“Abbiamo perso le scarpe nel deserto”. E’ la frase pronunciata dalle donne migranti arrivate in questi giorni, scalze, al porto di Trapani.
Io il deserto lo conosco a granelli sparsi, portati dallo scirocco sui balconi della mia città. E senza scarpe lo sono spesso nei sogni, nei sogni brutti, nei sogni che danno sfogo e offrono chiavi d’interpretazione alle inquetudini del giorno. Senza scarpe lo sono sulla sabbia del mare, quando l’estate diventa vacanza e granite al limone. Se corro sulla sabbia è per giocare, per non bruciarmi i piedi, dall’ombrellone al mare.
Mi chiedo cosa si provi a partire dalla propria casa con le scarpe e a raggiungere una terra straniera a piedi nudi.
Il deserto non è fatto per correrci dentro, il deserto se ci corri dentro si mangia le scarpe.
Il deserto non è fatto per la paura né per la fretta. Il deserto, la paura e la fretta spogliano i piedi. Nel deserto la disperazione è un carburante, fa macinare i Km. Così raccontano, le donne senza le scarpe. Raccontano di fuga, di granelli infiniti come la disperazione.
Il viaggio dall’Africa all’Italia è fatto di sabbia e acqua, di deserto e mare. Di contrari e di eccessi, dune e onde, calura e notti fredde. E di buio. Perchè il buio del deserto è come il buio del mare, è il buio più scuro che c’è. Attraversare il deserto, attraversare il mare. Il deserto ruba le scarpe, il mare si mangia gli amici, le amiche, i mariti, i figli, le figlie, i fratelli e le sorelle. Mare ingordo, deserto ladro!
Le donne che attraverano il deserto hanno i piedi scalzi, lasciano andare via le scarpe per arrivare alla meta. Tengono stretti i bambini fra le braccia e i loro uomini attaccati agli occhi, per non perdersi, per non raggiungere da vedove le sponde della speranza. Nel deserto il mondo si capovolge: non si fugge per vigliaccheria, si scappa per overdose di coraggio. E non si corre lontani dalla morte, gli si va incontro per un corpo a corpo, a viso scoperto.
A cosa si penserà mai su quei gommoni, senza spazio, senza corpo, senza voce e senza scarpe; quale potenza possiede la vita quando la sopravvivenza è il maggior desiderio possibile?
Quando muore qualcuno, qui, da noi, pensiamo, nel dolore, ad occuparci del corpo: noi vestiamo i morti, cerchiamo di dar loro un aspetto dignitoso, compriamo le bare, organizziamo i funerali. Le donne senza scarpe no. Non vestono nessuno, non si occupano del corpo. Quando si muore sulla barca gli scafisti buttano i cadaveri in mare, quando si muore in mare i pesci vedono la morte invadere, prepotente, i loro abissi. I pesci non hanno le scarpe, neppure loro. Non hanno i piedi e non hanno le braccia. “Se solo i pesci avessero le braccia!”. Forse pensano questo le donne mentre vedono gli amici e i mariti, le sorelle, i figli e i fratelli affogare, giù. “Se solo gli uomini avessero un cuore!”, pensano forse i pesci, mentre la morte nera prende possesso della loro vita blu.
Chissà cos’altro hanno perduto quelle donne nel deserto. Forse i loro ricordi di bambine, i giochi per le strade, le voci delle loro nonne. Forse hanno perduto gli odori delle loro terre, il suono della loro lingua sempre più flebile, correndo dentro al deserto.
Forse il deserto oltre alle scarpe ruba pure i ricordi, così come gli scafisti rubano i documenti. Il viaggio dall’Africa all’Italia ruba le scarpe, gli amici, i ricordi, i documenti. Il viaggio dalla disperazione alla speranza divora identità.
Eppure quando attraccano ai nostri porti le donne a piedi nudi mi sembrano giganti e quasi vorrei io attraccare a quel desiderio di vita che straripa abbondante dagli occhi, forte, come i blocchi di pietra che arginano il mare. Non sanno ancora le donne-giganti a piedi nudi d’essere arrivate in un’Europa abitata da nani deboli, a volte meschini, naufraghi infelici nel loro mare di scarpe.
