Redenti dal racconto

(foto di Matt Weber)

(foto di Matt Weber)

Ieri ho passato la giornata sui mezzi pubblici. Bus, tram, metro. Ho attraversato la città. Ho incrociato una quantità di persone che non so quantificare e sono passata attraverso pensieri numerosi e diversi. Sui mezzi in movimento i pensieri diventano spaziosi. E non so perchè. Eppure accade, così. Fin dai tempi in cui il sabato sera si andava, tutta la famiglia, in campagna, e in macchina, poggiavo la testa al finestrino e guardando fuori mi pareva di poter arrivare ovunque. Il mondo prende un ritmo diverso, veloce, le figure si sfumano, si allungano. Non esiste pesantezza nè lentezza.

Viaggiando sui mezzi, a Roma, si incontra tanta gente. Spesso capita di intercettare frammenti di conversazione, litigi, racconti, indicazioni. A volte ci sente uniti da una strana sorta di complicità. In fondo – pensavo ieri, guardando i miei compagni di viaggio, ad uno ad uno  – so cosa mangerai sta sera o perchè il capo ufficio ti ha fatto perdere la pazienza; so cosa hanno detto i prof sul rendimento di tuo figlio oppure cosa ha fatto quello stronzo con cui sei uscita l’altra sera. I mezzi pubblici sono una condivisione anonima ed estrema della vita. Anche chi concede i suoi occhi soltanto allo smartphone partecipa qualcosa di sè al resto dell’equipaggio. C’è chi scorre il dito sullo schermo con ritmo convulso e disordinato. E mentre lo fa sorride o cruccia le sopracciglie. Oppure si invia un messaggio e poi si sospira passandosi le mani tra i capelli. E  si capisce, allora, quanto sia difficile il momento. Spesso mi diverto a leggere i titoli dei libri di chi in metro entra già con le pagine aperte sotto gli occhi e cerco di capire, un poco almeno, a seconda dei titoli, le persone. Sui mezzi pubblici ci sono veri e propri equilibristi, capaci di rimanere in piedi, con i libri in mano, nonostante le frenate da paris dakar. All’ora di punta arrivano i professionisti con quello strano odore che solo le 8 ore di ufficio lascia addosso. Hanno il corpo dentro ad un vestito da riunione importante, al collo la cravatta e la faccia che si scioglie, piano piano, man mano che la strada li riconduce a casa: da facce dure a facce stanche. Ci sono anche brutte facce sui mezzi pubblici, sguardi da non incrociare, occhi infelici affamati di rabbia. Turisti, immigrati, anziani. Ci siamo, tutti. Come un appello senza assenti. Tutti presenti, tutti diretti alla stessa meta ma ciascuno su una rotta diversa.

A volte, invece, ci sente soffocare. Tutto appare squallido: bus, strade, persone. C’è chi spinge, c’è chi urla, chi pesta i piedi e chi puzza. I mezzi pubblici divorano il buon umore e ne sputano i resti agli angoli delle strade. Ieri però il bus andava, procedeva verso la sua meta, scaricando uomini e donne qua e là, ed io ascoltavo musica. Con le cuffie, si, la mia musica, quella che più amo. E mi sono accorta che la musica cambia lo sguardo, lo trasfigura. Cambia la faccia alle persone e la trasforma proprio dentro, davanti ai nostri occhi. Mi è accaduto di pensare che ciascuna delle persone che avevo accanto fosse una storia. Si, una storia, bella o triste, tragica o violenta. E ho pensato che se ci si accostasse alla vita della gente, e forse anche alla propria, con la stessa curiosità e attenzione che riserviamo ai protagonisti dei libri che leggiamo, sarebbe meno duro l’essere uomini tra gli uomini.

Ho pensato che ogni vita ha il diritto di diventare storia: trasfigurata dalle parole, salvata dalla narrazione, redenta dal racconto. Ogni vita dovrebbe passare dalle parole per essere compresa, come una rivelazione di sé a se stessi, prima di tutto. E non è certo il parlarsi addosso o l’imporsi, la violenza di chi non vede oltre la propria vicenda, perchè il racconto è sempre condivisione, la privazione di qualcosa. Le parole sono azione coraggiosa, il rischio dell’affidarsi e lasciarsi custodire da qualcuno. Quando una vita diventa storia e la storia è raccontata con le parole giuste ci si commuove, si sa. Il racconto non è  cronoca nera. Forse per questo certe notizie ci turbano, per la violenza delle cose accadute, certo, ma anche per l’assenza di narrazione, per la ricerca morbosa di particolari che si impongono sulla vita, che si sostituiscono alla trama, che inghiottono tutto. La trama è il filo che costituisce la parte trasversale del tessuto ed è un intreccio che non può essere sciolto se non si vuole rinunciare al tessuto, tutto intero. E se la musica trasfigura gli occhi e le parole trasformano le vite, chissà cosa accadrebbe se musica e parole fossero alla portata di tutti.

