Non pozzu chiànciri
ca l’occhi mei su sicchi
e lu me cori
comu un balatuni.
La vita m’arriddussi
asciuttu e mazziatu
comu na carrittata di pirciali.
Non sugnu pueta;
odiu lu rusignolu e li cicali,
lu vinticeddu chi accarizza l’erbi
e li fogghi chi cadinu cu l’ali;
amu li furturati,
li venti chi strammíanu li negghi
ed annèttanu l’aria e lu celu.
Non sugnu pueta;
e mancu un pisci greviu
d’acqua duci;
sugnu un pisci mistinu
abituatu a li mari funnuti.
Non sugnu pueta
si puisia significa
la luna a pinnuluni
c’aggiarnia li facci di li ziti;
a mia, la menzaluna,
mi piaci quannu luci
dintra lu biancu di l’occhi a lu voj.
Non sugnu pueta
ma siddu è puisia
affunnari li manu
ntra lu cori di l’omini patuti
pi spremiri lu chiantu e lu scunfortu;
ma siddu è puisia
sciògghiri u chiacciu e nfurcati,
gràpiri l’occhi a l’orbi,
dari la ntisa e surdi
rumpiri catini lazzi e gruppa:
(un mumentu ca scattu!)
Ma siddu è puisia
chiamari ntra li tani e nta li grutti
cu mancia picca e vilena agghiutti;
chiamari li zappatura
aggubbati supra la terra
chi suca sangu e suduri;
e scippari
du funnu di surfari
la carni cristiana
chi coci nto nfernu:
(un mumentu ca scattu!).
Ma siddu è puisia
vuliri milli
centumila fazzuletti bianchi
p’asciucari occhi abbuttati di chiantu;
vuliri letti moddi
e cuscina di sita
pi l’ossa sturtigghiati
di cu travagghia;
e vuliri la terra
un tappitu di pampini e di ciuri
p’arrifriscari nta lu sò caminu
li pedi nudi di li puvireddi:
(un mumentu ca scattu!).
Ma siddu è puisia
farisi milli cori
e milli vrazza
pi strinciri poviri matri
inariditi di lu tempu e di lu patiri
senza latti nta li minni
e cu lu bamminu nvrazzu:
quattru ossa stritti
a lu pettu assitatu d’amuri:
(un mumentu ca scattu!)
datimi na vuci putenti
pirchi mi sentu pueta:
datimi nu stindardu di focu
e mi segunu li schiavi di la terra,
na ciumana di vuci e di canzuni:
li sfarda a l’aria
li sfarda a l’aria
nzuppati di chiantu e di sangu.
(Ignazio Buttitta – Settembre 1954 – Tratto da: “Lu pani si chiama pani” )
Eccomi, Eccoti, Eccolo
Eccoci, Eccovi, Eccoli
Strano e gratuito come ogni dono
Eccomi qui: io ci sono
Solo da solo io non ci sarei
Eccoti qui: tu ci sei
Si apre lo spazio che c’è fra me e te
Eccolo, eccola: c’è
Altri che vengono, se io li chiamo
Eccoci: ora ci siamo
Nodi diversi di una sola rete
Eccovi tutti, ci siete
Ma l’orizzonte è sempre più in fondo
Eccoli, eccole: il mondo.
(Bruno Tognolini)
“Cara Anna Maria, tra pochi giorni avrà le bozze del suo libro. Stia allegra: lei ha scritto un libro bellissimo, dovrebbe ridere e cantare tutto il giorno, per un anno di seguito, almeno! Se no, a cosa serve scrivere bei libri?”
(da una Lettera di Italo Calvino ad Anna Maria Ortese)
Anastasia dovette andare in camera sua a prendere un fazzoletto.
Aveva il cuore delicato come le corde di un violino, quel giorno, e a sfiorarlo suonava.
Piangeva, non tanto di pietà per la defunta, che conosceva e apprezzava, quanto di dolcezza di fronte a questa vita, che si presentava così strana e profonda, quale mai l’aveva veduta, piena di sonorità ed emozione. Era come se avesse bevuto due o tre bicchieri di vino insieme, da qualche ora: tutto era così nuovo, così intenso nella sua semplicità quotidiana. Mai, mai si era accorta che visi e che voci avessero la madre, i fratelli, la gente. Per questo i suoi occhi erano pieni di lacrime: non perchè donn’Amelia fosse stesa sul letto di morte, bianca in faccia e mite com’era sempre stata, ma perchè in questa vita c’erano tante cose, c’erano la vita e la morte, i sospiri della carne e le disperazioni, le tavole imbandite e l’oscuro lavoro, le campane di Natale e le colline tranquille di Poggioreale. Perchè, mentre si accendevano le candele, a un kilomentro di distanza c’era il porto, con la nave di Antonio all’ancora, e Antonio stesso, che tanto le era stato caro, a quest’ora sedeva a tavola, in mezzo ai suoi parenti, pensando chissà chi e che cosa. E a un tratto si accorse che, in mezzo, a tante emozioni, il suo pensiero più profondo era tornato calmo, freddo, inerte, come sempre era stato, e di Antonio e della vita stessa più nulla le importava.
Non si domandò perchè fosse questo. Sedé ancora, come la mattina, sul letto, e guardando tranquillamente i particolari più disadorni e noti della stanza – quelle sedie, quei vecchi quadri, i ramoscelli secchi d’ulivo sul bianco dei muri – andava pensando come sarebbe stata la sua esistenza da qui a vent’anni.
Si vide ancora in questa casa (non vide il proprio viso), sentì il suono appena irritato della sua voce chiamare i nipoti. Tutto sarebbe stato come oggi, in quel Natale fra vent’anni. Solo le figure, cambiate. Ma che differenza c’era? Si chiamavano ancora Anna, Eduardo, Petrillo, avevano le stesse facce fredde, prive di vita e di gioia. Erano gli stessi, anche se in realtà erano cambiati. La vita nella loro razza non produceva che questo: un rumore fioco.
Stupì, ricordando la grande festa della mattina, quell’affiorare di speranze, di voci. Un sogno, era stato, non c’era più nulla. Non per questo la vita poteva dirsi peggiore. La vita…era una cosa strana, la vita. Ogni tanto sembrava di capire che fosse, e poi, tac, si dimenticava, tornava il sonno.
(da Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese)
Oggi ho accompagnato una classe alla visione del film “La mafia uccide solo d’estate”. E fino a qui, niente di speciale. Se non il fatto di aver passato una mattina fuori dalle mura della scuola. Il sole era pallido, ma pur sempre sole. E le loro facce, al sole, forse, non le avevo mai viste. Fuori dalle mura di scuola mi son sembrati più piccoli. Come se la città enorme, attorno, restituisse loro la giusta misura. Le spalle libere dagli zaini enormi, pesanti. Solo una borsetta, meglio na’ borza, come dicono loro. Appena il peso lieve di qualche panino avvolto nella carta stagnola.
La visione di questo film è stata preceduta da due lezioni. Due lezioni inventate, da me. Ho utilizzato ingredienti mai mischiati prima e non sapevo davvero cosa ne sarebbe venuto fuori. Volevo mettere insieme giustizia, mafia e vita. E magari, detto così, sembra che tutto questo poco c’entri con il fatto che io insegno Religione. Eppure, per me, la connessione esiste e neppure troppo nascosta.
