinito?

Leonardo: Perchè tanti uomini si fanno male da soli?

Francesca: Perchè sono nata e certi bambini no?

Lorenzo: Perchè Dio ha creato il mondo e noi?

Jonathan: Perchè non nasciamo tutti intelligenti?

Eleonora: Quando moriamo tutti, cosa succederà?

Filippo: Perchè il destino mi ha fatto fare certe cose?

Camilla: Esiste una vita dopo la morte?

Cristian: Quando moriamo cosa succederà?

Beatrice: Perchè esistono le malattie?

Giulia: Perchè sono uomo e non un animale?

Giacomo: Perchè si muore?

Marco: Perchè esiste la vita?

Simone: Perchè l’uomo cerca sempre la perfezione?

hjueee

Frammento alla morte

navefantasma5  (foto di Peter Iredale)
Vengo da te e torno a te,
sentimento nato con la luce, col caldo,
battezzato quando il vagito era gioia,
riconosciuto in Pier Paolo
all’origine di una smaniosa epopea:
ho camminato alla luce della storia,
ma, sempre, il mio essere fu eroico,
sotto il tuo dominio, intimo pensiero.
Si coagulava nella tua scia di luce
nelle atroci sfiducie
della tua fiamma, ogni atto vero
del mondo, di quella
storia: e in essa si verificava intero,
vi perdeva la vita per riaverla:
e la vita era reale solo se bella…
La furia della confessione,
prima, poi la furia della chiarezza:
era da te che nasceva, ipocrita, oscuro
sentimento! E adesso,
accusino pure ogni mia passione,
m’infanghino, mi dicano informe, im
puro
ossesso, dilettante, spergiuro:
tu mi isoli, mi dai la certezza della vita:
sono nel rogo, gioco la carta del fuoco,
e vinco, questo mio poco,
immenso bene, vinco quest’infinita,
misera mia pietà
che mi rende anche la giusta ira amica:
posso farlo, perché ti ho troppo patita!
Torno a te, come torna
un emigrato al suo paese e lo riscopre:
ho fatto fortuna (nell’intelletto)
e sono felice, proprio
com’ero un tempo, destituito di norma.
Una nera rabbia di poesia nel petto.
Una pazza vecchiaia di giovinetto.
Una volta la tua gioia era confusa
con il terrore, è vero, e ora
quasi con altra gioia,
livida, arida: la mia passione delusa.
Mi fai ora davvero paura,
perché mi sei davvero vicina, inclusa
nel mio stato di rabbia, di oscura
fame, di ansia quasi di nuova creatura.
Sono sano, come vuoi tu,
la nevrosi mi ramifica accanto,
l’esaurimento mi inaridisce, ma
non mi ha: al mio fianco
ride l’ultima luce di gioventù.
Ho avuto tutto quello che volevo,
ormai:
sono anzi andato anche più in là
di certe speranze del mondo: svuotato,
eccoti lì, dentro di me, che empi
il mio tempo e i tempi.
Sono stato razionale e sono stato
irrazionale: fino in fondo.
E ora… ah, il deserto assordato
dal vento, lo stupendo e immondo
sole dell’Africa che illumina il mondo.
Africa! Unica mia
alternativa
Pier Paolo Pasolini (Poesie incivili, 1960)

 

Vergogna!

Immagine

Vergogna!

Fame di parole

In questi giorni è apparso su palermo.repubblica.it un articolo sul nuovo boom di analfabati tra i giovani siciliani http://palermo.repubblica.it/cronaca/2013/05/05/news/il_boom_dei_nuovi_analfabeti_un_ragazzo_su_tre_non_sa_leggere-58085888/ Prendiamo spunto da questa nuova indagine per riproporvi l’ascolto di un racconto/denuncia sulla fame di parole di cui muoiono i bambini di uno dei quartieri più poveri di Palermo: l’Albergheria e su quanti si adoperano per placare questa fame e le sue conseguenze http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/programmi/puntata/ContentItem-813ef6a3-d1b3-47d0-8387-511724bc05c2.html?refresh_ce

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Memoria è (r) esistenza

Presenza, silenzio. Omaggio ad Agnese Borsellino.