Penso a quando, tra amici si dice: “Ci sentiamo più tardi, devo raccontarti una cosa!”. Non fare la cronoca di un momento della giornata, ma raccontare, riuscire a far entrare l’altro nella trama della propria vita, dare spessore ai personaggi, permettere di vivere e condividere quello che si è vissuto. Per questo non si può raccontare tutto a tutti.

Un buon narratore però, deve saper usare la punteggiatura. Perchè le pause e i silenzi fanno la storia tanto quanto le parole. Senza il silenzio non c’è attesa e senza attesa nessun desiderio.

Le vite più dure sono quelle senza parole. E i drammi più grandi quelli nei quali la comunicazione si interrompe e muore. Niente ci fa soffrire quanto l’attendere da chi amiamo parole che non arrivano, niente come non saper dire le parole che pure sappiamo di possedere. I personaggi dei racconti non sono certo interscambiabili. Senza questo o quel personaggio la storia prende una direzione differente, la trama si infittisce o si allarga e spesso si è costretti ad un finale imprevisto.

Spasimo

Spasimo, spasimare, spasimante. Parola appesa a radici lontane: Stendo, stiro, strappo. Radice europea a doppia punta. Biforcazione che trattiene di un solo ceppo due significati: dolore e desiderio. Essere in preda a spasimi, a dolori molto forti e acuti, e, insieme, desiderare ardentemente/preso dagli spasimi d’amore.

31 dicembre, ultimo giorno dell’anno, gocce che scendono giù lentamente, dopo fiumi d’acqua veloce. Palermo, tutta grigia e bagnata. Sono entrata in macchina, decisa a ritagliarmi tra i drappi festosi delle vacanze uno scampolo di solitudine, un residuo d’intimità, prima di rimpizzare la valigia con i pezzi trasportabili della mia vita e rimettermi in viaggio sulla rotta di un futuro dallo sguardo precario e dai lineamenti incerti.

Palermo senza traffico è privilegio di fine anno. Il Cassaro scorre sotto le ruote della macchina e i palazzi di corso Vittorio strisciano lentamente sul viso mentre procedo in avanti a 30 all’ora. Ai Quattro Canti, i turisti sono pesci surgelati avvolti in plastica impermeabile blu e avanzano, con gli occhi in su, pronti ad abboccare agli sguardi severi delle statue nere di smog. Agli angoli le carrozze immobili sulla schiena di vecchi cavalli dai cappelli rosa e plaid scozzesi sotto il culo di cocchieri senza scuola e parole, abili nel farsi comprendere da facce straniere, a forza di sguardi e mani volteggianti nell’aria. Sembrano personaggi di un film drammatico, cominciato a Palermo secoli fa e ancora lontano dalla fine del Primo Tempo. Da Porta Felice il mare annuncia nera la sua presenza. L’orizzonte si riposa dagli sguardi che sempre lo cercano avidi di spazi, dietro un cumulo di nuvole grigioblu. Eppure è immobile il mare e alla Cala le barche a vela sembrano tutte poggiate sopra la mensola di vetro di un grande appartamento. Scendo, un attimo. Mi volto verso Santa Maria della Catena che sta lì, staccata dalla terra grazie ai suoi gradini di pietra e con le spalle al mare, ha l’aria di chi sa d’essere al sicuro da tutto, con quella fierezza spavalda che solo l’esperienza sa dare, dopo aver affrontato la paura innumerevoli volte.

Sono diretta dove non mi reco da tempo. Tanto tempo. Tempo sufficiente a confondere le traverse e far perdere la strada. Posteggio la macchina a Piazza Marina, lancio uno sguardo complice al Ficus dalle mille braccia a tener stretta la terra, mi fermo davanti a Palazzo Steri. La piazza è un cantiere di polvere e sacchetti di spazzatura in cerca di patria, mi scivola dietro le spalle e mi lascio inghiottire dalle viscere di viicoli sottili. Per le strade soltanto camerieri, davanti a porte di locali, a fumar sigarette, una pausa nel ritmo frenetico della preparazione per la notte dal conto alla rovescia. Cesserà il silenzio e sarà guerra di petardi e scorrere di spumante in vena.

