A costo zero

(Foto di Muhammed Muheisen)

(Foto di Muhammed Muheisen)

Un mese e dodici giorni. Scuola superiore e un’altra città. Ma dopo un mese e dodici giorni dall’inizio della scuola, la mia sensazione è la stessa, più o meno. Certo, qualcosa è cambiato: posso usare qualche espressione in dialetto con i ragazzi, condivido con loro la stessa congenita nostalgia negli occhi, in quella tonalità originale che appartiene di diritto ai palermitani e riesco a costruire un dialogo più diretto rispetto a quanto potevo fare con i non-più-bambini-quasi-ragazzi delle scuole medie. Ma il disagio nel rapporto con l’Istituzione-scuola è lo stesso, anzi, cresce a dismisura.

Un mese e dodici giorni e la mia casella di posta è già piena zeppa di circolari che specificano doveri e divieti: Non arrivare tardi, non uscire prima, se hai bisogno di un permesso devi avvertire, se ti devi assentare per malattia devi comunicarlo entro le 7.45, altrimenti devi portare prova provata della ritardata comunicazione, oltre al certificato medico (tipo che se ti senti male e ti viene da vomitare alle 10 o vai a scuola e vomiti in presidenza oppure ti fai un selfie inginocchiata davanti al water del tuo bagno, in modo da giustificare il fatto che non hai avvertito entro le 7.45!); non mettere note tranne che un alunno non ti punti una pistola alla tempia e non mettere insufficienze a chi ha un problema, di qualunque tipo, vero o presunto, che “non si sa mai ci fanno ricorso!”. L’azione legale è la paura più grande dei dirigenti, è il manico del coltello con il quale famiglie sempre meno consapevoli del ruolo della scuola tengono in ostaggio ogni forma di azione educativa. Non sequestrare i cellulari (sopratutto quelli costosi), non rimproverare, non gridare, e se ci riesci non respirare fino al suono della campana! Non violare privacy, neanche per chiedere: “ehi, ti fa male la testa?”. E se un alunno in preda a crisi epilettica ti sta per morire in classe non somminastrare farmaci, neanche quelli salvavita che ha nello zaino, mai mai e poi mai! Lascialo lì e chiama il 118! Mantieni il controllo, sempre e comunque, non stancarti, non soffrire, non compatire, non farti coinvolgere.

Le classi non hanno porte né cartine, un cancellino per corridoio e quando finisce il gesso puoi tagliarti le vene e scrivere con il sangue. In bagno non esiste la carta igienica e se per caso ti dimentichi di portare un fazzolettino, puoi scegliere tra la vasta gamma di parolacce e bestemmie scritte sulle pareti e sulle porte. Però abbiamo i registri elettronici! Si, più o meno. Solo in alcune classi. E per le altre? Ti appunti tutto sull’agenda e poi ti colleghi da casa. E vogliamo parlare dei grandi passi avanti fatti grazie a questa tecnologia? Se i ragazzi, minorenni (la maggior parte cioè) arrivano in ritardo, prendono un brutto voto o si assentano, il registro invia un avviso ai genitori del malcapitato/a. Ai tempi miei per comunicare una nota o un brutto voto bisognava imparare l’arte dell’attesa: aspettare il momento opportuno, saperlo riconoscere e cogliere, trovare il coraggio di affrontare i genitori, ammettere l’errore, provare a ripararlo, recuperare. Adesso no. Adesso nessuna attesa e nessun momento opportuno. Decide la macchina. Siamo convinti, evidentemente, che i ragazzi non siano più capaci di gestire se stessi, non hanno bisogno di imparare a farlo, la vita ha altre esigenze. Nessuna responsabilità. Gli innocenti marciscono in galera, i corrotti governano gli stati. Va bene così.