Ciao Agnese. Scrivere, riflettere, adesso, condividere a poche ore dalla tua morte, è l’idea peggiore che potessi avere. Di parole ne verrano, moltissime, alcune, la maggior parte, sincere e tanto tanto più autorevoli delle mie, alcune di circostanza, di quelle che da viva hai cercato di farti scivolare addosso rendendoti imperbeabile con la vernice lucida e trasparente del silenzio e della discrezione.

La notizia della tua morte ha destato in me profondo senso di solitudine misto a quel sollievo che accompagna l’animo quando le cose si rimettono a posto. Adesso accanto all’uomo che hai amato in vita e che questa vita ha strappato via da te e dai tuoi figli, sei nuovamente a casa. L’ingiustizia, l’assenza violenta di chi amiamo, è ciò che rende l’uomo clandestino in vita, rifugiato, senza patria .

Io non ho nessuna autorità nè competenza per scriverti. L’unica cosa che mi accomuna a te è il sangue. Sangue misto il nostro. Sangue mescolato tra popoli, si sa. Sangue versato. Il sangue nostro, mischiato a quello appiccicato alla strada, quello che macchia l’asfalto e resta lì. Fino a quando non costruiscono una lapide a perpetuo oblio. Sangue misto di vittime e di mafia. Che la prima antimafia noi siciliani la viviamo tra cervello e coscienza, lì dove si annidono le uova velenose di una cultura malata.

Agnese, quando hanno ucciso Paolo io avevo 12 anni. L’indomani mi aspettava un viaggio in macchina verso la casa al mare, le vacanze, i giochi. Mi sono preparata per quel viaggio come si preparano i bambini, ma sono arrivata alla meta del viaggio lasciando a casa l’infanzia, lì davanti alle immagini di Via d’Amelio. Quando è morto Paolo io non lo sapevo chi fosse il giudice Borsellino. Avevo conosciuto da poco Giovanni Falcone, lo avevo conosciuto attraverso le lamiere contorte della sua auto e polvere di tritolo e autostrada. Paolo Borsellino è entrato nella mia storia quel 19 luglio, quando un boato ci portò in balcone e una colonna di fumo non troppo lontana tese i lineamenti sul volto dei grandi. Aspettammo davanti alla televisione la notizia che già le nostre orecchie e i nostri occhi avevano compreso, ma non accetato. Davanti a quella diretta surreale, smarrimento. Io cosa fosse successo fino in fondo non lo avevo capito. Quello che potevo capire, però, erano gli occhi rossi di papà e quella frase a bassa voce uscita da labbra immobili per il dolore: “matri mia, ma in guerra semu!“. L’immagine di lui ai miei occhi il forte per eccellenza, così costernato, addolorato, impaurito mi fecero diventare grande in fretta, capii che da una vicenda come quella non poteva difendermi nessuno, neppure lui. Di mafia potevo morire anche io, potevamo morire tutti.

Di quei giorni non riesco a scordare il silenzio. I miei stavano in silenzio. Arrivata al mare mi sembrò che anche la spiaggia stesse in silenzio. Si leggevano i giornali. E si stava in silenzio. Al ritorno dalle vacanze, quando i miei uscivano da casa io piangevo, di nascosto. Avevo paura che scoppiasse una bomba, avevo paura che sarebbero morti, che non avrebbero fatto ritorno. Fatti a pezzi, dalla mafia. Quando uscivo con mamma per fare la spesa passavo accanto ai carri armati inviati dallo Stato, e guardando quei giovani soldati con i fucili in mano, sicura io, con tutto il rispetto per lo Stato, non mi sentivo per niente.

Tante volte ho pensato a te e ai tuoi figli. Tante volte, crescendo, davanti ai miei occhi quella colonna di fumo e quel silenzio sono tornati a trovarmi. No io non ho niente in comune con te e con la tua famiglia, non vanto nessuna lotta alla mafia, nessuno impegno civile pubblico. Io neppure vivo più a Palermo! Sono andata via per cercare lavoro, per provare a trovare me stessa. Ma da Palermo ti puoi allontanare geograficamente non certo interiormente. Palermo abita le persone non sono le persone ad abitare Palermo.