Molte vie del centro storico hanno la faccia nuova, pulita e si affacciano sulle balate antiche con l’orgoglio di una lenta e sudata resurrezione. Dai balconi aperti si sente il brusio di opere in corso. Pentole sul fuoco e litri di capuliato in cui gettare numerosi e piccoli salvaggenti di grano duro. Giro angoli, scopro strade. Da una traversa arriva il grido deciso di una madre: “Salvatoreeee, unni si, disgraziatu, arricampati dintra!”. Le donne in certe strade di Palermo hanno voci potenti di tuono.

L’ho ritrovata. Entro. Trattengo il respiro. Non c’è nessuno. Mi sento come il burattino dentro al ventre della balena. S. Maria dello Spasimo, in ricordo della “Madonna che soffre dinanzi al Cristo in croce”.

WP_001699Chiesa commissionata e mai portata a termine. Senza fine, come il dolore della Madre davanti al figlio che muore. Pietre. Una sull’altra a toccare il cielo. La testa si piega all’indietro a cercare il confine tra le mura e le nuvole. Gigante antico in rovina sopra la carne viva e fragile della mia presenza. Carezzo con la mano la linea immaginata sul muro. Percorro l’intero perimetro, lentamente, cercando di ritrovare il canto dei monaci, le musiche degli attori, il lamento degli ammalati, la rassegnazione dei poveri, l’odore del grano. Convento, teatro, lazzaretto, ricovero, magazzino. Identità cangiante, mai definita, mai definitiva. Abbandonata, amata, celebrata, dimenticata. Spasimo, dolore e desiderio. Mi fermo, al centro, alzo le braccia, distendo le dita delle mani per toccare idealmente gli archi sventrati che mi sovrastrano per decine di metri. “Dove sono, dove sei?”, balbetto con voce sommessa, senza un tu definito a cui rivolgermi: io, lui, Dio, la città, la vita.

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Desiderio e dolore di terra, radici di parole antiche ed esperienza di uomini, ieri e oggi e per sempre. Spasima la mia città, che cerco senza trovare, che desidero senza toccare, che scelgo, senza restare.

WP_001694Santa Maria dello Spasimo. Alluvioni e terremoti a sommergere e distruggere le pietre, sommersa nella città cieca fino alla resurrezione sulle labbra dei palermitani, il loro stupore sotto strati spessi di ruggine, in mezzo al niente di una città tutta da rifare, ieri e oggi e per sempre.

Palermo, finestre murate, balconi forti di ferro, pavimento d’aria per cadere nel vuoto di rivoluzioni addensate nei grumi di sangue dei tuoi martiri. Palermo che costruisci le case ai cani nelle strade povere e ti nutri di polvere antica nel tempo che passa senza azione, appoggiata ai muri.

SPASIMO

Se avessi avuto, io, un cuore di cane

Foto di © Vincenza Tomasello

Foto di © Vincenza Tomasello

30 dicembre 2013 ore 7.15. Come ogni mattina ho acceso il pc e aperto le pagine dei quotidiani. Schumacher è in coma, la Russia muore di rabbia e si illude di punire i tiranni bruciando di fuoco i figli innocenti; la terra trema a Napoli, l’Etna esplode di forza sotteranea, di magma incontenibile; 151 bambini muoiono, ad Aleppo.

Tutto è lì davanti ai miei occhi, tutto è lì, troppo distante dalle mie mani. Clicco, leggo, scorro le parole, le pubblicità accendono di luci lo schermo – “Guarda noi, pensa a noi!” – sembrano dirmi. E poi, poche righe, in un angolo, senza spessore. E i miei occhi ci si schiantano, contro: “Morto per freddo un senza tetto a Palermo”. Per freddo? A Palermo? –  Mi chiedo, d’istinto –  La domanda rimbomba, eco nello spazio vuoto tra il mio corpo e il vecchio pigiama di pail ormai troppo grande, per me.

Mi inoltro tra quelle parole senza enfasi di notizia, briciole di cronaca locale che cadono giù dalla bocca affamata e vorace del mondo. Guardo la foto di quella montagna, cima irragiungibile, di coperte e cartoni. Guardo. Sembrano tutte uguali queste catene montuose agli angoli delle strade: stracci, sacchetti, cani e cartoni; senza segnaletiche per indovinare identità, la storia di chi ci vive, sotto. Questa volta, però, le coperte sono  paesaggio familiare. Io le ho viste, con gli occhi miei, non da dietro uno schermo, ma in diretta, dall’obiettivo dei miei passi frettolosi, distratti. Sono passata, io, da lì. La sera prima. Ed era tutto come nella foto. E ancora, nella foto, il cane sta lì, così, seduto ai piedi di quella catena montuosa di lana e carne, fermo, serio, come un soldato. Io sono passata, da lì.
E il passo ha rallentato, di poco. Solo il tempo per cercare gli occhi della persona accanto a me, scambiare con lui uno sguardo, triste, cercare conforto nei suoi occhi belli e poi…e poi andare, oltre.