Abbiamo scelto la settimana corta, perchè fa molto Stati Uniti d’America, ciò significa che i ragazzi alle scuole superiori entrano alle 8 ed escono alle 15. Sette ore in pochi metri quadrati (perchè le nostre scuole non sono come quelle degli Stati Uniti d’America!), tranne 20 minuti di ricreazione, seduti, in aule senza alcuna bellezza. Chi ha la sfortuna di dover fare lezione all’ultima ora ha la possibilità di vedere nei loro occhi il fuoco rosso di una rabbia compressa pronta ad esplodere, la noia, la fame, la testa altrove. Le scuole non hanno spazi esterni adatti a far lezione fuori, e comunque non possiamo portarli da nessuna parte: “E se cadono? E se si fanno male?”. Non ci sono fondi per organizzare progetti, per pagare figure competenti e specializzate per inventarsi nuove modalità di lezione. Quando si va in presidenza per condividere l’idea che ti è venuta, magari mentre stendi il bucato, perchè a cosa e come fare ci si pensa tutto il giorno, non ti fanno neppure finire di parlare: “Si, ma è a costo zero per la scuola?”.  E tu ti alzi e te ne vai, in silenzio, e invece vorresti far esplodere la stessa rabbia rossa e compressa degli occhi dei ragazzi e urlare a squarciagola che l’idea di una scuola a costo zero ti fa schifo! Ti fa schifo la burocrazia, la mortificazione della tua professionalità, ti fa schifo lo squallore degli ambienti a cui tutti sembrano assueffatti, ti fa schifo lo stato di polizia nel quale devi agire ogni giorno e che piano piano diventa anche il tuo modo di ragionare, ti fa schifo che a sedici anni i ragazzi non sanno cosa sia e dove si trovi a Palermo la Cappella Palatina, la Cattedrale, il palazzo Steri, ti fa schifo che esprimano tutti, ognuno a suo modo, il desiderio di fuggire lontano da questa terra maledetta che ti fa crescere con il complesso di appartenere alla parte sbagliata dell’Italia. Ti fanno schifo le riforme che si sono divorate ogni  progetto educativo riducendo pelle e ossa le fondamenta della società civile.

La scuola si regge sulle spalle di docenti che inspiegabilmente credono ancora al lavoro che fanno, che suppliscono all’ignavia di altri, che non si impuntano su questioni di principio, che decidono di correre rischi e prendersi responsabilità. Ieri, ai consigli di classe si parlava di tutto: qualche considerazione sugli alunni, qualche lamentela, un paio di frecciatine al collega rompipalle, cosa fanno sta sera in tv e quanto sono buone le melenzane fritte cucinate domenica. E secondo me è un bene che sia così. Magari fosse sempre così, magari la scuola fosse una comunità che condivide gioie e dolori, piaceri e dispiaceri di questa bizzarra cosa che è la vita. Perchè la vita, come la scuola, non può essere, mai, a costo zero.

Presente, muto.

(foto di Martin Vlach)

(foto di Martin Vlach)

Ho guardato un muto negli occhi.
E’ muto l’amore di chi fugge il contatto,
la pelle che sfiora la pelle.
Ho guardato un muto nel cuore,
forse ho divorato io le tue parole?
Fisso le labbra senza riposo,
aspetto di vedere il buio della bocca appena socchiusa,
quelle tenebre che solo il fiato dirada veloce.
Il suono, la lingua che danza,
gli occhi vivaci che tengono il ritmo.
Ho resistito in equilibrio,
sul filo di terra a strapiombo sul niente,
passi quotidiani all’indietro
per sfuggire al silenzio che divora lo spazio.
Tra noi praterie sterminate di desideri incolti,
fiori, erbacce e alberi forti.
Muto l’amore dai piedi di piombo,
che non corrono,
che non fuggono,
né lontano né vicino.
Se corro via, tu resti lì,
se rimango non ti avvicini di un passo.
Ovunque io vada, la distanza non si allunga,
ovunque io sia, tu resti qui.
Presente e muto.
Il silenzio sazia la rabbia,
i fantasmi trattengono il sonno in ostaggio
e fanno della notte, giorno
e del giorno tenebre fitte.
Muto e in tempesta il mare,
furioso e silenzioso
con il porto sempre a vista
e irragiungibile,
un’ancora senza terra da toccare
che scende a vuoto
legata ad un filo infinito.
E non è vero niente
e non è falso niente.
Solo la mia voce,
solo i miei errori
recitati a memoria davanti allo specchio.
Il tempo non trova più la strada
non procede diritto
non ha meta,
si attorciglia attorno al corpo,
lega i piedi,
copre gli occhi,
serra le mani
e gira e gira.
La speranza vanitosa
cambia ogni giorno la sua veste,
si tinge, si trucca, cambia faccia
ed è estranea ogni volta,
vicina e irriconoscibile.
Sono io che non sento?
Sono io che non sento?
Ho perso l’udito e la fame,
sono io che non sento.
Amore muto,
labbra serrate da dolori antichi,
che le tue parole trovino la via di uscita,
e possano crescere forti,
posarsi ovunque, germogliare,
arrampicarsi veloci sui muri,
saltare gli ostacoli,
attraversare i mari.
E alle mie orecchie, rese sorde dalla troppa attesa
possa giungere notizia, un giorno,
delle tue labbra socchiuse alla gioia.