Nella prima fase di preparazione mi sono scoraggiata. Lo confesso. Prendevo appunti sulle cose che avrei voluto dire, ma tutto mi sembrava sterile, teorico. Mi pareva che quanto avevo da comunicare gli arrivasse come nozione tra le nozioni, come una notizia fra le notizie. E non volevo che fosse così. Allora ho capito che peccare di superbia questa volta mi sarebbe servito. Non dovevo concentrarmi per preparare UNA lezione, dovevo impegnarmi a preparare LA lezione. Così ho pensato di utilizzare il solo talento che, forse, possiedo cioè quello di raccontare storie.
Mafia e giustizia…in astratto non avrebbe funzionato. Poteva funzionare solo se avessi trovato il modo di raccontare la mafia e la giustizia mescolate alla mia storia personale. E non certo perchè la mia storia abbia qualcosa di particolare o speciale, ma semplicemente perchè l’esperienza ha sempre la meglio sulla dottrina. Anche in un caso come questo.
Ho iniziato a raccontare ai ragazzi di quando da bambina credevo che la mafia fosse un virus. Si, una malattia: “Bisogna stare attenti alla mafia, in quel quartiere c’è la mafia, non bisogna avvicinarsi ai mafiosi etc etc.” A Palermo la parola “mafia”, come giustamente sottolinea Pif nel suo film, si impara presto, è una tra le prime parole che entrano a far parte del vocabolario di un bambino. Anche se non la pronuncia, anche se non ne conosce il significato, un bambino palermitano sa che con quel termine bisogna familiarizzare, e in fretta, per poter decidere poi, crescendo, se tale familiarità sarà utile ad evitarla, la mafia, a combatterla o a sceglierla.
Son partita da lontano. Cercando di tracciare delle linee che potessero spiegare come si è passati dalla legge del taglione (di per sè passo notevolissimo di equità) alla “legge uguale per tutti”. Alla fine di questo tracciato, che in molti punti si presenta come un elettrocardiogramma impazzito, ho detto loro: “Mafia è ciò che costringe a chiedere come favore ciò che invece spetta di diritto”. Vero. “Ma a nuddu canusci? Ma a nuddu putemu dumannari?”. Conoscere, chiedere. E non per avere una poltrona in regione alle prossime elezioni, ma per poter fare una radiografia in ospedale, per esempio.
Mentre io crescevo, a Palermo, negli anni ottanta, l’asfalto della città di sangue ne ha bevuto fino a perder conoscenza. Come fanno gli ubriachi che ad un certo punto crollano. E dormono. Cadendo in un sonno profondissimo difficile da svegliare: “Per svegliarli ci vogliono le bombe”, si dice. E infatti. Per svegliare Palermo, di bombe ce ne sono volute almeno tre: una per Chinnici, una per Falcone e una per Borsellino.
Durante queste lezioni, in alcuni momenti, mi son messa paura. E si, perchè mentre io stavo lì a raccontare di queste cose mi sono accorta di avere addosso tutti gli occhi dei ragazzi. Oh, mi stavano ascoltando! Con gli occhi soprattutto. E non gridavo mica, no. Ho pensato, però, che non dovevo lasciarmi intimorire da quegli occhi che ascoltavano. Ormai la storia andava raccontata. Tutta. Fino in fondo.
Così ho continuato a parlare e a mostrare spezzoni d’interviste, immagni di macchine sventrate e corpi rosso sangue. E mentre parlavo e mostravo, erano i pezzi della mia storia personale che si mettevano a fuoco, svelandomi aspetti e connessioni presenti in me e ancora non riflessi. Frammenti di materiale grezzo tutto da lavorare.
Io faccio il compleanno a giugno. Così posso dire di aver avuto un’età per la strage di Capaci e un’altra età per la strage di via D’Amelio. Il computo degli anni si fa in stragi e morti ammazzati se sei nato a Palermo. Anche se la mafia, diciamo così, non ti ha mai privato, direttamente, di relazioni e persone importanti. Io chi fosse Giovanni Falcone non lo sapevo quando Fabrizio Frizzi e Milly Carlucci hanno dato l’annuncio della sua morte, interrompendo per qualche minuto la loro trasmissione: “Scommettiamo che…”. Ricordo però che la signora Carlucci disse una frase in inglese: “The show must go on”. Solo dopo capii che la mentalità dello spettacolo da continuare a tutti i costi aveva lasciato sprofondare l’Italia nel baratro del niente.
Da quel 23 maggio 1992 il nome di Giovanni Falcone mi divenne familiare. Conosciuto. Divenne per me il volto di un uomo con i baffi e la sigaretta in bocca, che quando sorrideva germogliavano le viole dalla terra secca. Giovanni Falcone aveva un sorriso da benedire la vita! Ma, nella mia di vita, c’era ancora spazio per altri baffi e altre sigarette. E così dell’esistenza di un certo Paolo Borsellino sono venuta a conoscenza 57 giorni dopo, quando il rumore di una forte esplosione e una colonna di fumo nero si intrufolarono a forza nella valigia che stavo preparando per recarmi al mare, a San Vito Lo Capo, il giorno dopo. Di quelle vacanze ricordo il silenzio. In spiaggia, l’indomani, c’era il mare, la gente e il silenzio. Silenzio e tanti giornali. E visi seri. Non erano visi da vacanza al mare quelli, erano volti impauriti, paura mischiata al peso della sconfitta e a quello, ancora più amaro, di una rabbia priva di interlocutori che ne fossero all’altezza. Avevo un’età prima del 23 maggio e ne ho avuta un’altra dopo il 19 luglio del 1992. E non solo perchè in mezzo ci stava giugno e il mio compleanno, ma soprattutto perchè ho capito di non poter essere più una bambina. Avevo visto mio papà piangere davanti alle prime immagini dell’attentato. E quella colonna di fumo che saliva dalla città sembrava dirmi chiaramente: “Ehi, signorina, vedi che… non ti difendenderà nessuno, da ora in poi”. I balconi sbriciolati, le finestre sventrate, i lenzuoli a coprire pezzi di corpo, le facce sconvolte dei primi soccorritori. Tutti spaventati e sdegnati. E, da allora, tutti coinvolti. La mafia è entrata così ufficialmente nella mia vita ed io ho capito di essere nata a Palermo.
Ho cercato di comunicare ai ragazzi cosa fossero diventati nel tempo Falcone e Borsellino. Ho cercato di spiegare loro quanto la vita di quei giudici fosse presente dentro di me, come una casa tutta da esplorare della quale non possiedo ancora le chiavi. Guardo dalla finestra, aspettando d’esser capace di aprire la serratura e prendere così possesso di ciò che all’interno vi è custodito.
E mentre sullo schermo della lavagna interattiva apparivano i primi secondi della famosa intervista di Falcone sulla paura e il coraggio, due ragazzini si sono avvicinati al mio orecchio e con un filo di voce mi hanno chiesto: “Ah, prof., ma che davero è lui FaRcone?” – “FaLcone! Si, è lui” – “Ah prof., ma che lei o sa che la faccia sua nun la conoscevo?”. Mi è preso un colpo. Ho pensato: sono stata io.
