Eccoci qui, difatti.

 

Foto di Manish Swarup

Foto di Manish Swarup

POLO: – … Forse questo giardino affaccia le sue terrazze solo sul lago della nostra mente…

KUBLAI: – …e per lontano che ci portino le nostre travagliate imprese di condottieri e di mercanti, entrambi custodiamo dentro di noi quest’ombra silenziosa, questa conversazione pausata, questa sera sempre eguale.

POLO: – A meno che non si dia l’ipotesi opposta: che quelli che si arrabattono negli accampamenti e nei porti esistano solo perchè li pensiamo noi due, chiusi tra queste siepi di bambù, immobili da sempre.

KUBLAI: – Che non esistano la fatica, gli urli, le piaghe, il puzzo, ma solo questa pianta d’azalea.

POLO: – Che i portatori, gli spaccapietre, gli spazzini, le cuoche che puliscono le interiora dei polli, le lavandaie chine sulla pietra, le madri di famiglia che rimestano il riso allattando i neonati, esistano solo perchè noi li pensiamo.

KUBLAI: – A dire il vero, io non li penso mai.

POLO: – Allora non esistono.

KUBLAI: – Questa non mi pare una congettura che ci convenga. Senza di loro mai potremmo restare a dondolarci imbozzoliti nelle nostre amache.

POLO: – L’ipotesi è da escludere, allora. Dunque sarà vera l’altra: che ci siano loro e non noi.

KUBLAI: – Abbiamo dimostrato che sei noi ci fossimo, non ci saremmo.

POLO: – Eccoci qui, difatti.

 

Libertà va cercando…

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Or ti piaccia gradir la sua venuta: 
libertà va cercando, ch’è sì cara, 
come sa chi per lei vita rifiuta.                                        

Tu ‘l sai, ché non ti fu per lei amara 
in Utica la morte, ove lasciasti 
la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara.

Dante Alighieri, Purgatorio Canto I, 72-75

“…l’abitudine della libertà e il coraggio di scrivere…”

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Quando vi chiedo di scrivere più libri vi sto incitando a fare qualcosa che contribuirà al vostro bene e al bene del mondo intero. Come giustificare questo istinto o questa fede, non saprei, giacchè i termini filosofici, se non si è stati educati in un’università, possono facilmente tradirci.

Che cosa significa “la realtà”? Sembra essere qualcosa di molto impreciso, che ora si può trovare in una strada polverosa, ora in un pezzo di carta sul marciapiede, ora in un narciso al sole. Illumina un gruppo in una stanza e incide una parola che è stata detta a caso. Ci sopraffà mentre torniamo a casa, camminando sotto le stelle, e fa sì che il mondo silenzioso diventi più reale di quanto non sia il mondo delle parole; e poi la si ritrova di nuovo sull’imperiale di un autobus, in mezzo allo strepito di Piccadilly. D’altra parte, a volte sembra nascondersi dietro forme troppo lontane perchè ci sia possibile capire la loro vera natura. Ma qualunque cosa essa tocchi, viene fissata e resa permanente. È questo che ci resta, quando abbiamo gettato dietro la siepe la buccia vuota del giorno; è questo che ci resta del tempo passato, dei nostri amori e delle nostre avversioni. Orbene lo scrittore, mi sembra, ha la possibilità di vivere, più di quanto possano vivere gli altri, in presenza di questa realtà. Il suo compito è trovarla, raccoglierla e comunicarla agli altri. Così almeno posso dedurre dalla lettura di Lear, di Emma o Alla ricerca del tempo perduto. Giacchè la lettura di questi libri sembra eseguire una curiosa operazione generativa sui nostri sensi; a lettura finita vediamo più intensamente; il mondo ci sembra finalmente svelato e animato da una vita più intensa. Invidiabili sono le persone che vivono in conflitto con l’irrealtà; da compatire invece quelli che vengono colpiti in testa da ciò che hanno fatto, senza sapere e senza curarsene. […]