Senza

(Red Bushes. Sukoro, Hungary 2012.)

(Red Bushes. Sukoro, Hungary 2012.)

Fulmini, graffi, sberleffi, palazzi.
Letto rifatto, frigo ordinato, il pane è infornato.
Lavato il bambino, ingrassato il pulcino,
cibo imballato e vino in bottiglia,
amore di plastica gusto vaniglia.
Ho ferito un limone e il sangue è di ghiaccio
raddrizzato un bastone, incurvato il cemento,
il giusto giustifica senza sgomento.
Tuono ustionato, fiume seccato,
cervello sott’olio, cuore condito,
le dita a pezzetti sul pianoforte,
il vento arrabbiato che sbatte le porte.
Il senso è svenuto, la ragione è in crociera,
il corpo innocente marcisce in galera.
Le mani che giocano a nascondino,
i fiori che crescono sopra un cuscino.
Il buio che avanza a piedi scalzi,
la morte elegante si sazia di avanzi.
Le urla si pettinano davanti allo specchio,
la vita che vomita dentro ad un secchio,
le osse bucate si fanno collana,
lo stomaco scappa dentro alla tana.
La luce che passa in un baleno,
il futuro che mette i freni ad un treno,
l’amore che brucia nel caminetto,
le carezze non trovano alcun difetto.

Ti scrivo ogni sera, da quasi vent’anni.

(foto di Alberto Tozzi)

(foto di Alberto Tozzi)

Ti scrivo ogni sera, da quasi vent’anni.
Nessuno lo sospetta, una donna non scrive.
Mi pensano intenta a filare la tela per Laerte, impegnata a far cose consone alla mia condizione di donna e di regina. Se solo qualcuno tra quanti mi circonda fosse veramente interessato a me, si sarebbe reso conto che per filare, sfilare e rifare mi bastano ormai poche ore al giorno, dopo tanti anni si diventa esperti nei movimenti sempre uguali a se stessi. Mi guardano con desiderio i Proci, ma nessuno realmente possiede occhi per me. Il loro sguardo è avido, nel mio corpo riflettono la propria immagine, una virilità dal sapore dolciastro di vino, unta come il grasso delle bestie che divorano con morsi ingordi.

Ti scrivo ogni sera, per nostalgia, per amore e per rabbia. La nostalgia dei tuoi occhi, l’amore per te, per la tua vita, per il tuo corpo e per la tua anima profonda come il mare sul quale ti aggiri vagabondo, la rabbia per la tua esistenza libera, per le avventure, per la possibilità di scegliere, per il pericolo sfidato a duello ogni giorno, per la tua barba incrostata di sale. A volte mi assale il terrore, quando non riesco a ricomporre, con la perfezione che vorrei, i tratti del tuo viso; ad ogni tramonto, con il sole, perdevo un po’ della nitidezza con la quale ho provato e provo a ricordarti, e se non ti ho perduto del tutto è stato perché ti ho visto rinascere e crescere ogni giorno sulla faccia di Telemaco. Se solo avessi più coraggio, se solo fossi io per prima libera dal ruolo al quale tutti mi condannano, sarei capace di elaborare un piano per liberarmi dai Proci che invadono la nostra casa e che mi rubano la vita. Certi giorni sento dentro di me la forza necessaria a compiere la strage: li abbatterei uno ad uno con la precisione di un arciere. Saresti fiero e invidioso per la lucidità con la quale ad ognuno strapperei il cuore dal petto, sempre che gli dei abbiano donato a queste belve un cuore di uomini! Si Ulisse, amore mio, li abbatterei tutti come alberi nella foresta e di rabbia e voglia di vivere me ne resterebbe a sufficienza per imbarcarmi alla ricerca di te.