E ora, ora cerco in modo frettoloso e disordinato, dentro di me, motivi credibili di assoluzione, mettendo tutto l’animo in disordine. Non trovo niente. Niente di credibile, nessun avvocato che mi difenda, niente che valga la vita di un uomo.

Forse era già morto. Era tutto così immobile dentro ai tornanti di quelle montagne. Forse. Ma i passi non si fermano davanti alla morte? Si. Non i miei, però. Forse era ancora vivo. E ancora lo sarebbe se avessi saputo interpretare l’indugiare dei muscoli, il frenare delle ossa dentro ai miei piedi. Se avessi ascoltato il mio corpo! Se avessi dato ascolto a quel velo che mi ha scurito gli occhi di una tristezza sapiente, umana, istintiva! Sarebbe ancora vivo. Forse.

E continuo, in modo concitato, con il fiato spezzato e gesti veloci, a cercare ragioni, scuse, perdono: Cosa potevo fare! E’ pericoloso, spesso, avvicinarsi a questa gente! Posso mica fermarmi davanti ad ogni povero? Posso mica fermarmi davanti ad ogni povero….Posso mica fermarmi…posso…ogni povero…io…non posso…ogni….non posso….ogni povero.

“Secondo una prima ricognizione sul corpo il cadavere appartiene ad un uomo di una sessantina d’anni”. Spedizione di esperti sul territorio di carne d’un uomo solo. Adesso, che sei morto, ci raduniamo attorno a te. Avvoltoi coraggiosi su corpi senza vita, uomini spaventati da barriere di cartone.

Se avessi avuto, io, un cuore di cane…

Nutrire speranza

(Foto di P. Muller)

(Foto di P. Muller)

NUTRIRE, deriva dalla radice na-, nu- = colare, stillare. Presa similitudine dal latte che sgorga dal seno della nutrice. Alimentare, mantenere, far crescere.

SPERANZA, dal latino – spes = aspirazione o anche dall’anglosassone – spuon,
– spowan = succedere. Intender con l’animo verso un bene futuro
e quindi stare in attesa di una qualche cosa desiderata.

Auguri da Eufemia.