La quiete della tempesta
Non è vero che la quiete viene dopo la tempesta. Accade che sia la tempesta, nel suo accadere, ad essere la quiete.
Giorni di afa, esplosa nel bel mezzo di un’estate che non è ancora riposo per nessuno, se non per i bimbi e i ragazzi, liberati dagli argini stretti dei banchi di scuola.
A volte lo sforzo e la fatica raggiungono il loro apice estremo sotto le mentite spoglie della vita quotidiana, una corda tesa all’infinito. La terra si spacca, il cuore si asciuga, la polvere è secca e confonde lo sguardo.
Impossibile resistere oltre. Ma, allo stesso tempo, sembra di poter andare avanti così per sempre. L’uomo si abitua a tutto, la natura no. La natura si salva, per istinto, la natura genera la tempesta.
Lavoro, leggo, sudo. Non penso a niente, non penso a niente. La corda è tesa, l’umidità ringhia. Domani come oggi, domani come ieri. Fa caldo. Lavoro, rileggo, non penso a niente, non penso a niente, la corda è tesa, il sole è una pietra, e brucia.
Poi, un attimo.
Le foglie secche raschiano il terrazzo. I gabbiani volano bassi. Il vento si alza, la tenda comincia a danzare. Mi alzo anch’io, mi affaccio, il sole è impallidito, le nuvole si muovono, impazzite, potenti e nere. L’afa si scioglie, come un incantesimo, tutto gira, tutto si muove. E’ giorno, ma è buio. L’attesa scandisce il tempo: adesso arriva, adesso piove. Tutto si gonfia. E poi una goccia, grossa, sola. E poi due e tre e quattro e cento e mille. Non si contano, si ascoltano, è ritmo. Luce. Silenzio. Tuono. Luce. Silenzio. Tuono. Silenzio.
Un attimo, tutto è cambiato. La corda si allenta, è caduta, riposa. Dalla finestra una raffica, fresca, d’aria nuova, fuoco che si spegne, respiro. Respiro. I tuoni parlano, i vetri tremano, è quiete. Leggo, lavoro, penso a te, penso a te. L’acqua colpisce i vetri, violenta. Tutto è calmo. La natura genera la tempesta, la natura si salva.
Qui. Dopo. Lì. Adesso.
Sono all’aeroporto. Vedo la gente.
Mi passa davanti con gli zaini sulle spalle e le valigie in mano. Si prepara a partire.
Partire ha un peso.
Il peso delle cose che vuoi portare con te o il peso della rinuncia, per le cose lasciate.
Più cose lasci, più la capacità di adattamento deve esser grande.
Più cose porti più si deve esser disposti a sopportare il peso, l’impiccio, la poca libertà d’azione.
Si deve esser viaggiatori esperti per dosare con saggezza peso e mancanza, oscillare più volte tra il troppo e il troppo poco per sentire di possedere il “giusto”.
Che poi, il “giusto”, non è uno e non è per sempre. No.
Dipende da dove si è diretti e per quanto tempo.
Il “giusto” è un’unità di misura liquida, prende la forma di ciò che sai in un momento preciso di un luogo preciso di un contesto preciso.
E così, quello che è “giusto” qui e adesso, non lo sarà più lì e dopo.
Qui. Dopo. Lì. Adesso.
Le coordinate della “giusta misura” si mischiano con la percezione di ciò che è necessario.
Cosa mi serve davvero?
A cosa posso rinunciare?
Ma anche: a cosa devo rinunciare perchè il mio essere qui, ora, sia della “giusta misura?”.
Viaggiare, partire è azione amata, stancante a volte, ma desiderata perchè da sempre il viaggio è metafora della ricerca di una vita che sia la nostra.
Forse è per questo che dietro al viaggiare troppo o troppo poco si nasconde una vita incapace di dosare necessità e giusta misura, una vita troppo pesante o priva del necessario.