Vi ho gia detto che Shakespeare aveva una sorella; ma non la dovete cercare nelle biografie del poeta. Ella morì giovane; ahimè, non scrisse mai una parola. Giace seppellita là dove si trova oggi la fermata degli autobus, presso Elephant and Castle. Ora io credo che questa poetessa, che non scrisse mai una parola e venne sepolta presso un incrocio, viva ancora. Vive in voi e vive in me, e in molte altre donne che non si trovano qui questa sera, perchè stanno a casa a lavare i piatti e a far dormire i bambini. Tuttavia essa vive; perchè i grandi poeti non muoiono; sono presenze perenni; hanno bisogno soltanto di un’oppurtunità per tornare fra noi, in carne ed ossa. Ora, questa oppurtunità, mi sembra siete finalmente in grado di offrirgliela voi. […]

Se abbiamo l’abitudine della libertà e il coraggio di scrivere esattamente ciò che pensiamo; se usciamo un attimo dalla stanza comune di soggiorno e vediamo gli esseri umani non sempre in relazione l’uno con l’altro bensì in relazione con la realtà; e anche il cielo e gli alberi o ciò che si voglia; se guardiamo oltre lo spauracchio di Milton, poichè nessun essere umano ci può chiudere la visuale; se guardiamo in faccia il fatto, poichè si tratta di un fatto, che non c’è un solo braccio al quale appoggiarsi, ma che dobbiamo fare la nostra strada da sole e che dobbiamo essere in relazione con il mondo della realtà e non soltanto con il mondo degli uomini e delle donne, allora si presenterà finalmente l’opportunità, e quella poetessa morta, che era sorella di Shakespeare, ritornerà al corpo del quale tante volte ormai ha dovuto spogliarsi. Attingendo la sua vita dalla vita di quelle sconosciute che l’hanno preceduta, come prima di lei fece suo fratello, nascerà la poetessa. La possibilità tuttavia che ella possa nascere senza quella preparazione, senza quello sforzo da parte vostra, senza quella decisione che ci vuole perchè una volta rinata ella possa vivere e scrivere il suo poema, è comunque da scartarsi, poichè ciò sarebbe assolutamente impossibile. Ma io sostengo che ella arriverà, se lavoriamo per lei; e che lavorare così, sia pur nella povertà e nell’oscurità, vale la pena.

 Da Una stanza tutta per sè di Virginia Woolf

Un presente vistoso e invivibile

(foto di Paola Leonardi)

(foto di Paola Leonardi)

– Io parlo parlo, – dice Marco, – ma chi m’ascolta ritiene solo le parole che aspetta. Altra è la descrizione del mondo cui tu presti benigno orecchio, altra quella che farà il giro dei capannelli di scaricatori e gondolieri sulle fondamenta di casa mia il giorno del mio ritorno, altra ancora quella che potrei dettare in tarda età, se venissi fatto prigioniero da pirati genovesi e messo in ceppi nella stessa cella con uno scrivano di romanzi d’avventura.
Chi comanda al racconto non è la voce: è l’orecchio.
– Alle volte mi pare che la tua voce mi giunga da lontano, mentre sono prigioniero d’un presente vistoso e invivibile, in cui tutte le forme di convivenza umana sono giunte a un estremo del loro ciclo e non si può immaginare quali nuove forme prenderanno. E ascolto dalla tua voce le ragioni invisibili di cui le città vivevano, e per cui forse, dopo morte, rivivranno.

Le spine dei fichidindia…

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Le spine dei fichidindia...

Le spine dei fichidindia
sulla siepe, il tuo corpetto strappato
appena azzurro e nuovo, un dolore
al centro del cuore scavato,
forse a Lentini vicino la palude
di Iacopo notaio d’anguille
e d’amori. Che cosa racconta
la terra, il fischio dei merli
nascosti nel meriggio affamato
di frutta dura di semi
viola e ocra. I tuoi capelli
sulle orecchie in tempesta
che non si svegliano ora, capelli
d’acquarello, di colore perduto.
Un’anfora di rame su una porta
luccica di gocce d’acqua
e fili rossi d’erba.

(S.Quasimodo)

Sonetti a Orfeo (XIII)

(Piet Mondrian, L'albero grigio, 1911 olio su tela)

(Piet Mondrian, L’albero grigio, 1911
olio su tela)

Anticipa ogni addio, quasi già fosse alle tue spalle,
come l’inverno che ora se ne va.
Perché c’è tra gli inverni uno così infinito
che, se il tuo cuore sverna, resiste ormai per sempre.

Sii sempre morto in Euridice, e innalzati
fino al Rapporto puro, con più forza cantando,
celebrando.
Qui tra effimeri sii, nel regno del declino,
un calice squillante che squillando già s’infranse.