Quando qualche forestiero si ferma ad Itaca in cerca di ristoro e racconta alcune delle tue gesta, lascio alla gioia libertà di invadermi il cuore di quella felicità che piove copiosa sulla speranza dei vivi in attesa, la felicità di avere notizie di te, vivo. Ma poi, quando credendo di non essere da me ascoltati raccontano dei tuoi amori, delle figlie di dei invaghite del tuo coraggio che ti trattengono fra le loro braccia e le loro gambe di giovani ninfe, la gioia lascia posto al furore della gelosia ed io vorrei liberarmi di te come dei Proci, abbatterti senza pietà e libera da ogni legame ricostruire la mia vita, una vita di poco amore e troppa attesa. Si, vorrei lasciare Itaca, il mio popolo e i doveri di regina e confondermi tra altri popoli e altre terre dove deporre le armi dell’attesa, dove l’ombra di un passato felice non mi avvolga di paura, dove l’ansia di un futuro incerto non mi costringa ad attendere albe, all’infinito; dove esiste solo il presente e la vita che possiedo davanti agli occhi, ogni giorno.

Voi, uomini, che sfidate la morte in combattimenti senza esclusione di colpi, che rischiate la vita per un insulto o un ideale o una vendetta, come se di vita ne aveste sempre in abbondanza, come se guardare la morte negli occhi fosse solo un modo per crescere in potenza e onore, fama e coraggio! Tra voi e il sangue non c’è il ritmo e l’armonia che noi donne conosciamo, voi con il vostro corpo che muta solo dall’esterno, voi  che decidete tutto e tutto distruggete, voi unica voce del potere. Le vostre ferite guariscono, i vostri tagli si rimarginano e le cicatrici sono i vostri trofei.

Ulisse mio amore e mia disgrazia, sono sicura che a tutti tu parli di me e giuri con profonda certezza che ad Itaca la tua sposa ti attende, fedele. Fai bene a giurare, Ulisse, sulla mia fedeltà, anche se ne ignori la fatica, tu…tu che neppure sospetti a quali ancore la mia fedeltà si aggrappa per resistere alle tempeste. Non al dovere Ulisse, né alla dignità di regina, non al pudore né al vincolo delle nozze, ma a me stessa Ulisse, a quello che di me vedo e scopro durante le ore infinite che trascorro nelle mie stanze, fingendo di tessere, appoggiata al telaio come fosse il timone di una nave. So viaggiare anch’io Ulisse, senza solcare nessun mare se non quello che dentro di me si agita mostrandomi terre sconosciute e paesaggi mai visti. Tu credi di sapere chi sono, ma ciò che io sono è come la sabbia che stringi nel pugno ad ogni naufragio dal quale gli dei ti risparmiano: granelli innumerevoli che scappano alla presa forte delle tue dita e che al sole luccicano, che le onde uniscono al loro passaggio e che il calore spacca, secca e separa. Io sono cose che tu non sai, possiedo volti che tu non hai mai visto.

In questi lunghi e feroci anni, la notte, dopo aver messo a letto Telemaco e atteso il russare ingordo di tutti i Proci, quando le ancelle hanno rassettato ogni cosa e gli anziani dell’isola appendono al chiodo le loro cetre, io rimango a vegliare su me stessa, a tessere la tela invisibile della mia anima, a combattere battaglie feroci con la vecchiaia che mi rapisce gli anni e la bellezza del corpo. In questo campo di battaglia io, Penelope, sono morta e tornata in vita mille volte, mutando i lineamenti di un’esistenza che per te è ormai solo un ricordo. Ulisse, uomo curioso e vagabondo, supplico gli dei che al tuo ritorno io sia per te terra ancora vergine, mistero capace di trattenerti, vicino e coinvolto. E se così non fosse, la fedeltà di cui ti sei vantato sarà quella che mi porterà lontano da te e da una vita che non può più essere mia. Tu navighi e giri il mondo, accechi i ciclopi ed espugni Troia, così cambi te stesso, così cambi me. Ed io…io vivo, vivo questo tempo di vuoto e di violenza, di povertà e dolore, Ulisse amore mio, nella speranza che la mia vita testarda possa mutare, come le onde la roccia, un giorno, anche te.