Del viaggio non è la meta che si ama e neppure un luogo in cui tornare. Ciò che si ama è il tempo di mezzo, quel dimorare per un tempo indeterminato in un luogo indeterminato. In cielo, in terra, in mare esiste uno spazio privo di argini e di barriere nel quale ci si sente liberi di essere “informali”, senza forma, pura potenzialità in divenire.
Il viaggio è il rifugio di chi non ha trovato nella propria vita una sua dimora.
E’ il campo fertile di chi possiede i semi ma non ha la pazienza dell’attesa.
Il viaggio è il tocco leggero di chi fugge i legami. Occhi che si incrociano veloci. Abbracci senza radici.
Viaggiare troppo.
Viaggiare troppo poco è degli uomini di pietra. Di chi si lascia levigare, immobile, dal vento e dall’acqua,
di chi si fa formare o deformare senza resistenza se non quella del duro materiale di cui è fatto.
Chi viaggia poco ha la pazienza dello sguardo fisso, impara i particolari di un paesaggio e se ne nutre senza la nausea per quel cibo sempre uguale. Chi viaggia poco ha lo sguardo e lo stomaco di ferro.
Qui. Dopo. Lì. Adesso.
La gente mi passa davanti veloce e stanca, euforica e dormiente. Ognuno ha il suo bagaglio, un biglietto, una destinazione. E un tempo, il tempo di mezzo nel quale possiamo, provare almeno, a di-venire.
Siedo invisibile e solo
… Io siedo invisibile e solo
tra monti e foreste: la sera
non freme d’un grido, d’un volo.
Io siedo invisibile e fosco;
ma un cantico di capinera
si leva dal tacito bosco.
E il cantico all’ombre segrete
per dove invisibile io siedo,
con voce di flauto ripete,
Io ti vedo!
da “Nella macchia” di G. Pascoli
Un timido e veloce batter d’ali
C’era una volta, in mezzo al mare, al centro della pancia del mondo, una terra triangolare. Una terra antica e incantata. Questo triangolo di roccia e sabbia, terra fertile e pianure proveniva dal fondo del mare. Dagli abissi vedeva luccicare sulla superficie una luce irresistibile, splendente, come un richiamo di voci magiche, come uno scintillare di vita esagerata. Il triangolo non riuscì a resistere e con grande sforzo e intenso dolore si staccò dal resto della terra nel fondo del mare e con stupore e timore e incontenibile felicità si affacciò in superficie.
Sale, sole, vento, nuvole e pioggia, estate e inverno! Il triangolo si copri di piante e di verde, di fiori colorati, di frutti spinosi e succosi, di animali veloci. Oh, la sua gioia era così grande che la faceva tremar tutta, sentiva il fuoco dell’esistenza scuoterla da cima a fondo.
Un giorno assistette, incredula, al morire quotidiano del sole. Come credere vero e possibile quell’abbraccio di vita e morte?! Come poteva l’inabissarsi della luce, dar vita a tanta bellezza? Il sole calava, giù e ancora giù, sulla linea di confine del mare e tutto era avvolto dal silenzio. Era così commossa la terra triangolare che pianse lacrime di fuoco e le sue lacrime vennero in superficie formando un cratere, potente e di inusuale bellezza.
In tutto il mondo si sparse la fama di questo abisso di mare venuto alla luce e gli uomini fecero a gara tra loro per potervi abitare. La terra sorrideva nel vedere sulla sua pelle quell’avvicendarsi di volti diversi, lingue dai mille suoni, culture multiformi. La gente che cominciò ad abitarla aveva tante facce, frutto felice di fantasiosi innesti. La terra era così bella che tutti gli abitanti non poterono che divenir poeti e narratori, artisti, cavalieri ed eroi.
Ma la bellezza della terra triangolare cominciò a far gola anche al terribile drago che si nascondeva fra le crepe delle sue rocce. Il drago depose ovunque le sue uova e riempì quella terra, devastandola. Fece alleanze di morte con gli altri draghi della superficie terrestre portando morte e distruzione. Seminò fuoco e fiamme che germogliarono voraci nel cuore di molti abitanti. Il respiro dei draghi provocava fumi tossici che avvelenavano i frutti succosi della terra. Molti dei visi felici d’incontri meticci divennero tristi e il triangolo di terra si sentiva risucchiare nelle profondità buie del mare. Molti uomini e donne lottarono coraggiosi contro il drago e i suoi alleati e morirono bruciati e soli al crepitar furioso delle loro fiamme.