Nuda è la strada

WP_001416Serve. A volte, serve. Riporre in un cassetto la meta, la sua ricerca, la fatica di raggiungerla, indossare il cappotto, i pantoloni di velluto che fuori è freddo, un paio di vecchie scarpe, e uscire.
Senza destinazione o scopo. Uscire. E basta. Volontaria perdita di direzione, complice magari la spossatezza per un sabato sera finito alle tre del mattino, il sonno, il mal di gola per il freddo preso sul motorino, nonostante i 25 Km all’ora. Roma la notte sottrae gente alle strade, se si va dal centro alla periferia. Si resta in pochi. E sotto casa in due, fino a tardi, perchè tanto ormai il freddo s’è già preso tutto, ma le cose da condividere non si esauriscono, mai. Forse è la speranza che l’altro possieda il pezzo mancante per intuire il soggetto del puzzle: pezzi sempre dispari tra le mani. Al freddo, stanchi senza sonno, a ragionar sull’irragionevole terrore che fa la felicità a portata di mano, con la vita e l’età che rincorrono e il fiatone a dar ritmo anomalo ai polmoni, ogni giorno. Camminare per la città, con l’ago della bussola ebbro di vino, che gira impazzito, posseduto dal desiderio di andare, ovunque. Tutte le direzioni possibili, pensando all’amico lontano, e alla sua richiesta di piedi per passeggiare Roma, senza fretta, come nei suoi anni passati. Perchè a Roma si arriva ma da Roma non si riparte mai davvero. Roma ruba pezzi: occhi, cuore, cattura pensieri, trasforma i progetti. E anche se vai via o se resti o anche se poi torni, li ritrovi tutti, i pezzi, parte del paesaggio, tra i mattoni antichi. Così è Roma, cammini, e ritrovi i pensieri in equlibrio precario, funamboli sui fili del tram, occhi fissi, come le colonne diritte dell’impero che svettano ancora dal suolo. Il cuore al tramonto, quando la città si accende,  o fra le rovine antiche, i pensieri, nei cortili dei palazzi a Trastevere. I progetti, nonostante tutto, ancora in piedi, tra le macerie nobili di Torre argentina a render affilate le unghie dei gatti.WP_001406 Roma, ruba pezzi e non li restituisce. Il cielo è terso e le strade son piene di autunno. A Roma l’autunno è invadente. Riveste tutto, alberi, marciapiedi, monumenti. Non c’è scampo. Il buio delle cinque è solo breve passaggio su ponti che si accendono di luce soffusa. Il Tevere nasconde le acque torbide e si veste di riflessi. Inganna. Attende l’inverno, per gonfiarsi minaccioso e imponente d’acqua e di neve lontana. Camminare, senza sapere dove andare e senza smarrimento, ad imboccare viicoli, costeggiare palazzi, girare angoli. Roma è insieme di angoli stretti e piazze immense, è una città priva di misura media, è troppo stretta o troppo ampia, nasconde ed espone, continuamente. Gli addobbi di Natale risvegliano la sua identità pagana e il suono delle campane le ricorda antichi innesti. Roma è tante cose opposte, tutte vive e presenti, è identità multiforme. Pochi passi per attraversare secoli. A volte si cammina con il naso in su, a cercare in alto cupole e terrazze d’edera, altre con occhi bassi a tener il ritmo delle punte dei piedi, passi veloci di fretta perché a Roma si è sempre in ritardo. Altre volte ancora si cammina con sguardo dritto, ad altezza d’uomo, per vedere il mondo venirti contro, facce di luoghi lontani e diversi, davanti, alle spalle, a Roma il mondo circonda, tutto circonda, anche la miseria. Roma è miscuglio d’umanità e cartone di letto umido, è fiato pesante di alcol sul tram, barba dura di sporcizia, stracci e occhi persi chissà dove, chissà quando, accesi di rabbia. Roma è potere e bottega, è politica e bocca di popolo sporca di sugo. Roma si vende, ogni giorno, su bancarelle colorate sotto l’occhio severo di Giordano Bruno, per coprire, oggi come ieri, con  voci di merci e mercanti, le urla di fiamme infami. Umidità sui capelli, gambe stanche, ma camminar così, senza la preoccupazione di sbagliare strada ridà forza, rinsalda i muscoli. WP_001539Ogni strada è quella giusta, è il luogo dove si vuol essere. Roma nasconde passaggi segreti, varchi, come aperture di sepolcri antichi, che evitano km sulle arterie principali, scorciatoie di vene periferiche, esse pure cariche di sangue da portare. Quando si passeggia Roma alle porte dell’inverno a sceglier la fine dei passi sono freddo e stanchezza. Basta voltarsi da qualche parte, allora, per trovare le porte di una chiesa e riposare, porte aperte, senza troppe pretese.  Accoglienza anonima di spirti randagi, fiammelle senza nome, tepore al corpo nudo di chi ha tanto camminato a mendicare incontri. Casa, è sera. Piove. La meta riposta in un angolo scalpita per essere cercata, chiama. Il tram fischia sulle rotaie e nelle orecchie note e parole per accompagnare il fluire lento e costante del ritorno.

È così che accade, ogni tanto, la notte.

(foto di Luca Nizzoli Toetti)

(foto di Luca Nizzoli Toetti)

È così che accade, ogni tanto, la notte.

Di dover andare a dormire, ma di non riuscirvi, di sentire insonnia ribelle muovere guerra al riposo necessario ad alzarsi, domani.

È frammento di caos primordiale, impossibile staccarlo di dosso. Polvere di bing bang ad annodare i capelli, scheggia incastrata, in circolo nelle cellule, che si muove, su e giù, sotto e sopra, tra cascate di sangue in piena, tremar di vene al passaggio.

Devi dormire, lo sai. Sai che domani l’alba arriverà, risuonare arrogante di sveglia e maledirai il caos, il magma, il fuoco e il sangue, e cercherai tu, disperata-mente, di star bene al mondo. Cercherai quiete, vita, presente per forza.

Eppure, accade, la notte, che assalga il dubbio, di pensare bugiardo il riposo di membra e di ignorare disinvolto il mattino. Nella notte accade pensare che ci sia, altrove, una vita diversa dove ogni cosa è tesa allo sforzo di generare la versione vera di te. Sudore, sangue, squarci di placenta, urla di dolore. Non è guerra, non è miseria né morte. È la vita che si dimena nel desiderio insostenibile di averti. Di avere te, di possedere te e nessun altro al tuo posto.

La vita, che si consuma di desiderio, che geme, solitudine insostenibile la nostra assenza. Non più tu a patire incomprensione, non più tu a smussare angoli senza sosta per riuscire ad entrare dove, credi, tutti ti attendano, fatica, e semina di desideri altrui.