Sono stata io a mostrare a quei ragazzi, per la prima volta, i vostri volti, miei cari giudici. Compresi di baffi e sigarette. Ero stata io. Mi è parso d’aver fatto una cosa così importante da pensare di poter davvero cambiare mestiere, adesso. Si, come fanno i campioni quando vincono l’oro alle olimpiadi e nel pieno delle potenzialità, si ritirano, perchè in fondo sanno d’aver raggiunto l’obiettivo. Ho fatto esistere i vostri volti e le vostre storie nei volti e nelle storie di un gruppetto di adolescenti romani. Adolescenti di un quartiere di periferia, ragazzini che sanno, da sempre, cosa voglia dire droga e sfruttamento. Ragazzi che, spesso, hanno almeno un membro della famiglia “in gabbia”, come dicono loro; ragazzini abituati a vedere nelle forze dell’ordine (“le guardie”, le chiamano) quasi una minaccia. Adesso questi ragazzini camminano per la strade della vita e sanno di voi. E così, in forza di quella superbia che mi ha portato a concludere oggi questo percorso, posso davvero prendere in considerazione l’idea di rimettere le mie cose in valigia e ripartire. Quello che dovevo fare qui, l’ho fatto. E la cosa incredibile è che non sapevo di doverlo fare…fino a quando non l’ho fatto.
(Relazione tenuta il 4 gennaio 2014. Convegno “Padre nostro che sei in terra”, organizzato dall’Associazione Ore Undici)
La prima cosa è la coscienza dello spazio, sapere che lontano, da un’altra parte, altrove, sta accadendo qualcosa. Anzi, fuori dalle mura di casa tutto sta accadendo in giro per il paese, però occorre sapere dove. E la seconda cosa è il tempo, in quel posto bisogna arrivare in tempo, perché quella cosa accada a noi e non soltanto immaginare che accada. Se lo spazio è anche ampio e distante è necessario differire il tempo dell’azione dal tempo del desiderio, perché partire quando desidereremmo essere già lì è una vana corsa verso una sala vuota. Possedere questa consapevolezza è una qualità che può contribuire a rendere la vita arte dell’incontro. Le anime si incontrano per caso, per curiosità, per determinazione. In tutti i casi l’incontro ha sempre del miracolo. Nella coincidenza la componente magica è più evidente, ma decidere, partire, muoversi a tempo fino a trovarsi nel luogo dove la cosa sta accadendo è miracoloso come la costruzione di tutte le cose immaginate.
Coscienza dello spazio, tempo, luogo, azione, desiderio, coincidenze, incontro. Tutti elementi presenti nei vangeli e tutti elementi che vengono fuori, che ci vengono “incontro”, appunto, nel tentativo di comprendere cosa sia la preghiera.
Vorrei partire dal brano del vangelo secondo Luca: Signore insegnaci a pregare (Lc 11,1). Il cap. 11 inizia con la descrizione dell’ambiente nel quale la scena sta per svolgersi: Gesù si trova in un luogo a pregare. A differenza delle altre volte in cui si parla di Gesù in preghiera, pare che, questa volta, Gesù non sia solo o in un luogo deserto, ma sotto lo sguardo dei discepoli: Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: Signore insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli. Il verbo παύω non si trova negli altri vangeli e in Lc e At non è utilizzato molte volte.
Nel vangelo l’atto di cessare da qualche cosa è legato ad un avvento, ad una novità che sta per accadere: in 5,4 Gesù dopo aver “cessato” di ammaestrare la folla dalla barca ordina a Pietro di prendere il largo e di gettare le reti per la pesca; in 8,24 i venti obbediscono a Gesù e cessano di soffiare; subito dopo Gesù interroga i discepoli riguardo alla loro fede. In 11,1, invece, Gesù conclude la sua preghiera e viene interpellato dal discepolo: Signore insegnaci a pregare! La domanda del discepolo segue immediatamente la preghiera di Gesù. I discepoli lo osservano e, probabilmente, ne restano affascinati. Questa particolare situazione, genera la domanda. La dinamica domanda/risposta è, infatti, strettamente legata alla preghiera. La richiesta del discepolo resta, però, “superficiale”: insegnaci a pregare come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli. Vi è come un doppio livello: da una parte i discepoli osservano Gesù che prega e desiderano imparare da lui, d’altra parte, la loro richiesta è strutturata sul già conosciuto, non riescono a pensare che quanto visto possa condurli verso qualcosa di nuovo. Gesù risponde condividendo con i discepoli la relazione che lo lega al Padre suo. Quando pregate dite: Padre, sia santificato il tuo nome! La relazione padre/figlio non è una relazione sporadica, superficiale, ma quotidiana, di dipendenza anche se non di subordinazione. All’interno di questa relazione si riconosce una situazione di bisogno che esprime una mancanza, insieme alla certezza, però, d’esser esauditi, insieme alla fiducia che la mancanza verrà colmata. La relazione padre/figlio verrà ripresa altrove nei vangeli, in Lc sempre al cap. 11, qualche versetto più avanti, il domandare del figlio al Padre non prevede la possibilità di non essere esauditi: Se dunque voi che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono (Lc 11,13). E, un po’ prima, in Lc 11,8, troviamo un altro verbo che aiuta a comprendere il senso di questo testo e ad approfondire il significato della preghiera: Χρῄζω. Il verbo significa “avere bisogno, essere senza”. E lo stesso verbo utilizzato da Lc in 12, 30 e in Mt 6,32 nel discorso della “Provvidenza”: Il Padre sa che ne avete bisogno. I vestiti, il cibo: il Padre riconosce il bisogno, vede che i figli sono “senza”. Ciononostante Gesù invita a cercare il regno di Dio e la sua giustizia per avere tutte queste cose “in aggiunta”. Quello che è necessario viene dato, ma nel capovolgimento dell’ordine delle necessità. Per chi cerca il regno di Dio il necessario diventa “aggiunta”.
La preghiera che Gesù insegna è una preghiera poliedrica. La relazione diretta Padre/figlio si dilata, ingoblando anche la dimensione “orizzontale”, la relazione fra fra fratelli. Tale relazione all‘intero della preghiera che Gesù sta insegnando ai suoi è la base sulla quale si costruisce quella dei discepoli con il Padre: perdonaci i peccati (imperativo aoristo), infatti anche noi li rimettiamo/perdoniamo (presente) ai nostri debitori. L’humus, il terreno nel quale il Padre nostro affonda le sue radici è l’esperienza, e Gesù innesta questa esperienza nel suo rapporto particolarissimo con Dio, un rapporto che ci viene partecipato, che è condiviso.