Ciò che il drago non sapeva, però, era proprio che la cenere di quegli uomini e di quelle donne ricadeva sulla terra rendendola fertile e leggera. E così, chi tra gli abitanti non abbondonò la speranza di sconfiggere il drago, si accorse del fecondo e spontaneo germogliare di quelle ceneri. In silenzio e con molta fatica mischiarono ad esse il sudore del loro lavoro e la terra si ricoprì di nuovi fiori. I draghi totalmente inebriati della loro potenza non abbassavano neppure lo sguardo su quei piccoli lavoratori, sulle loro zappe e sul loro sudore, così impegnati com’erano a guardarsi gli uni gli altri per sfidarsi e dimostrare la supremazia della loro forza.
Gli uomini e le donne continuarono a lavorare, notte e giorno, i fiori cominciarono a crescere, a moltiplicarsi e a rivestire il triangolo di terra come di un abito da sposa. Al veder tanto candore delle piccole e silenziose creature chiamate Farfalle, cominciarono a migrare verso quella terra di sole e di sale. Con le loro piccole ali colorate affrontorono viaggi lunghi e pericolosi per potersi nutrire di quei fiori di cenere e sudore. Arrivarono a milioni. Volavano basse e silenziose, si moltiplicarono dando alla terra un fremito continuo di metamorfosi. Volavano basse, si, e i draghi alti e possenti non si accorsero della loro presenza, fino a quando divennero così tante le Farfalle da circondare completamente i draghi fino al ventre. Con il loro timido e veloce batter d’ali provocarono un intenso solletico ai piedi e alla pancia dei draghi, così intenso e così continuo che i draghi non riuscirono a resistere. Solleticati in ogni dove da quelle ali d’aria persero l’equilibrio e rovinarono giù, chi fra le crepe infuocate della terra chi nel fondo del mare profondo. Cadderò tutti e non ne sopravvisse neppure uno!
Il triangolo di terra si sentì riemergergere, respirò forte e si abbandonò a insperati sorrisi. Le Farfalle restarono per sempre sulla sua pelle e il profumo dei fiori si diffuse su tutto quel mare d’intenso blu al centro della pancia del mondo.
Moderazione e sano egoismo
necessarie la passione e l’audacia in grandi dosi, cose che abbiamo come e
Quello che veramente mi abbatte è la tua mancanza di comprensione in tutto questo, e i tuoi consigli sulla moderazione, l’egoismo ecc., cioè le qualità più esecrabili che possano esserci in un individuo. Non solo non sono moderato ma cercherò di non esserlo mai, e quando riconosca in me stesso che la fiamma sacra ha lasciato il posto a un timida fiammella votiva, il meno che potrò fare sarà mettermi a vomitare sulla mia stessa merda. Riguardo al tuo cosiddetto moderato egoismo, cioè, l’individualismo meschino e vigliacco, ho fatto molto per liquidarlo, non precisamente quel tipo ingrato, pusillanime, ma l’altro, il bohemien, incurante del prossimo e pieno del sentimento di autosufficienza per la falsa coscienza o meno della mia stessa forza. Sbagli profondamente nel credere che dalla moderazione o dal “moderato egoismo” saltino fuori grandi scoperte o capolavori d’arte. Per tutte le grandi opere è necessaria la passione, e per la rivoluzione sono necessarie la passione e l’audacia in grandi dosi, cose che abbiamo come esseri umani.
E. Che Guevara, Lettera alla madre dal carcere del Messico.
E poi spirisci
Ma cu si tu, occhi niuri,
funnu mistiriusu di biddizza.
Calamita ca mi scippa lu cori
di lu pettu, pi fallu scinniri
dintra lu pozzu ca si tu.
E poi, però, t’ammucci e ti nni vai
e sugnu sula, dijuna di li to paroli
ca mi danno forza e ciatu.