La solitudine, la rabbia che ha abitato la vostra vita io come faccio ad immaginarla, io che ne so? Cosa ne so di quanto difficili da allora sono stati i vostri giorni, come sono passati i compleanni dei ragazzi, i vostri anniversari, le cene di Natale. Io che ne so. Cosa può essere stata la tua vita dopo quel boato e quella colonna di fumo nero non lo so, non possiamo saperlo e non dobbiamo fare finta di poterlo comprendere. Perchè la finta comprensione del dolore è assai più feroce dell’indifferenza.

Io oggi voglio solo ringraziarti per esserci stata. Ringraziati per la capacità di comprendere quando tacere e quando parlare, ti voglio ringraziare per aver cresciuto i tuoi figli, per esserti sottratta al gioco ambiguo di certa stampa, delle celebrazioni di massa. Ringraziarti per le domeniche pomeriggio passate a combattere solitudine e nostalgia, rabbia e dolore. E ti chiedo scusa, scusa per chi tace la verità sulla morte di tuo marito, ti chiedo scusa per tutte le volte che penso Palermo, i palermitani, la Sicilia, il Sud come luoghi dell’inevitabile, luoghi di una cultura perversa e irreversibile, luoghi malati di un cancro inguaribile. Ti chiedo scusa per quando davanti a questo mostro fatto di economia iniqua, politica corrotta, società sfaldata, mi siedo pensando che quello che sono e quello che voglio non è abbastanza forte per sostenere la battaglia.

Nella lettera che hai scritto a Paolo per il ventesimo anniversario della sua morte ricordi le sue parole ai giovani, parole di lotta, di speranza, di fedeltà. Ricordi che la fine imminente lucidamente attesa non gli ha impedito di compiere fino alla fine il suo dovere, dovere che era per lui una sola cosa con il suo volere, a dimostrazione che la morte è davvero fatto marginale nella storia degli uomini realmente viventi. In quella stessa lettera dici di esserti sentita madre di molti, di coloro che si sanno riuniti da Nord a Sud nel ricordo di Paolo. Io ti prometto Agnese di non deporre le armi. Di cercare dentro ad ogni cosa che farò e che sarò la forza, la voglia di rimanere fedele al bene e alla giustizia.

Riposa in pace. Sostenuta insieme al tuo Paolo, prima di tutto dall’amore dei tuoi figli e poi anche dal nostro, così debole e zoppo, piccolo e impaurito. Adesso che da dove ti trovi conosci la verità e riconosci il senso del tuo patire, sostienici in questa vita, con il tuo silenzio, con la tua presenza.

Ciao Agnese.

Giulia                                                                                                               http://www.youtube.com/watch?v=daJG-BiNPZI

Futuro, passato, presente

[…] Tutto perchè Marco Polo potesse spiegare o immaginare di spiegare o essere immaginato di spiegare o riuscire finalmente a spiegare a se stesso che quello che lui cecava era sempre qualcosa davanti a sé, e anche se si trattava del passato era un passato che cambiava man mano egli avanzava nel suo viaggio, perchè il passato del viaggiatore cambia a seconda dell’itinerario compiuto, non diciamo il passato prossimo cui ogni giorno che passa aggiunge un giorno, ma il passato più remoto. Arrivando ad ogni nuova città il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva più d’avere: l’estraneità di ciò che non sei più o non possiedi più t’aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti.

[…] Ormai, da quel suo passato vero o ipotetico, lui è escluso; non può fermarsi; deve proseguire fino a un’altra città dove lo aspetta un altro suo passato, o qualcosa che forse era stato un suo possibile futuro e ora è il presente di qualcun altro. I futuri non realizzati sono solo rami del passato: rami secchi [….] Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà.

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(foto di Gabriele De Micheli)