Il Padre conosce ciò di cui abbiamo bisogno, afferma Mt in 6,8, ancora prima che glielo chiediamo; per questo non è necessario “sprecare parole”. Il verbo che utilizza Mt è, in 6,7,: βατταλογέω (apax di tutta la Scrittura) “usare molte parole senza senso, chiacchierare, usare vane ripetizioni”. Elemosina, preghiera, digiuno, le tre opere che Mt invita a compiere nel segreto. Cosa è questo “segreto”? Mi sono interrogata a lungo, e credo non sia di facile e immediata comprensione. Osservando i testi mi sono risposta che questo “segreto” può essere inteso come il luogo figurato in cui la relazione con il Padre nasce e si nutre. Mt lo contrappone alla ricompensa che viene dagli occhi degli uomini: Guardatevi dal compiere queste cose in questo modo per essere visti dagli uomini! (cfr. Mt 6,1ss). Leggendo le parole del cap. 6 viene in mente un altro capitolo del vangelo secondo Mt, l’incipit del capitolo 23:
1 Allora Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: 2 «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. 3 Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. 4 Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. 5 Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filattèri e allungano le frange; 6 amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe 7 e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare “rabbì” dalla gente. 8 Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. 9 E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. 10 E non fatevi chiamare “maestri”, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo.
La dimensione del segreto, la relazione, il rapporto padre/figlio e la preghiera sono per l’evangelista un tutt’uno inscindibile. “Il segreto” è luogo teologico d’incontro. Incontro di chi, incontro con chi? Il segreto è il luogo nel quale l’uomo si incontra con se stesso e con il Signore. Il segreto è luogo di relazione intima. Si è davanti a se stessi, si è davanti a Dio. Ogni persona possiede il proprio “segreto”. Il “segreto” è per ciascuno come un abito cucito su misura, che non può essere indossato da nessun altro. Il segreto è il luogo nel quale tacciano le parole, quelle inutili e nascono le parole, quelle sane, nutrienti, le parole intonate. Il “segreto” è l’officina nella quale si costruiscono ponti solidi per raggiungere Dio, se stessi, i fratelli, attraverso preghiera, elemosina e digiuno. È nel segreto che si costruisce la nostra faccia, πρόσωπον (cfr. Mt 6,17), davanti agli altri.
Preghiera come relazione e incontro. Entrambe queste dimensioni, nei vangeli, sono legate alla presenza, alla vita, al corpo di Gesù di Nazareth. E che la preghiera sia una realtà dinamica lo si comprende analizzando alcuni verbi che mettono in relazione Gesù e la gente:
Venire presso (ἔρχομαι + πρός) Leggendo ed analizzando le diverse presenze del verbo, sia nei Sinottici sia in Gv si nota immediatamente come il movimento di “andare presso” sia un movimento reciproco: si va verso Gesù e Gesù va verso qualcuno. E, solitamente, l’andare verso Gesù innesca e precede il movimento dell’altro, la riflessione dell’altro, l’azione dell’altro, alcuni esempi:
Mt 3,14 Giovanni dice a Gesù: Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu viene presso di me?; 7,15: Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di agnello, ma dentro sono lupi rapaci; 14,25: Gesù va verso i discepoli camminando sulle acque; 14,28: Pietro chiede a Gesù di andare verso di lui; 19,14: Lasciate che i bambini vengano a me; 25,36: Ero in carcere e siete venuti verso di me; 26,40: Gesù va verso i discepoli nel Getsemani, ma li trova addormentati;
Mc 1,40: Il lebbroso va verso Gesù; 1,45: Venivano a Gesù da ogni parte; 2,13: Tutta la folla veniva a lui ed egli l’ammaestrava; 11,27: Si avvicinano a Gesù gli scribi , i farisei e gli anziani.
Lc 6,47: Chi viene a me e ascolta le mie parole e le mette in pratica è simile ad un uomo che costruisce la sua casa sulla roccia. 14,26 Se uno viene a me e non odia suo padre suo fratello…non è degno di me; 15,20: Il figlio partì e si incamminò verso suo padre;
Gv 1,29: Giovanni Battista vede venire Gesù verso di lui e lo indica e lo riconosce come Agnello di Dio; 1,47: Gesù vede Natanaele che gli va incontro; 3,2: Nicodemo va verso Gesù di notte; 6,35: Io sono il pane della vita, chi viene a me non avrà mai più fame; 6,37: Colui che viene a me non lo respingerò; 6,44: Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato….chiunque ha udito il padre e viene a lui ha imparato da me; 7,37: Chi ha sete venga a me è beva; 11,29: Maria sente che Gesù è lì e la chiama, subito si alza e va verso di lui. 14,6: Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. 14,18: Non vi lascerò orfani, verrò presso di voi.
Con ancora più forza l’idea di un movimento che innesca relazione è dato dal verbo προσέρχομαι: “Muoversi verso un punto di riferimento, con una possibile implicazione, in determinati contesti di una relazione reciproca tra la persona che si avvicina e chi è avvicinato”. Alcuni esempi:
Mt 5,1: I discepoli si avvicinano a Gesù; 8,19: Gli scribi si avvicinano a Gesù. Lc 7,14: Gesù si avvicina e tocca la bara e resuscita il figlio della vedova.
Altro verbo importante è ἐγγίζω: “Avvicinarsi ad un punto di riferimento”. In un certo numero di lingue non è possibile semplicemente dire “avvicinarsi”, perché è necessario specificare il punto di riferimento, in altre parole: vicino di quanto?
La necessità di avvicinarsi per entrare in relazione, così, come nel suo monologo afferma Capossela: “ma decidere, partire muoversi a tempo fino a trovarsi nel luogo dove la cosa sta accadendo è miracoloso come la costruzione di tutte le cose immaginate”.
I Vangeli, però, contengono anche dei verbi che indicano in modo specifico la dimensione della preghiera: προσκυνέω. Il verbo significa, allo stesso tempo, “supplicare e adorare”. Vuol dire anche: “Inchinarsi per baciare i piedi di qualcuno, indumento orlo, o il terreno di fronte a lui. Ad-orare cioè rivolgere la parola”. Alcuni esempi:
Mt 2: i magi si prostrano davanti al bambino; Mt 4,9: Il demonio chiede a Gesù di prostrarsi davanti a lui; Mt 8,2: Il lebbroso si prostra davanti a Gesù; Mt 8,18: Giairo si prostra prima di chiedere la guarigione della figlia; Mt 14,33: Dopo che Gesù e Pietro camminano sulle acque i discepoli sulla barca si prostrano a lui; Mt 15,25: La cananea si prostra ai piedi di Gesù ed esclama Signore, aiutami!; Mt 20,20: La madre dei figli di Zebedeo si prostra prima di chiedere qualcosa a Gesù. 28,9: Le donne adorano Gesù risorto. 28,17: I discepoli adorano Gesù risorto.
Mc 5,6: L’indemoniato geraseno si prostra davanti a Gesù; Mt 15,9: I soldati si inginocchiano davanti a Gesù per schernirlo.
Gv 4,20-24: 20I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte e voi dite che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare.21Gesù le dice: “Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. 22Voi adorate quel che non conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. 23 Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori.24Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità“; 9,38: Il cieco nato si prostra davanti a Gesù dopo averlo riconosciuto.
Προσεύχομαι: “Prego, supplico, chiedo supplicando. Richiesta alla divinità, ma anche desiderio di parlare con…” Il termine possiede già in sè l’idea dell’insistenza. Alcuni esempi:
Mt 5,44: Pregate per i vostri persecutori; 14,23: Gesù sale sul monte a pregare; 19,13: Gesù impone le mani sui bambini e prega. Mt 26, 36.39.41.42.44: Gesù prega al Getsemani e invita i discepoli a pregare e vegliare.