Ma cu si tu,
ca comu faru t’affacci
comu un mago addumi u mari di faiddi,
ca sugnu io lu mari sinza lustru di luna,
sinza stiddi.
E comu un ciuri di campu
a spiranza mi germogghia nta l’ossa
e poi spirisci.
E secca lu sangu nta li vini
e lu cori chiù un s’abbivira.
Ma cu si tu,
unna nta la riva
c’arrivi e m’arrifirschi di l’arsura
e t’arritiri
e un ti pozzu taliari
e ieccu li me mani e strinciu li pugna,
ma tu t’ammucci e un ti fai pigghiari.
Ehm…No, niente.
L’etimologia della parola niente è incerta, dicono i vocabolari. Perfino le sue origini lasciano un senso di vuoto, una certa instabilità. Niente, probabilmente dal latino ne inde, nec entem, con molta probabilità nec gentem. La parola niente è per lo più utilizzata in contesti di negazione e sofferenza: “Non vali niente“, “Non mi importa niente“, “Non sei niente“. Chi è capace di venir fuori indenne da costrutti grammaticali così?
Non è solo negazione dell’esistenza è anche negazione di ogni originalità, di ogni compassione: “Per te (lui, lei, l’altro!) non provo niente“. E si, come quando da bambini si cade e mamma e papà, per non scoraggiare i primi passi, esclamano: “Dai, su, non ti sei fatto niente!”. E ci si convince, benevolmente e tenacemente che sia vero così, nonostante i graffi e il dolore (seppur momentaneo) del sedere sul pavimento!
E poi, cosa dire di quando si vede una persona amata pensierosa e preoccupata e ci si avvicina per chiedere: “A che pensi? Cos’hai?”, per sentirsi rispondere: “No, niente!”.
Niente è artifizio, maschera indossata alla fatica di comunicare e forse anche di dire a se stessi cosa fa male o, semplicemete, cos‘è che proviamo e che pare, però, incondivisibile, poco importante agli occhi degli altri.
Niente è negazione del corpo, ma il corpo non prova mai il niente. Forse non capisce, forse non sa esprimere un sintomo, forse serve la fatica di collegare una sensazione al sentimento corrispondente, ma, il corpo, è un continuo accadimento di cose, fosse solo del sangue che circola, del cuore che pompa, dei polmoni e dell’ossigeno in sinergia.
“Niente paura/niente panico”, lo si sente dire, sempre, quando i motivi per provar paura e scatenare il panico sono così veri ed evidenti da essere innegabili! Come nei films americani: il fuoco divampa tra gli uffici di un grattecielo e il polizziotto, sudato e ansimante, esclama: “Niente panico!”, nel medesimo istante in cui il protagonista si accorge degli abiti del migliore amico avvolti dalle fiamme!
Niente è il termine che segna la frattura del dialogo, quando non si riesce ad andare avanti e la relazione si infrange: “È inutile che continui a parlare, non c’è niente che può farmi cambiare idea”. Che senso di disperazione e rabbia provoca l’infrangersi delle nostre ragioni sulle convinzioni dell’altro.
“Non c’è più niente da fare”. È il colpo mortale inferto alla speranza.
E poi, quando sì è a fianco di una persona alla quale si vuole dire qualcosa di importante, di veramente nostro; mentre lei parla di tutt’altro, ci si concentra per trovare il modo giusto d‘esprimere quello che vogliamo dire, il coraggio necessario a farlo, cominciamo a borbottare qualcosa, l’altro si gira, ci guarda ed esclama: “Cosa?” E noi: “Ehm…no, niente“.
Niente è l’aggancio mancato, il contatto non avvenuto. È il rinnegamento di ogni responsabilità. E, infatti, quando i ragazzini giocano senza prudenza e capita che il più piccolo fra loro rovini per terra, il più grande si rivolge all’adulto vicino, alza le braccia e afferma: “Io non gli ho fatto niente!”.
Niente è il desiderio degli altri per noi quando soffriamo, come se negare il motivo del dolore fosse un modo di evitare la sofferenza.
Il niente è il contrario della realtà. È la separazione di una parte dal tutto a cui appartiene. È minimizzare, dire che qualcosa non è importante, è il grottesco tentativo di negare le nostre reazioni.