No, non più tu a voltarti ad ogni passo, non più tu a tender l’orecchio, a raffinar l’udito, speranza di sentire corse ansiose, scalate a nude mani su punta di roccia, pur di veder te, e nessun’altro al tuo posto.

La vita, sentinella senza cambio di guardia nè sonno, sguardo teso come freccia a puntar l’orizzonte, pronta a scoccare veloce, a tagliar l’aria, silente e decisa, per passarti accanto, sfiorare.

Occhi furtivi e capriole di ruoli, spiarle in faccia lo sconforto, lo sguardo fisso alle spalle, attesa sfinita del tuo volto. Ma, poi, riconoscere nel suo sconforto la delusione dell’attesa, la tua di lei, sentir fremiti di pietà e voltarti di scatto ad acchiappar l’istante, amore e sorpresa. La vita, sguardo affamato di incontro. Non più tu a correrle dietro, a cercar le tracce del passaggio, non più tu ad attendere ore, moltiplicazioni di giorni, panchine fredde e ruggine su palmi di mano.

Il sonno preme, spinge di spalla, si getta di peso, e invece resisti e speri che il magma non torni a scavare rifugi codardi di tenebre. Resisti e speri che il caos rispacchi la terra, brandelli di fuoco all’intorno, confini come briciole. Andare, ovunque. Nessuna licenza. Poter essere niente, assenza di sforzo nel diventar qualcosa, rinunciando a qualcos’altro. Tutto è tuo e ogni luogo è quello giusto. La vita, non più amputazione d’eccessi, nessun equilibrio. Nessun sentiero diritto, solo cime, solo pendenze.

Siediti composto

(foto di Osamu Yokonami)

(foto di Osamu Yokonami)

Non dovrei affatto star qui a scrivere. Dovrei lavorare alla tesi, stirare, lavare i piatti del pranzo, finire le programmazioni e rifare il letto, magari, così, last minute. Il fatto è che oggi è stata una giornata troppo strana per non raccontarla, una di quelle in cui capita di vedere e ascoltare come dentro ad una visione. Si, una di quelle giornate nelle quali pare di stare al mondo con i cinque sensi spinti al massimo.

Esco di casa e ricordo di aver lasciato sopra il letto la corazza che difende, da tutto, i tappi per le orecchie, il velo sugli occhi.

Corro in macchina, sono in ritardo, accendo la radio, De Gregori è lì e Nino sta ancora imparando a non aver paura di un calcio di rigore. I semafori al mattino sono una metafora perfetta della vita: li vedi verdi, da lontano, accelleri. Ma quando arrivi lì davanti ed è il tuo turno, scatta il rosso, ti fermi. Ad un semaforo pedonale, di quelli che appena il pedone li accarezza con lo sguardo e pensa soltanto di voler premere il pulsante, ti fa piantare i freni sull’asfalto, alzo lo sguardo: da una parte una suora e una mamma con un passeggino, dall’altra una persona anziana e due adolescenti con gli zaini eastpak lenti sulla schiena. Li vedo attraversare ed incrociarsi e mi pare di assistere ad un raffinatissimo gioco di prestigio: la suora al posto degli adoloscenti, l’anziana signora al posto della mamma, scambio di sponda, una di qua, gli altri di là, la suora era giovane, la mamma sarà vecchia, il bambino sul passeggino andrà a scuola, gli adolescenti avranno un bambino. Tutto è veloce, la vita è veloce. Suonano, è verde, riparto.

Arrivo a scuola, posteggio. Ho davanti a me sei lunghissime ore. Io ho sonno, loro hanno sonno. Io non posso dirlo, loro si. Spiego, urlo. Li guardo. Fino alla terza ora rimango salda, tutta d’un pezzo.

Sono adolescenti come lo sono stata anch’io. Oggi, però, siamo su due sponde diverse, , stiamo su due marciapiedi opposti. Mi guardo attorno: nessun semaforo per attuare uno scambio. Interrogo chi era impreparato la scorsa settimana: “Ah prof., ma che sempre a me?”: Mi fermo. Cerco di capire perchè gli sembra assurdo quello che a me appare normale: “Scusa, ma non ti ho detto che dovevi recuperare?”. Silenzio. Poi uno scatto di orgoglio, ci prova: “Lo shabbat ricorda…” – silenzio…silenzio – “ricorda il riposo di Dio dopo la creazione” – silenzio. “Si, giusto, e poi? Cosa fa e cosa non fa un ebreo durante lo shabbat, lo abbiamo spiegato, ricordi? Abbiamo fatto lo schema alla lavagna, ricordi?” – silenzio…silenzio…silenzio. Mi arrendo, interrogo qualcun altro. Un paio di minuti e la vittima dello shabbat mi chiede: “Ah prof, ma quanto ho preso?” – “Eh?” – rispondo io – “Si, perchè?  Non ho risposto?” – dice lui – silenzio…silenzio…silenzio, ed è il mio questa volta.