Mc 11,25: Quando vi mettete a pregare se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perchè anche il padre vostro che è nei cieli perdoni a voi i vostri peccati. 12,40: Gesù rimprovera gli scribi di divorare la casa delle vedove e di pregare a lungo.
Lc 3,21: Gesù dopo aver ricevuto il battesimo sta in preghiera. 9,28: Il volto si Gesù si trasfigura mentre prega; 11,1-2: La richiesta del discepolo nasce dall’osservare Gesù in preghiera. 18,1ss: Parabola sulla necessità di pregare sempre senza stancarsi.(confrontare con la lunga preghiera rimproverata agli scribi di 20,47 e Mc 12,40).
È interessante notare come, nei versetti contenenti i verbi “tecnici” che indicano la preghiera, sia sempre presente la dimensione del desiderio. Positivo o negativo, a seconda dei contesti. Il desiderio di ricevere qualcosa, il desiderio di cambiare qualcosa, il desiderio di essere esauditi. Preghiera come desiderio di parlare con, di raggiungere qualcuno. Preghiera come capacità di perseverenza. Come in alcuni racconti di guarigione, nei quali Gesù “cede” all’insistenza del malato. La preghiera, il parlare a, non è sempre un parlare composto. Tutte le potenzialità della voce vengono utilizzate. Espressione di sentimenti, situazioni differenti che la voce prova ad esprimere: Il pubblicano chiede sottovoce e con il capo chino la misericordia (cfr. Lc 18,14); la cananea urla andando dietro a Gesù tanto da infastidire i discepoli (cfr. Mc 7,24-30); il cieco di Gerico, Bartimeo, si alza in piedi al sentire, dalla folla, che la confusione è causata dalla presenza di Gesù, cosa succede – chiede – “Passa Gesù Nazareno”, gli viene risposto. E lui non sa quanto vicino egli stia passando, eppure getta via il mantello e balza in piedi gridando: Gesù Figlio di Davide Abbi pietà di me. Rimproverato dalla folla, non tace: Gesù, figlio di Davide abbi pietà di me (cfr. Mc 10, 46-52; Lc 18, 35-43). Ecco cosa vuol dire pregare senza stancarsi ma, allo stesso tempo, non pensare d‘essere esauditi a forza di parole.
In tutti questi esempi, le diverse intonazioni di voce sono sempre accompagnate da un movimento del corpo: il pubblicano ha il capo chinato e si batte il petto; la cananea si prostra davanti a Gesù, Bartimeo scatta in piedi. Il corpo è parte fondamentale, protagonista della preghiera. E nel vangelo la presenza di Gesù fa si che la preghiera sia corpo che cerca un altro corpo. La preghiera nel vangelo è materia. È carne, sangue, corsa, fiatone, sudore. E Gesù guarisce, esaudisce la preghiera rimanendo, in un primo momento, su questo stesso piano “corporale”: utilizzando le mani, l’alito, la saliva, il fango, l’acqua (cfr. Mt 9, 20-22; Mc 5, 21-34; Lc 8, 40-56). Avvicinarsi a lui. Andare verso di lui. Sapere che toccare anche solo il lembo del suo mantello, come l’emoroissa, è speranza di salvezza. E proprio in questo racconto la preghiera e la guarigione che ne consegue sono forse l’esempio più intenso della dimensione corporale della preghiera. La relazione fra Gesù e l’emoroissa è una relazione “corpo a corpo”. E’ un contatto lieve, i due si sfiorano appena, eppure entrambi sono consapevoli, lo sanno, d’essersi toccati, entrambi comprendono che qualcosa è successo. Così la preghiera costruisce la relazione: nel segreto sappiamo che qualcosa è successo.
La lettura dei testi evangelici permettono di comprendere la preghiera non come qualcosa “da fare”, basata su elementi esterni all’esperienza. Nessuna preghiera senza relazione, nessuna preghiera senza rimanere, nel segreto, faccia a faccia con se stessi e, dunque, faccia a faccia con Dio. Il segreto come luogo di edificazione di sé, luogo di incontro. Incontro, desiderio reciproco di vicinanza: andare verso, alzarsi, decidere, cercare, cercarsi. Incontro tra persone, identità, esperienza che se non è personale non può essere detta, che se non passa dalla carne non può essere data.
Concludo con un verbo, molto importante nella Scrittura. Il verbo Γρηγορέω: “Guardare, essere o rimanere svegli”; figurativamente essere attenti, vigili, come antonimo per la metafora del sonno come morte, essere svegli, essere vivi. In senso figurato significa anche custodire. Usato nei Sinottici all’interno dei grandi discorsi escatologici per indicare la necessità del vegliare, l’attesa vigile del Signore. Nel Getsemani Gesù chiede ai discepoli di vegliare insieme a lui. Il verbo è utilizzato all’interno della pericope diverse volte e si trova insieme a “pregare”: vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Vegliare, esserci, stargli accanto, starsi accanto, attendere. Aspettarlo. L’attesa è la preghiera ebraico-cristiana per eccellenza, da Israele a Gesù, dall’ascensione ad oggi: Lo Spirito e la sposa dicono vieni! (cfr. Ap 22,17 ). Per questo la preghiera è arte dell’incontro e per questo l’espressione: “Signore insegnaci a pregare” possiede un significato tanto importante, l’espressione stessa è preghiera. E la frase dell’Apocalisse con la quale tutta Scrittura si compie, può essere la risposta a quella richiesta dei discepoli: Signore, insegnaci a pregare, persentirsi così dire, da lui: Si, vengo presto (cfr. Ap 22,20).
Soffiava quel vento maledetto, così forte da rendere impossibile sentire la propria voce, così come la voce di lei. E sentire la voce di lei era l’unica cosa che desiderava, davvero, in quel momento, un momento maledetto come il vento.
Ma lei non parlava. Nonostante le sue labbra fossero socchiuse, come in procinto di dire. Sembrava che le parole fossero lì, tutte in fila, pronte a venir fuori. E così lui le fissava le labbra, per non perder d’occhio lo sgorgare possibile di una sorgente.
Gli occhi di lui, come una riva, linea di confine tra terra e acqua salata. Lacrime in equilibrio, per paura che superassero il confine e che gli accadesse di sparire sotto un salire d’acqua irrefrenabile.
La guardava, senza batter ciglio, per non perderla di vista neppure un istante. La guardava così, come aveva fatto per anni, vicino abbastanza per imparare ogni particolare e ripeterlo a memoria giorno e notte, al risveglio, la sera, per strada, al lavoro. Vicino abbastanza, ma troppo distante per sentire sotto il palmo della mano il calore della pelle, per sentire sotto le dita lo spessore dei nei, le onde della labbra, la seta dei capelli, le ossa sporgenti, la linea curva del naso, la morbidezza del seno. Non abbastanza vicino per amarla, non sufficientemente lontano per scordarla.