“Non è successo niente“, è il re degli ossimori! L’accadere e il niente non sono compatibili, la vita e il niente sono contrari inconciliabili! Noi siamo un flusso continuo di avvenimenti, un incessante procedere di fatti, un misterioso seguitare di pensieri, un incalzante proliferare di sensazioni. Tutto ci coinvolge e a tutto noi reagiamo. E quando la nostra reazione ci travolge, ci coinvolge fin dalle viscere e ci svela parti di noi inesplorate, quando non sappiamo cosa e come fare, lo smarrimento diviene terreno fertile al germogliare del niente, che, in realtà, vuol dire: “Non capisco cosa mi accade, non so cosa succede, non riesco a dire quello che provo!”.
Se solo riuscissimo a descrivere quanto ci attraversa mentre ci attraversa, descrizione del sentire senza categorie e senza timore di inciampare su definizioni che non ci appartengono! Forse saremmo tutti più fragili, esposti ai pericoli dell’incomprensione, impauriti dalla consapevolezza di ciò che siamo, di come siamo eppure vivi, presenti, esistenti.
Ci su i ciuri in funnu u mari
– Io, mi chiamu Illuminata.
– Io mi chiamu, Luciu.
– E c’è u mari unni stai tu?
– Se! E ci su i pisci! E quannu c’è a luna china, cantanu.
– Lucio era un cummidianti! Quannu ci virìa ci iava sempri a vidillu. Ma pure l’orbi u virianu a Luciu! Era na festa.. Poi iu chiuria l’occhi e u sintia: “Illuminata, Illuminata, Illuminata, illuminata! Vuccuza ruci…occhi ri fata! Na canzuni d’amuri iu ti vulissi cantari, ma tu un mi senti ed io ti ti pozzu sulu taliari”. Lucio era innamuratu ra luna. Ma era lariu, era sciancatu, immurutu, aveva un brazzu sulu…e a luna unnu vuosi! Na notti si misi na varca e sinniu in mezzu u mari e un turnò, chiù.
– Chistu è u mari!
– Chi granni! Un finisci mai…
– Finisci unni finisci u cielu!
– Chi ciauru!
– Ci su i ciuri in funnu u mari… Si unu cari a mari, si vagna! U mari e comu l’acqua!-
– Cu è chiddu na varca?
– Luciu! E’ innamuratu ra luna e a voli iri a truvari.
– E picchì firrìa sempri intunnu?
– Avi un vrazzu sulu! Mischinu!
– Mischinu! E comu fa a rimari!
da Lucio di Franco Scaldati
Sutta Terra
“S”, nella tavola periodica indica lo zolfo. Sulfur in latino, Sufra in arabo, in siciliano Surfaro. U surfaro per la Sicilia è odore forte che protegge le viti, che colora le foglie e custodisce l’uva buona. Ma è anche sfruttamento e violenza, il dolore di chi lavorava tra i cunicoli delle miniere ad esplorare l’inferno. Al buio, nudi e mezzi morti, eppure tanto disperati e forti da portare sopra le spalle il peso dello zolfo e di una vita senza futuro. Uomini fin da 7, 10, 12 anni.
L’esperienza lo dice, la letteratura lo racconta, la tradizione lo insegna: con la morte si convive cantando. E così i minatori sotto terra, i contadini sotto il sole, cantano, compongono melodie, a sostegno della vita, per corteggiare il destino e sopportare il sudore e i sopprusi dei padroni.
Sembra la descrizione di un tempo lontano, di vicende passate, oggi, qui, adesso, dove la terra si coltiva giocando su facebook e le miniere fanno sentire solo l’eco lontana della loro presenza. Tutto questo, invece, ci appartiene, ancora, quella fatica, quel destino, il sudore e le melodie che sostengono la vita. Si può scegliere: sganciarsi dalla storia o mettersi a scavare, a mani nude, per ritrovar le radici e fare nuovi innesti e desiderare nuovi frutti.