Sii, e la condizione del Non-Essere al tempo stesso
sàppila,
questo fondo infinito del tuo interno vibrare,
perché s’adempia intera in quest’unica volta.

Alle risorse esauste, alle altre informi e mute
della piena natura, alle somme indicibili,
te stesso aggiungi, in gioia, e pareggia il conto.

Risvegli

Furia.
Moto ondoso e convulso
Nero mare in tempesta
schiuma violenta,
rifiuta l’ipocrito dire,
nome divino su labbra vane.

Piccoli uomini e donne vestiti da giganti
al timone di coscienze
bava di potere, lupi con manto d’agnello
imparate ad usare il cuore
che tenete prigioniero in stiva.

Rinnega te stesso, t’illudi
tu che sei estraneo al tuo corpo
anima abusiva nella carne di Dio.
Imparate ad avere il corpo!
Che tenete prigioniero in stiva.

Per la vostra anima candida
sgozzate
mani d’artiglio tra le viscere
di creature del giorno sesto,
immagine e somiglianza
in frammenti dispersi.

Furia di cuori ribelli
armati di rabbia subita
sangue d’errore e peccato, noi.
Testimoni, servi di Dio
brama d’umiltà, ghigno malvagio.

Furia di cuori ribelli,
passione, fiato
arti bloccati dal fango
miseria
superbia per risalire,
montagne di disperazione
noi, corpo, desiderio che esplode
follia
noi, eccesso e bestemmia.

Furia di cuori ribelli,
grida
urla dal fuoco,
il Nome, Eserciti e Schiere su labbra violate
dalle vostre parole violente.
Collare da schiavo alla gola di Dio.

Pietà
a riempire lo squarcio
dannati ma umani,
nascosti dall’ombra
di voi fantasmi
involucri vuoti.
Noi, raggiunti
da sangue e salvezza.
Voi, angeli dalle piume morte.
Pietà.

Sono stato me stesso. E gli altri, tutti gli altri che potevo essere.

[Avviate il video, amici. E poi, poi, cominciate a leggere]

Sapesse le cose che ho visto con gli occhiali dell’anima:
ho visto i contrafforti di Orione, lassù nello spazio infinito.
Ho camminato con questi piedi terrestri sulla croce del sud.
Ho attraversato notti infinite come una cometa lucente.
Gli spazi interstellari dell’immaginazione, la voluttà, la paura
e sono stato uomo, donna, vecchio, bambina.
Sono stato la folla dei grandi boulevards delle capitali dell’occidente,
sono stato il placido Buddha dell’oriente.
Sono stato me stesso. E gli altri,
tutti gli altri che potevo essere.
Ho conosciuto onori e disonori,
entusiasmi, sfinimenti.
Ho attraversato fiumi e impervie montagne,
ho guardato placide greggi
e ho ricevuto sul capo il sole e la pioggia.
Sono stato femmmina in calore,
sono stato il gatto che gioca per strada,
sono stato il sole e la luna. E tutto.
Perchè la vita, non basta.
La vita, non basta.

Antonio Tabucchi
Gli ultimi tre giorni di Fernando Pessoa

Amore che io ho la disgrazia di sentire…

Pasolini a Gennarino

Sappi che negli insegnamenti che ti impartirò, non c’è il minimo dubbio: io ti sospingerò a tutte le sconsacrazioni possibili, alla mancanza di ogni rispetto per ogni sentimento istituito. Tuttavia, il fondo del mio insegnamento consisterà nel convincerti a non temere la sacralità e i sentimenti di cui il laicismo consumistico ha privato gli uomini, trasformandoli in brutti e stupidi automi, adoratori di feticci.
Chi accetta realisticamente una trasformazione che è regresso e degradazione vuol dire che non ama chi subisce tale regresso e tale degradazione cioè gli uomini in carne ed ossa che lo circandano. Chi, invece, protesta con tutta la sua forza, anche sentimentale, contro il regresso e la degradazione, vuol dire che ama quegli uomini in carne ed ossa, amore che io ho la disgrazia di sentire e che spero di comunicare a te.

Il video è tratto da “La voce di Pasolini” Documentario – 2006
Il testo è tratto da “Lettere Luterane. Il progresso come falso progresso” –  P. Pasolini – 1° edizione 1976

Aprire la finestra al mattino…

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Aprire la finestra al mattino...