Si ricordò di quando la vide sorridere la prima volta. Credeva di perder il senno. E si era guardato attorno, sconvolto dal procedere disinvolto del mondo. Si chiedeva smarrito e commosso come fosse possibile che la vita di tutti continuasse senza incantarsi davanti al quel distendersi della bocca così dolce…come non piantare i piedi davanti a quell’illuminarsi reciproco di occhi e labbra, come non restare lì a raccogliere luce e calore come un mendicante affamato? Avrebbe voluto fermare la gente, afferarla per il braccio e costringerla a condividere il momento: “Ehi dove andate? Ma..ma restate qui, venite con me..non vedete come è bella quando sorride?”. Era accaduto poche volte che gli sorridesse così, eppure, ogni volta gli pareva di poter aggiungere millenni ai suoi giorni di uomo.
Certo, si ricordava, pure, di quando piangeva…della lama affillata che gli tagliava le ossa: una pugnalata per ogni sua lacrima. Si ricordava di come l’universo intero patisse il sussulto dei suoi singhiozzi. Le montagne sembravano schiacciare la terra, il cielo tremava, non era possibile riuscire a fare un passo senza vacillare. Tutto perdeva la sua forma, la realtà sbiadiva i contorni lasciandolo privo di appigli. E quando stava male poi…le capitava spesso. Sopratutto ultimamente. Diventava così pallida, e tossiva. Nei momenti peggiori si accasciava, in ginocchio, come se portasse su di sè il peso del mondo. Teneva stretto il ventre, un abbraccio intensissimo con il proprio corpo. Mangiava poco e troppo spesso, con le ginocchia piantate a terra, si sporgeva in avanti e vomitava cibo misto a sangue. Neppure lo guardava in quei momenti, lei. Eppure lui restava lì non se ne andava, mai. Restava lì sopportando eroicamente di non riuscire ad intervenire per darle sollievo. Restava lì, e quando lei sfinita, in ginocchio, rialzava di poco la testa, lui sentiva il sapore della morte, nel vederla così, stremata e bellissima, con un rivolo di sangue che le colava ancora dalla bocca e i suoi capelli scuri e lucenti impastati con i resti di quel cibo che non era per lei nè forza nè nutrimento.
Non smetteva di soffiare, il vento balordo. Il pensiero che quelle labbra socchiuse potessero finalmente partorire parole che il vento gli avrebbe portato via, lo prostrava profondamente. Posò i suoi occhi stanchi per l’attesa sulle mani di lei. Mani scure e belle. Magre ormai, ma espressive e potenti. Si ricordò, inevitabilmente, di quella volta che, quasi per errore, riuscirono a toccarsi. Fu un attimo, ma s’impresse in lui con una tale potenza…con una forza quasi violenta.
Camminavano insieme, uno accanto all’altra, come sempre. Avevano ormai imparato a procedere con ritmo costante, vicini, vicinissimi, ma lontani abbastanza per evitare il contatto. Ad un certo punto, però, il cammino si fece impervio, la strada dissestata, i sassi aumentarono improvvisamente, sembravano venire fuori dal nulla, una moltiplicazione feroce d’inciampi. Persero il ritmo del loro procedere paralleli e l’equilibrio di lui vacillò. Per evitare di rovinare a terra e batter la testa sui sassi, le afferrò la mano. Lui strinse, lei strinse. E lui non cadde sui sassi. Ma attraverso quella stretta di mani sentì lei in modo così forte dentro di sè che non potè frenare l’istinto di mollare la presa. Gli parve che i sassi gli avrebbero potuto nuocere meno di quella presenza di lei in lui così intensa.
Non gli accadde di toccarsi mai più. E adesso che lei lo stava lasciando, lui avrebbe voluto con tutta la sua anima, il suo corpo, la sua mente e le forze tornare a quel momento. Avrebbe voluto camminare sui sassi e riperdere l’equilibrio, rompere il ritmo del procedere parallelo e afferare di lei non solo la mano, ma il corpo, tutto: i fianchi, le braccia, le gambe, tutto. La pelle, il sangue, le ossa: tutto. Avrebbe voluto sentire fra le mani il pulsare dei suoi organi interni, stringere il suo intestino e il fegato e il cuore. Avrebbe voluto sporcarsi con il corpo di lei, avrebbe voluto sentire fra le dita i grumi del sangue da mischiare al suo in un esplodere incontenibile e furioso di rosso vivo. Avrebbe voluto sentirla addosso per sempre, perdere il proprio odore a favore del suo, mandare in frantumi i confini costruiti a difesa della propria solitudine e sentirsi invaso dalla presenza di lei. Avrebbe voluto. E ora che la vita lo stava lasciando non poteva che guardarla, nè troppo lontano nè troppo vicino e fissare quelle labbra socchiuse e immaginare, nonostante quel vento maledetto, un’ultima volta, il suono delle parole che la sua vita aveva tentato di pronunciare infinite volte.
E’ un libro bellissimo. Lento, come lenta e profonda procede la vita di coloro che abitano terre circondate dal mare. Ho comprato il libro ad Agosto, l’ho finito adesso. Leggevo, e poi sfilavo la trama delle parole, per ricucirle, di nuovo, su misura dei pensieri e delle vicende che erano i miei pensieri e le mie vicende, in quel momento. Sfilavo e ricucivo per far, pure, compagnia a Penelope, che più di tutte le donne ha patito solitudine e partorito attese, la sola, fra tutte, ad aver scrutato così a lungo l’orizzonte, sopportanto giorno dopo giorno la ferita di quella linea luminosa e tagliente fra cielo e mare.
Penelope
Devo difendermi dai ricordi che per anni hanno guidato ogni mio gesto e ogni mio pensiero. Leggeri gesti, quasi sospesi nell’aria, e pensieri pesanti come il piombo. Quando ho riconosciuto Ulisse sotto gli stracci di questo vagabondo, ho scoperto con dolore che nessuna fiducia ripone nella donna che ha diviso con lui gli anni della gioia e della giovinezza, delle parole amorose, degli amplessi. I nostri anni migliori si sono consumati nella memoria e Ulisse ha smarrito ormai la prospettiva misteriosa dei desideri reali cui ha diritto non solo la sua sposa ma ogni donna del mondo.
Ulisse ha dovuto combattere con le Sirene, i Ciclopi, i Mostri Marini che ha trovato sulla strada e perciò diffida di tutti in tutte le occasioni, e crede di essere sempre in guerra con il mondo. Così questo ritorno è avvenuto senza gioia e nel segno del sospetto. Come potrò perdonare a Ulisse la freddezza con cui riesce a nascondersi e a scrutarmi come oggetto senz’anima? […]
Ulisse va cercando ostacoli ovunque e quando non li trova li crea lui stesso, come se volesse mettere ogni volta alla prova il proprio valore e la propria intelligenza. Ma io non sono una nemica che ordisce trame contro di lui, nè una moglie infedele. Se lui diffida di me io alimenterò la sua diffidenza, se mi infligge nuove amarezze io farò altrettanto con lui. […]
Ulisse ha lanciato le sue sonde come abile marinaio che naviga tra gli scogli, ma difficilmente potrà raggiungere i segreti del mio animo perchè anch’io so fingere quando occorre, ho fatto lunghi esercizi in questi anni per difendermi dagli assalti dei Proci, dalle lusinghe e dalle trame dei servi. Povero Ulisse, come lo odio, e come lo amo nonostante tutto, anche sotto questi luridi stracci di mendicante.