È la decisione presa dai Pupi di Surfaro, band di San Cataldo, composta da giovani musicisti. Dal 2006 i Pupi di Surfaro si son messi alla ricerca della tradizione a cui sanno di appartenere.e qualche giorno fa ho incontrato Salvatore Nocera, voce dei Pupi di Surfaro e autore delle musiche e dei testi e ho deciso di consegnare questo incontro alle pagine accoglienti di Eufemia.
Dalle radici, da lì abbiamo iniziato. Metafora abusata, forse, ma, se usata in assenza di retorica, immagine ancora capace di descrivere con potenza la realtà. La composizione dei testi e delle musiche dei Pupi di Surfaro prende vita attraverso tre fasi di un unico processo: ricerca, studio, elaborazione personale.
La ricerca nasce dalla curiosità, dal desiderio, dalla consapevolezza di non poter essere realmente se non attraverso la conoscenza di ciò che sta dietro di noi, sotto di noi, ciò che ci sostiene, il terreno dal quale siamo emersi, germogliati, nel quale cresciamo. Ma questa curiosità ha bisogno di studio, della lenta assimilazione del patrimonio della cultura siciliana e di tutto sud.
“Ho cominciato ad interessarmi di musica popolare, tradizionale, facendola e facendola malissimo e, dunque, rendendomi conto della necessità di studiare, di lavorare, di approfondire vari livelli e vari ambiti dello stesso settore. Così, piano piano, i Pupi di Surfaro sono cresciuti“. La terza fase è l’elaborazione, quel momento nel quale ciò che si è studiato, ricercato, desiderato, assimilato deve venir fuori, trasformato e nuovo: “L‘impegno artistico proiettato verso il futuro non decolla se non si conosce cosa ci ha preceduto, cosa abbiamo dietro” – spiega Salvatore Nocera.
“Un albero – continua – se ha radici forti cresce folto. Potandolo, curandolo, lo si può indirizzare verso mille direzioni, ma non si può tagliare il tronco e portare la chioma da un’altra parte, perchè l’albero muore e non porta frutto“.
L’ispirazione, croce e delizia di ogni artista, non è, dunque, esclusivamente qualcosa che ti viene a cercare, quel sentimento, quell’emozione, quel pensiero che, in quanto artista, appunto, si è in grado di riconoscere e di decodificare perchè tutti ne possano godere. L’isperazione vuole spesso essere cercata, scovata: “Scegliere l’argomento, individuare una storia e costruire un percorso drammaturgico. Musica e parole devono nascere insieme, la musica e l’interpretazione camminano di pari passo con la storia che si vuole raccontare“.
Ignazio Buttitta, Rosa Balistreri, Giuseppe Pitrè, Pino Veneziano, sono solo alcuni tra gli artisti siciliani ai quali i Pupi di Surfaro si ispirano. Leggendo alcuni dei testi di questi autori, ripercorrendo la loro biografia, non si può fare a meno di notare come la loro vita artistica sia strettamente legata all’impegno politico e sociale. Forse è la Sicilia che lo richiede, più di altre terre, più di altri popoli: “Per me questa unità è imprescindibile. Io quando recito, quando scrivo, quando canto sono sempre io, Salvatore Nocera, parlo di me, di quello che vedo e sento, di quello che vorrei…non lo so. Non sono un politico. Certo l’artista interpretando la realtà non può far a meno di esprimere un giudizio e il giudizio esprime già un desiderio. La volontà di incidere sulla realtà è implicita nella descrizione che della realtà stessa si fa. Mi rendo spesso conto di quanto le mie proposte siano folli. E però, mi piace pensare che proprio la mia follia possa essere concreta ed efficace“.
Sutta terra è il nuovo album dei Pupi di Surfaro. In questo disco che rappresenta la volontà di “fare sul serio” sono coinvolte diverse realtà importanti: Libera, Addio pizzo, No Muos, Musica contro le mafie. Lo sottolinea più volte Salvatore Nocera: “La cosa importante è mettere insieme la gente, collaborare, fare rete, essere uniti. I Pupi di Surfaro combattono i vincoli, i legami, le gabbie, le costrizioni mafiose, suonando e cantando, mettendoci la faccia“.