Settembre senza titolo

Foto di Herbert List.

Foto di Herbert List.

Pensavi fossero eterne le mie risate?
Gioco di rincorse tra le ombre del vento.
Fuori
trema la terra di lievi sospiri.
Dal buio alla luce,
le tue palpebre d’oro,
si apre e si schiude la bocca
un migrare di sillabe mute.
Lontano,
riposa il corpo stremato,
l’occhio non dorme,
fame, sete, scintille.
Tutto il presente in un punto
fisso
il passare dei giorni.
Fuoco di viscere in fiamme,
il sangue su palmo di mani,
foglie di rami sugli occhi.
Viene il futuro all’indietro
cieco
su strade di fame.

Di notte, a Palermo.

(foto di Lucia e Giulia Lo Porto)

(foto di Lucia e Giulia Lo Porto)

S’addummisciu lu celu
e lu scuru mi trasiu nta l’ossa.
Lu cori, lu me cori si voli manciari!
Pi saziarisi di tia, ca dintra di mia t’ammucci.
Ti truvau a tenebra, amori miu,
ma io scappo e curru
e t’addifiennu e ieccu vuci,
ca lu scuru si scanta
di li peri nudi
ca currunu nta la notti
,
si scanta di l’occhi mei
d’amuri addumati,
si scanta di mia ca cantu,
di li balati ca luciunu di luna,
di i statui vistuti di biancu,
di la storia,
ca ferita a morti un chiui l’occhi
e s’attacca a li mura
e risisti.

Si è addormentato il cielo
e il buio mi entra nelle ossa.
Il cuore, il mio cuore vuole divorare!
Per saziarsi di te, che dentro di me ti nascondi.
Ti hanno trovato le tenebre, amore mio, ma io scappo e corro
e ti difendo e grido,
perchè le tenebre si spaventano
dei piedi nudi che corrono nella notte,
temono i miei occhi vivi d’amore,
si spaventano di me che canto,
della strada che brilla di luna.
delle statue vestite di bianco.
della storia che ferita a morte
non chiude gli occhi,
ma si attacca alle mura
e resiste.

Non l’ho fatto apposta

Foto di Alexandre Chamelat

Foto di Alexandre Chamelat

L’estate che sta  per nascondersi alle nostre spalle mi pare sia durata appena un momento. Un tempo piccolo ma profondissimo, tanto da contenere il mio epico ritorno a Palermo, il diffondersi raccapricciante dell’Isis, la follia omicida dei bombardamenti su Gaza, la morte di Robin Williams e perfino qualche briciola di vita quotidiana: giornate al mare, sere sul dondolo ad ascoltare i grilli, molti gelati e le risa degli amici.

Ma oggi, beh, oggi è il 1° settembre. Il giorno mitologico nel quale mia madre spariva da casa per venire divorata, fino al prossimo giugno, dal mostro dai mille volti: la scuola.
Da un po’ di tempo, questo mostro poliedrico divora anche me. Quest’anno a Palermo, però. E non è affatto un particolare di poca importanza. Ovviamente precaria, ovviamente incarico su due scuole. Più o meno il rituale del 1° settembre mi è familiare, ma ogni anno, devo dire, mi riserva sempre nuove sorprese. Quest’anno poi si tratta di scuole superiori e anche questo particolare non è di poca importanza.