Suona la campanella. E’ ricreazione. La ricreazione è il fronte. Venti contro uno. Li vedo alzarsi e sfoderare le armi: merendine, pizze rosse, pizze bianche. Vengono verso di me, tutti, compatti, un corpo solo, e ad una sola voce esclamano: “Ah prof., posso anda’ in bagno? E’ urgente!”. Organizzo i turni. Devo guardare tutto, stare attenta a tutto, non devono cadere, non devono farsi male, non si devono strozzare, non devono infilzarsi con le forbici, non devono usare i cellulari, non devono infilarsi i tappi delle penne dentro al naso. Niente pugni, niente calci.

Risuona la campana. Mi aspetta una classe “difficile”. Terza media, ma qualcuno di loro ha la barba. Dovrebbero stare al liceo. E invece sono lì, alla scuola dell’obbligo. “Che espressione triste” – penso. Si sentono obbligati, infatti, si sentono scoppiare. Comincia il mio rosario: “siediti, calmati, fermati, apri il libro, apri il quaderno, siediti composto”. Siediti composto…ho lasciato la mia armatura sul letto e i cinque sensi sono tutti spinti al massimo. Sie-di-ti com-pos-to… La frase mi muore sulle labbra mentre penso a come pranzo e ceno, io. Sul divano, con le gambe incrociate o a terra, con le spalle poggiate al divano. Li guardo. Ripenso alla mia stanza alla loro età. I libri per terra, i vestiti sulla scrivania, le scarpe nell’armadio. La necessità di dare un posto tutto mio alle cose, di cambiare l’ordine dei fattori convinta com’ero che il prodotto sarebbe cambiato. “Siediti composto…”.

Sono in pochi nella mia classe difficile. Circondano la cattedra. Parliamo. Tra un calcio, un cazzotto, un insulto, il più gettonato di sempre: “Tua madre!”. Li convinco: le madri e le sorelle restano fuori dal ring. Prendono in giro il ragazzo rumeno. Sono spietati. Chirurghi dello sfottimento. Con occhio clinico individuano il punto debole e lì affondono la lama, tagliente, amputano ogni forma di dialogo, la possibilità di conoscersi davvero. Infieriscono sulla debolezza altrui per non sentir ringhiare la propria. Li rimetto seduti. Li guardo. Li guardo e penso che non devo dimenticare mai più la mia corazza sul letto. Provo a far parlare loro. Parlano. Parliamo di rabbia. Chiedo cosa li fa arrabbiare, come fanno a smaltirla, loro, la rabbia. “Quanno è morto mi nonno, ho dato un pugno ar finestrino de na macchina. S’è rotto, me so rotto anch’io. Me uscito tutto er sangue, ma non me so fatto male prof., non sentivo dolore, solo la rabbia”. Silenzio…silenzio. “Ah prof., quanno è morta mi madre io nun ce so andato ai funerali. So andato a scola. Sette anni c’avevo ma me la ricordo pure ora, era dentro a bara, era tutta bianca prof., me so arrabbiato io, so andato a scola”. Silenzio.

Quando sono arrabbiati, devono “mena’ quarcuno” – mi dicono. “Se uno me insulta io gli meno a prof., e che devo fa?”. Le mie orecchie ascoltano, i miei occhi vedono. “Ah prof., ma a casa s’arrabiano con noi, mo’ basta che sbatti na porta e stanno tutti a strilla’! L’altra vorta mi padre mi ha detto: aò, sarvanno to madre sei proprio un figlio de na mignotta”. La realtà allarga le sue maglie, io socchiudo gli occhi, guardo attraverso, li vedo. “Ah prof., ma uno se deve sfoga’. Mi padre ad esempio, quanno va o stadio, se porta e bandiere, e poi però ce leva a bandiera e se mette sotto braccio er bastone! Ah prof., a o stadio ce  stanno e guardie, mica pe niente, è per precauzione”.

Fuga, da ogni cosa

Gridava forte, il treno, la sua selvaggia disperata nota: come se la fiera macchina sapesse che, dopo tanti sforzi furibondi, brucianti, dopo tanta ruggente, lampeggiante fatica, i suoi dominatori umani sarebbero discesi a destinazione sempre uguali, sempre schiavi, a fronteggiare là come altrove le goffe commedie della vita.