(da Itaca per sempre di L. Malerba)
Ho riflettuto e a lungo, chiedendomi se scrivere quello che sto per scrivere avesse qualche briciola di senso ed utilità. Poi mi son detta che, scrivere quello che sto per scrivere, una certa utilità la possiede per me, una sorta di catarsi artigianale, e che le briciole di senso ed utilità, male che vada, le mangerò io, da sola, che si, la fame non passa, ma sempre meglio di niente è.
Oggi è il 27 di gennaio e si celebra la giornata della memoria. Ed è una celebrazione così importante e talmente conosciuta che non è necessario, nominandola, specificare di quale memoria si tratti. Sto dietro alla cattedra da soli due anni, ma di anni di “scuola dietro ai banchi” ne possiedo a sufficienza per permettermi una qualche riflessione su questa giornata. Posso dunque affermare che questa giornata, a scuola, viene sempre celebrata con particolare attenzione. Sopratutto i professori d’italiano o di storia cominciano a preprarare le classi molto tempo prima del 27 di gennaio.
Il fatto è, però, che io non insegno Italiano nè storia, no. Insegno religione. Si, Religione Cattolica. Ed ora mi fermo e faccio una pausa in modo che tutti coloro che leggeranno questo articolo possano avere qualche minuto per metter mano, con calma, a quel cumolo, grosso e disordinato, di pregiudizi e luoghi comuni che ognuno di noi, volente o nolente, possiede alla categoria “prof di religione”. Fate con calma. D’altronte un tale cumolo lo possiedo anche io, alto alto, grosso grosso. Anzi, penso proprio che il mio cumolo di pregiudizi sia molto, molto più alto del vostro, talmente alto che, quando mi sono iscritta alla facoltà di teologia, mi son detta: “Tutto, ma non l’insegnante di religione”. Si, infatti. E quale sia il bizzarro persorso di vita che si è fatto beffa del mio proposito…non saprei neppure spiegarlo. Ok, ora che avete riflettuto posso dirvi che non porto le gonne sotto al ginocchio né le scarpe di pelle nere con il tacco quadrato, non ho i capelli corti e bianchi modello “sorella di Gesù” e neppure le camicie abbottonate al collo, no. Non prego il rosario tutti i giorni, non appartengo a nessun gruppo parrocchiale, non ho la foto di Padre Pio sul comodino e con buona pace della conferenza episcopale italiana non mi batto per i “valori non negoziabili” né partecipo alle marce contro l’aborto. Non ho neppure particolare venerazione per preti, frati e suore. Credo, è vero, così come posso e so, in Gesù Cristo, ma da prima, molto prima (ne possiedo le prove) che arrivasse papa Francesco! Ah, e ho tre piercing all’orecchio e i capelli blu.
Detto questo, se vorrete continuare a leggere, sappiate che voglio raccontarvi quale inferno ho dovuto patire per preparare, in alcune delle mie classi, la “Giornata della memoria”. Il programma per le terze medie prevede lo studio delle grandi religioni. Così ho pensato di far precedere il ricordo della Shoah dallo studio dell’ebraismo: la storia antica di Israele per poter collegare la spiegazione delle festività ebraiche, la Bibbia ebraica, la cultura ebraica, con tanto di musica, pittura etc etc. Bello, mi permetto di dire e forse lo penserete anche voi. Invece? Invece no. Un incubo! Perché? Perché per prima cosa, ogni volta che entro in classe, in alcune più che in altre, la prima cosa da fare è riuscire a metterli seduti, far sputare le gomme masticate a bocca aperta, con movimento antiorario costante della mascella; ripetere una quindicina di volte di tirar fuori i quaderni, le penne, i libri, ribadire, per il numero degli alunni moltiplicato per due, che non possono andare in bagno durante la spiegazione (perché ci sono quelli che te lo chiedono una volta e pensano che il tuo no sia a scadenza e, quindi, inoltrano nuovamente la richiesta, ogni dieci minuti). Fatto questo, tocca avere riflessi pronti ed inserirsi veloci, con scatto felino in una pausa di silenzio, catturarli e cominciare a dire con tono di voce elevato e occhio penetrante qualcosa che li spinga ad ascoltarti. Così, comincia la lezione. La loro capacità di attenzione ha la stessa durata dell’attesa che separa l’invio del messaggio dalla risposta del destinatario su whatsapp. E la domanda che più spesso mi è stata rivolta è: “Ah prof, ma perchè dovemo studia’ le cose di l’ebrei, io voglio sape’ le cose mia”. Giuro. Vero. Alla controrisposta: “Quali sarebbero le cose tua?”, ovviamente mi si dice: “E che ne so io!”. Continuo, settimana dopo settimana, sentendo dentro me gli smottamenti che precedono la valanga dello sconforto. E gli smottamenti, sappiatelo, non vanno mai mai ignorati! Infatti, il giorno in cui ho cominciato a parlare dell’antisemitismo: significato del termine, origine storiche, difficile e controverso rapporto della chiesa con il fascismo, qualcuno si è sentito in dovere di ridefinire i confini tra discipline esclamando: “Ah prof, ma che c’entrano ste cose co a religione, pare che stiamo a fa’ storia!”. Avrei voluto rispondere: “Zitto, cretino!”, dato che questo ho pensato, e, invece, con una pazienza da far invidia al più ascetico dei monaci tibetani, ho continuato la mia spiegazione fino a quando… Fino a quando mi sono accorta, nonostante stessi scrivendo alla lavagna, (perchè i professori in realtà con il tempo diventano esseri mutanti con occhi e orecchie ovunque: sulle spalle, dietro alla testa, nelle gambe, sui piedi, ovunque!) che due di loro, da una parte all’altra dell’aula, si insultavano reciprocamente dicendosi: “Ebreo, figlio di ebrei!”. A quel punto la valanga è arrivata: il gesso che cade di mano, il colon che si incendia, le mani che tremano. Ma anche questa volta sono riuscita a frenare le parole che affollavano, numerose e furiose il cervello cercando, con sguardo severo, quello che da solo riesce a creare silenzio, di fare uscire dalla mia bocca non un fuoco capace di incenerirli tutti in pochi secondi, bensì un discorso pacato che potesse aiutarli a capire quanto fossero totalmente deficienti, nella speranza di raggiungere il deposito, la sede della vergogna, che però, secondo me, non è stata data loro in dotazione. I due che si insultavano, ve li presento, sono: un ragazzo borderline che ha diritto al sostegno (ma giammai nell’ora di Religione, che, si sa, niente vale nella scuola e niente merita, noi sporchi privilegiati, figli meticci dei patti lateranensi), e un ragazzo di sedici anni circa, con la barba, che da grande – afferma – vuole fare il “pappone”. Credetemi, sia io che i miei colleghi, abbiamo fatto di tutto per far capire al futuro pappone che non può mettersi sullo stesso piano di un ragazzo che ha difficoltà di comportamento e di comprensione della realtà. Eppure, non devo essere stata particolarmente convincente, forse perchè penso che, comunque, il vero borderline bisognoso del sostegno sia il sedicenne futuro manager di prostutite.