Ed è una faccia che piace al pubblico la loro. La musica dei Pupi di Surfaro coinvolge interamente chi ascolta, ne muove il corpo avvolgendolo con la musica e ne attira l’attenzione con le parole. Le canzoni sono vere e proprie storie e non ci si può e non ci si vuole distrarre, fino alla fine. Si balla e si pensa, si ascolta e ci si interroga. Daniele Grasso lo ha capito, e ha deciso di promuoevere attraverso la Dcave records il lavoro dei Pupi di Surfaro adesso che il loro frutto comincia a maturare.
Salvatore Nocera ed io diamo forma al nostro incontro utilizzando domande e risposte, parole, silenzio, riflessioni e dubbi. Ci interroghiamo, inevitabilmente, sull’identità dell’artista: “L’artista ha un ruolo fondamentale nella società. Messo all’angolo dai poteri forti cerca di far scricchiolare le certezze. La nostra società si fonda su certezze, su sicurezze finte. Finte, semplicemente perchè le certezze non esistono. E allora perchè continuare a ricercarle? Perchè continuare a basare la nostra vita su di esse? Il compito dell’artista è insinuare dubbi. Scava, l’artista, cerca di andare in profondità e si accorge che la realtà, profonda, non corrisponde quasi mai alla realtà visibile, quella alla quale tutti cercano di aggrapparsi. Questa incongruenza crea già un certo senso di disadattamento“.
Che l’artista sia, in qualche modo, un “disadattato”, lo dicono in molti. Tuttavia sono numerosi coloro che rifiutano etichette, definizioni. Eppure quando è l’esperienza ad essere condivisa, realtà e luogo comune si fondono, al di là di ogni ribellione e volontà: “L‘artista è un disadattato perchè manda a fanculo il mondo ogni giorno e però si rende conto che di quel mondo ha bisogno. É sempre quello che fa fatica ad accettare l’altro, ma, allo stesso tempo, dell’altro, non può farne a meno. Io sul palco ho scoperto e ritrovato il mio spazio. Se non avessi fatto l’artista sarei diventato eremita o vagabando o carcerato, cioè non sarei riuscito a stare in mezzo alla gente in modo normale. L’arte, il palcoscenico, lo spettacolo mi permette di istaurare una relazione con gli altri che non avviene a livello razionale, intellettivo, ma emozionale. Artista è colui che non riesce ad istaurare un rapporto affettivo vero se non attraverso la propria arte. E fa, paradossalmente davanti a centinaia di persone, con centinaia di persone, quello che non riesce a vivere nella vita quotidiana“.
I Pupi di Surfaro sono uno tra i numerosi buoni frutti che il rinnovato fermento culturale dell’isola sta producendo. In modo costante e silenzioso la Sicilia continua ad esercitare sul mondo un forte potere di attrazione: affascina, innamora, sa strordire e distruggere, ma anche custodire ed esaltare. La fiducia è un sentimento che i siciliani nutrono con pudore. Eppure quasta vita artistica che nel grembo della Sicilia si muove e la mantiene viva, nonostante tutto, alla fiducia mi costringe perchè è anche la mia vita di scrittrice ad essere in gioco: “La forza degli artisti siciliani sta nella loro capacità di innestarsi alle radici della tradizione dando vita però, a qualcosa di nuovo, di inedito. Ciò che ci manca, ancora, è la capacità di incanalare la nostra energia su strade che conducono ad obiettivi importanti“.
I Pupi di Surfaro hanno vinto l’edizione 2013 di Musica contro le mafie con il brano “Cantu d’amuri”: una serenata alla Sicilia, ispirata alle parole e all’esperienza di Peppino Impastato.
Con le parole di Cantu d’amuri si è concluso il mio incontro con Salvatore Nocera; sono parole che ben descrivono l’amore e la rabbia, la dignità e l’identità di chi si ostina a voler esercitare l’arte, a far l’artigiano utilizzando musica e parole, la propria storia e la terra.
Vogghiu cantari no pi fari scrusciu, chiù nun s’abballa e nun si fa baccanu! Unni c’è scuri vogghiu fari lustru, sulu cantannu mi senti omu!