Arrivo puntuale. Entro, mi dirigo al banco del collaboratore scolastico. Lo trovo circondato da cinque uomini dei quali non riesco a capire la funzione e lo riconosco per la sua posizione centrale, di comando, e perchè, ogni tanto, si sporge a controllare coloro che varcano la soglia: “Salve, io sono una nuova docente”. Lui, da seduto, mi guarda, dalla testa ai piedi, lentamente (siamo a Palermo appunto) e mi dice: “Mi fa veramente piacere, signorina”. Non posso rendere l’accento né la mimica facciale, ma vi assicuro: uno spettacolo! Mi indica il luogo nel quale si terrà il tanto famigerato Collegio dei docenti, ma non sto molto attenta alle sue indicazioni, so che mi basterà seguire il flusso migrante degli uomini (pochi) e delle donne (tante) e il rumore, allegro e scoppiettante, delle chiacchiere. Mi guardo attorno, davvero la scuola è lo specchio della società. E la società palermitana è, infatti, tutta degnamente rappresentata. Sono ancora in piedi che si baciano, si abbracciano e si guardano in cagnesco. A differenza di Roma, qui si è abbronzati tutti, belli e brutti, ricchi e poveri. A Palermo ci si abbronza con l’aria, lucida e calda anche nei luoghi più lontani dal mare. Si accosta un collega, giovane: “Sei una nuova collega?” (la domanda più gettonata della giornata), vorrei rispondere: “No, sono la commessa del supermercato, volevo vedere se è vero che gli insegnanti non fanno nulla tutto il giorno”. Invece sorrido e rispondo di si. “Insegni religione, dunque? – mi dice – Avrai di che riflettere”. Ma che vuol dire? Forse nota nel mio sguardo una punta di smarrimento e aggiunge: “No, è che ca su tutti vestiti alla moda, ma la testa ce l’hannu vacanti”. Ah. Acquisisco l’informazione. Il Collegio comincia, procede e finisce nel brusio totale e costante. Cerco di ascoltare le parole della preside e allo stesso tempo non rinuncio al mio vizio di rubare qua e là spezzoni di dialoghi, nutrimento prezioso per le mie storie.  Non posso voltarmi in continuazione e allora ascolto, tanto avrò un intero anno per abbinare le voci ai volti corrispondenti. Non resto delusa. Scopro che il collega dietro di me ha fatto un lungo viaggio in macchina, in Spagna, ma ci tiene a sottolineare che non accadrà mai più perchè gli è venuta la gastrite e pure le emorroidi, per la cronaca. C’è chi racconta dei figli, chi dei nipoti, chi si lamenta di guai che gli hanno rovinato l’estate, chi è traumatizzato dal pensiero che dovrà ricominciare a svegliarsi presto. C’è chi sparla i colleghi, chi si sottopone, sereno e rassegnato, al terzo grado della vicina di sedia.
A Collegio finito, faccio un giro delle aule: la scuola senza i ragazzi sembra un enorme mostro che dorme. Quando arriveranno sarà tutto più chiassoso e meno spaventoso, spero.

Guardo l’ora, scappo. Devo raggiungere l’altra scuola, almeno per conoscere gli impegni della settimana. Chi arriva a Collegio terminato con la scusa di essere stato nell’altra scuola ha poche speranze di risultare simpatico al primo impatto. Qui sarà tutto in salita. E infatti, su suggerimento della segretaria, raggiungo l’ufficio della vice-preside e la trovo al suo tavolo circondata da un gruppo di fedelissimi. Busso, entro, interrompo, mi presento. Questa volta li deludo per ben due volte: la prima perchè erano sicuri di indovinare la mia età: “Non hai più di 28 anni!”, e io invece affermo con convinzione di averne 34; la seconda perchè non si aspettavano che una giovane o presunta tale, alta quasi un 1,80 mt con tre piercing all’orecchio potesse insegnare religione. Mi guardano talmente seri dopo la mia risposta che a me viene da dire: “Si, sono una prof.ssa di Religione, ma…non l’ho fatto apposta”.

Alle 12.30 riprendo la via di casa. Spossata dal caldo, dalle valanga di parole ascoltate, da tutti quei volti che non conosco e  che nascondono storie di cui non so ancora nulla, alcune delle quali, in un modo o in un altro entreranno a far parte della mia. Li guardo i miei nuovi colleghi e mi chiedo a quali di loro, di sinistra, forse, dovrò dimostrare di non essere bigotta e ottusa, a quali cattolicissimi prenderà un colpo quando sapranno che non porto al polso il bracciale di p. Pio e che non so nulla sulle apparizioni della madonna, chi mi fermerà tra i corridoi chiedendomi con aria minacciosa e disperata cose come: “Ma se Dio c’è, perchè il male?”; chi sarà disposto ad ascoltarmi, con chi potrò collaborare, chi sarò capace di avvicinare davvero. Non ho potuto fare a meno di notare, negli uuffici, quei crocifissi messi all’angolo, adornati con fiori di plastica tra la croce e la parete o con secchi rami d’ulivo risalenti a chissà quale pasqua e mi chiedo se saprò dire una parola, una sola parola vera, sensata, umana su di lui. Poi mi informo con la segretaria dai capelli ossigenati riguardo alla firma del contratto:
– “Aaaancora! Presto è!”.
– “Ma…veramente a Roma ho firmato nelle prime settimane di settembre…”.
– “N’ca picchì signorina lei a Roma era?”.
– “Si”.
– “E a lei cu ciu fici fari di tornare a Palermo!”.
– “Ma…Non l’ho fatto apposta”.
Si ricomincia, insomma, a vivere in equilibrio disinvolto su superfici verticali.