Rabbiosamente esultava il treno lungo la brillante parallela delle rotaie che si allargavano sotto le grandi ruote per restringersi subito, davanti e dietro. I pali del telegrafo gli si precipitavano incontro, balzando su come alti uomini minacciosi; ad uno ad uno venivano abbattuti, e fuggivan via. Snodando agili pistoni, soffiando getti di argenteo vapore la macchina ruggiva, gloriosa nel suo compito, gloriosa nella sua cieca fedeltà, nella sua passione…Poco le importava che tutto sarebbe stato da rifare, in opposta direzione, il giorno dopo.

Joyce, in piedi nel vestibolo della vettura Godiva, stava fumando una sigaretta. Vi era rimasta durante la maggior parte del viaggio, giacchè, in treno, la sua fantasia diventava sempre troppo attiva per permetterle di starsene tranquillamente seduta. […] Joyce non pensava mai ai treni come accorrenti verso qualcosa, ma piuttosto come fuggenti da qualche cosa, disperatamente. Quelle grandi eloquenti macchine stavano accucciate e raccolte, pronte alla fuga, simili a grandi belve ansanti di paura. Erano i simboli dell’universale terrore: e lei tremava di eccitamento nel sentire il brivido della fuga…fuga da ogni cosa. […]
La sua mente reagiva con fresca sensibilità alla stranezza dei volti umani, al colore e alla vitalità della campagna, alle forti rigonfie curve delle colline. Sto volando, sto volando, cantava. Sto volando via da un sogno, sono un poco folle. Troppe cose affluiscono alla mia mente, non le può contenere tutte, pensieri di ogni sorta straripano fuor dall’orlo, si perdono per mancanza di posto.

da Tuono a sinistra di C. Morley

Succede, quando si dorme poco

(mokwanggesturefortourist)

(mokwanggesturefortourist)

– Drriin, Drrriiin
– Pronto?
– Si, pronto.
– Scusi chi parla?
– Ciao sono io.
– Io? Io, chi?
– Io, sono il tuo IO.
– Ah.
– Si, volevo dirti…
– Cosa?
– Niente.
– E no, se mi hai chiamato…
– Giusto.
– Allora?
– Che fai sta sera?
– Studio?
– Studi? Di venerdì sera?
– Che fa, non si può?
– Si, certo, per carità.
– Ah, mi pareva. Mi dici che vuoi?
– Niente…mi hanno detto cose…
– Cosa? Chi?
– Mi hanno detto che ti vedi con un altro IO, uno nuovo che mi somiglia un po’, ma è diverso.
– Si, è vero, ci frequentiamo.
– Ah. E…ti ci trovi bene.
– Ma…si. Ci conosciamo poco ancora.
– Capisco. Pensavo andasse bene tra noi.
– Pensavi male. Mi hai creato un sacco di problemi.
– Ah. Non me ne ero accorto.
– Appunto.
– Ma non ti manco, neppure un pochino?
– Beh, a volte si, quando non capisco bene l’altro, mi sento strana, ti penso.
– Posso sperare di tornare con te?
– No, non farti illusioni. L’altro non lo conosco ancora bene, si, ma mi piace.
– A me sembra pallido, troppo debole.
– Si, è mingherlino, ma diventarà robusto, piano piano.
– Ti vedo coinvolta.
– Lo sono.
– Ma hai un’aria stanca.
– Si, è faticoso stargli dietro: si nasconde, fa il prezioso. Non si fa sentire per giorni. Ma poi, quando ci troviamo, è bello.
– Capisco. Allora…niente.
– Niente…
– Ci si vede.
– Si, magari, capiterà.
– Ok. Magari…
– Ciao.
– Ciao.

Rivugghiu d’acqua

M’assettu nta la rina a taliari l’unni di lu mari:
rivugghiu d’acqua che cu lu ventu fa all’ammuri.
Mi grapissi lu pettu pi ghiccarici lu cori
dintra sta raggia d’acqua e sali.
Cori marturiato comu lu mari
di ventu arriminatu,
fatti ammuttari
fatti annacari comu un nutrico
fatti ncuietari mezzu la spuma.
E poi, quannu scura,
quannu u lustru n’abbanduna
torna dintra lu me pettu,
ammucciati dintra li me carni
e r’accussi u duluri
firriannu intunnu un t’attrova
e ni lassa n’anticchia respirari
l’aria nostra, di ventu, di sali.