Ve la faccio breve: il mio discorso non è servito a niente. Le mie lezioni non sono servite a niente. A niente la musica, a niente la pittura. I due ragazzi e il resto dei compagni continueranno ad insultarsi chiamandosi “Ebrei”! E basta leggere le scritte sui muri di Roma per spiegarsi certe radicate intolleranze.
Mi si potrebbe obiettare, anche a mo’ di consiglio, che, magari, quella è una realtà troppo lontana dalla vita che stanno vivendo, oggi, ora, e che invece, su altri argomenti, più vicini, più attuali, la loro risposta sarebbe diversa. Grazie del consiglio amici, ma ho provato, e non funziona. Ho iniziato l’anno scolastico parlando della Primavera araba e della guerra in Siria: “Ah prof, st’ arabi oh, ma che ce vengono a fa’ in Italia! Nun ci sta lavoro qui! Ma chi li vole oh!”. Giuro. Vero. E una volta ho parlato dell’Africa e dei km che i ragazzi della loro età fanno ogni giorno per poter raggiungere la scuola: “Ah prof, ma in Africa nun ce stanno l’arberghi pe i safari? Andasserò a fa’ li camerieri nell’arberghi”. Giuro. Vero.
Ora, di discorsi sull’inconsistenza dei giovani e delle nuove generazioni, sinceramente, ne ho piene le tasche. Ovviamente, i ragazzi non sono tutti così, ogni tanto cogli uno sguardo, una parola di qualcuno che senza parlare, ti dice: “Ok prof. Ci sono, ho capito, grazie”. Anche i discorsi sull’incompetenza degli insegnanti mi hanno stufato, sopratutto perché io li vedo lavorare i miei colleghi e tranne poche eccezioni, sono persone piene di idee che cercano di fare il proprio lavoro nonostante la scuola ormai sia come un corpo che sta per esalare il suo ultimo respiro. Io non lo so se esista qualcuno, qualcosa a cui si possa o si debba attribuire la colpa di tutto questo. Solo mi chiedo cosa posso fare io, con un’ora a settimana, senza poter mettere un voto che faccia media, sempre in bilico, ricattabile dal vicariato che continuamente valuta e verifica la mia idoneità all’insegnamento, attaccata dai colleghi di sinistra perchè non si deve insegnare religione a scuola (e magari non conoscono neppure il contenuto dei programmi che sono, tra l’altro, programmi ministeriali), attaccata dai colleghi di destra perchè sto troppo a sinistra, minacciata dai dirigenti perchè non devo lasciare i compiti nè mettere le insuffuficienze, altrimenti poi i genitori non iscrivono i figli nella nostra scuola e…l’azienda fallisce.
I genitori. Qualche settimana fa ho messo una nota (cosa che non faccio mai, dato che non gliene frega veramente nulla di ricevere una nota). L’ho ritenuto necessario, però, dato che, in una seconda media, due compagnetti, un maschietto e una femminuccia, non hanno avuto remora di litigare in mia presenza e di dirsi vicendevolmente: “Tua madre è buttana”. Ecco, la mamma del maschietto ha risposto alla mia nota sul diario scrivendo: “Ah Prof (pure le madri, no!) dica a B. (la compagna) di portare rispetto, altrimenti vengo direttamente io in classe”. Giuro. Vero. Ed io, dopo aver fatto ingoiare al mio fegato un kilo e mezzo di bile purissima di prima scelta, ho risposto: “Gentile signora, la sua presenza in classe è del tutto superflua. B. è tenuta al rispetto tanto quanto suo figlio, che più volte, con le mie orecchie, ho sentito insultare madri e sorelle dei compagni. Pensi a rimproverare suo figlio”. Così le ho scritto, anche se avrei tanto voluto dirle: “Gentile signora, cerchi di mettere in riga quel disgraziato e maleducato di suo figlio che ogni giorno a scuola, sei ore su sei, scassa continuamente la minchia a tutti!”.
Quale sia il nemico da combattere, dicevo, io non lo so. Non so neppure se esista realmente un nemico. Certo è che molti, alla scuola media, non arrivano come ragazzini desiderosi di crescere. Molti di loro arrivano già a brandelli, fatti a pezzi da famiglia a pezzi, da relazioni taglienti come le schegge dei vetri infranti. Forse dovremmo davvero ripensare tutto, cambiare orari e materie, organizzare percorsi di istruzione e sostegno anche per le famiglie, rinunciare alle lezioni frontali, impegnarli fisicamente, insegnando un mestiere, un’attività manuale fin dalla tenera età.
Ricordare la Shoah è un dovere civile e morale imprescindibile. Guai a noi se smettismo di farlo. Ma la memoria è frutto di una semina che ha bisogno di terreno fertile per mettere radici. Non possiamo continuare a seminare sul cemento armato. Bisogna trovare il coraggio di ricominciare tutto daccapo, il coraggio di rimediare, se ancora possibile, agli errori passati e di evitare che si compiano quelli presenti, i disastri di cui tutti percepiamo con sgomento gli smottamenti. Prima di ricordare dobbiamo risanare. La mattanza della guerra in Siria, la pulizia etnica nella ex Jogoslavia e in Somalia, i cadaveri dei migranti che galleggiano sul mediterenneo. Se far memoria della Shoah non è servito ad evitare tutto questo allora forse abbiamo ricordato poco e abbiamo ricordato male. Forse il modo migliore di rendere omaggio ai sei milioni di ebrei morti durante la seconda guerra mondiale è evitare di costruire una società civile incapace di reagire alle ingiustizie, è non rassegnarsi ad una classe dirigente ignorante e corrotta, è creare sensibilità necessaria ad aver cura e rispetto della “cosa pubblica”. I ragazzi sono stanchi, sfiduciati e arrabbiati, cinici a volte, perchè noi adulti siamo arrabbiati, sfiduciati e cinici. Ma ad essere arrabbiati e cinici, questo si, non possiamo dimenticarlo, sono sempre i carnefici.
Oggi è venerdì.
E ora vado a scuola.
E mi metto un panino in borsa.
E quando suona l’ultima campanella
esco per strada e cammino
e mangio il panino
e giro attorno e mi guardo intorno
e cerco qua e là,
e metto la mano dritta davanti agli occhi,
per veder lontano
venirmi incontro l’uomo sui trampoli, la donna farfalla e il nano!
E la borsa si trasforma
e il cappotto diventa mantello
e vado con loro sotto al tendone
e passa la stanchezza e passa il magone
e mi piovono i brillantini sui capelli
e a vestir le dita tanti anelli!
E con un salto arrivo al trapezio e volo, leggera,
senza rete sotto
e poi le luci e un grande botto
e stelle filanti fra i capelli e applausi scroscianti
e sorrisi pieni di denti.
E resto con loro fino a lunedì
quando l’artista verrà trasformata
in una donna giovane
dalla crisi incastrata
a recitar la parte dell’impiegata-ta-ta
la-la-larallaà!
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