In attesa di verità e giustizia

Riproponiamo, a quasi un anno di distanza, questo articolo. Oggi, proprio oggi. Per ricordare Paolo e gli agenti della scorta. Dall’anno scorso poco è cambiato…Se non il fatto che “Eufemia” è tornata a Palermo, ma senza guarire dalla sua nostalgia. Palermo ti riempie di nostalgia di sé anche e sopratutto se ci vivi dentro.

In attesa di verità e giustizia.

La morte, non uccide i vivi.

n

“…Quella volta che la morte
gli è passata proprio accanto…
Lo ha guardato di traverso
e se ne è andata zoppicando…”  (F.De Gregori)

O a Palermo o all’inferno!

Da quando ho deciso di tornare a vivere a Palermo ho l’impressione che tutto a Roma mi rivolga lo sguardo. La città mi guarda, mi guardano le strade, i platani, i gatti di Torre Argentina. Mi guardano i turisti, i conducenti dei bus, i gabbiani, il Tevere, il Cupolone. Mi guardano senza fiatare. Non dicono nulla. Uno sguardo muto e intenso. Uno sguardo al quale non si può rispondere se non con occhi muti e intensi.
“A Palermo?” – mi ha chiesto un’amica, al telefono, con un tono interrogativo simile a quello che avrebbe avuto se gli avessi detto che ero in partenza per combattere la guerra santa in  Pakistan.
– “Si, a Palermo”, ho risposto io.
– “Ma l’insegnamento lì te lo danno?”
– “No”.
– “E quindi lasci uno stipendio sicuro, a Roma, per tornare a Palermo…”
– “Ehm…Si”.
– “A Palermo?”.
– “Si, ti ho detto, a Palermo”.
– “Che immagino sia la stessa Palermo dove siamo cresciute e dalla quale sono scappata”.
– “Si, è la stessa”.
– “E tu ci torni dopo tre anni di vita a Roma dove hai un lavoro sicuro senza garanzia di un qualsivoglia stipendio…”
– “Esatto”.
– “Aaaaaah… (silenzio). Ma perchè????????”.
– “Non lo so esattamente. Ma devo farlo, anzi no non devo, voglio farlo…So che è giusto così, so che voglio provare a vivere con le cose che Roma ha donato a me, di me”.

Roma, tre anni fa sono arrivata da te con degli obiettivi da raggiungere, una manciata di desideri e qualche dubbio. Adesso ti lascio con molti obiettivi mancati, desideri inediti e una valanga di dubbi. Quello che ero te lo sei rosicchiato poco a poco, quasi senza che io potessi accorgermene per poter lottare con te ed evitare che accadesse. Hai estirpato con pazienza quasi tutte le cose che pensavo di sapere e che credevo di dover/voler essere. Son partita da casa tanto pigra da non voler fare neppure un bollettino alla posta, adesso torno a Palermo in grado di far ripartire la caldaia, smacchiare i vestiti, cucinare, sterminare le formiche, entrare e uscire dall’ospedale, litigare con i vigili urbani, farmi le punture da sola, dire la mia ai consigli di classe, leggere un contratto, tenere a bada 400 ragazzini a settimana, asciugare le prime lacrime di un cuore spezzato, compilare il modulo per le ferie, usare un registro elettronico, capire come si entra e si esce dal raccordo anulare; so organizzare una rassegna stampa e so come si gestisce la diretta di una trasmissione radio, so fare la scaletta di un programma e so che non bisogna credere a tutto quello che viene detto nei corridoi della Rai. E, alcune volte, so perfino fare queste cose quasi contemporaneamente.
Mai avrei immaginato quale vita mi stavi preparando mentre abbattevi ciò che conoscevo, Roma città piena di segreti. Mai avrei immaginato di saper resistere alla vita con tale costanza, mai avrei creduto di saper condividere il pane del mio lavoro con la solitudine di cene piene di inverno.
Roma, mi hai insegnato a saziarmi delle briciole, raccolte con pazienza nei lunghi tragitti in tram. Racimolare i frammenti della vita degli altri e poi rovistarci dentro alla ricerca di un’esistenza che tutti ci accomuna. Ho mille tramonti di cui ringraziarti, infiniti passi donati, generosi e furiosi, alle tue strade.
Roma, che mi hai nutrito di Pasolini e temporali, di strade innevate a festa e di notti calde in attesa di vacanza.
Roma, che mi hai insegnato a parlare e che generosa e severa mi hai fatto recuperare con fretta violenta il necessario per vivere.
Roma, che hai mischiato la mia carne e il mio sangue con la carne e il sangue di tutti. Roma benedetta, che mi hai insegnato la bellezza di essere normale, di camminare sconusciuta e sola dentro all’ammasso intricato del mondo:

Stupenda e misera città, 
che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci 
gli uomini imparano bambini,

le piccole cose in cui la grandezza 
della vita in pace si scopre, come 
andare duri e pronti nella ressa

delle strade, rivolgersi a un altro uomo 
senza tremare, non vergognarsi 
di guardare il denaro contato

con pigre dita dal fattorino 
che suda contro le facciate in corsa 
in un colore eterno d’estate;

a difendermi, a offendere, ad avere 
il mondo davanti agli occhi e non 
soltanto in cuore, a capire

che pochi conoscono le passioni 
in cui io sono vissuto:
che non mi sono fraterni, eppure sono

fratelli proprio nell’avere 
passioni di uomini 
che allegri, inconsci, interi

vivono di esperienze 
ignote a me. Stupenda e misera 
città che mi hai fatto fare

esperienza di quella vita 
ignota: fino a farmi scoprire 
ciò che, in ognuno, era il mondo. (P. Pasolini)

Roma, adesso devo andar via, proprio adesso che ho imparato a vivere insieme a te la lunga lotta del trascorrere quotidiano del tempo. Torno a casa, ma non torno a ciò che ho lasciato. Di quanto ho lasciato non esiste più nulla se non il mare e l’affetto di una famiglia che non è solo legame di sangue, ma radici pazienti e profonde che ci intrecciano gli uni gli altri. Lo so che Palermo è una città feroce. Ma so che posso reggere il suo sguardo adesso. Lo so che Palermo non avrà riguardo per me e che non mi riserverà nessun trattamento di favore per essere tornata. Rimmarrà così com’è, bellissima e violenta e quando incassando i suoi colpi  mi accascerò con un filo di sangue che esce dalla bocca, lei mi dirà seria e con voce ferma: “Io non ti avevo promesso niente”.
WP_20140530_044Palermo che non prometti niente, io torno da te lo stesso. Posso, adesso, che ho imparato a sopportare l’assenza del compimento. Voglio, adesso, che non sei una resa, ma una scelta. Posso, adesso, ora che ho imparato a non aver paura dei miei squilibri ora che sorridendo apro la porta ad una strana e folle forza che diventa parole da scrivere e disegni tra le dita, idee e progetti da rischiare, ora che la vittoria la vedo nella possibilità di esistere e non soltanto nella capacità di realizzare, anzi, ora che la vittoria non è più un traguardo da tagliare.
Palermo Palermo, è inutile che mi guardi così. Io lo so. Lo so che queste cose che ho imparato sono solo una piccola parte dell’equipaggio necessario a vivere dentro al tuo assedio. Ma io torno lo stesso.
Torno sapendo che ti maledirò e ti amerò, e ti urlerò dietro la tua crudeltà e rimarrò muta davanti a te. Ma se non torno, adesso, i semi che Roma mi ha piantato dentro non marciranno e non ci sarà frutto. E non provare a vivere secondo quanto si intuisce vero è l’unica morte che oggi temo.
Bixio: Generale, finalmente siamo giunti nella tanto desiderata città di Palermo.
Garibaldi: Nino, domani a Palermo.
Bixio: Riusciremo ad entrare in questa città, generale?
Garbaldi: Nino, o a Palermo o all’inferno! (M. Cuticchio).