T’amo con cuore di rame
che faticoso fuoco senza morir contiene.
T’amo con cuore di rame
che faticoso fuoco senza morir contiene.
Domani, domani, domani è tardi.
Il corpo muore.
Il corpo non aspetta.
Non camminare spalle al futuro.
Ho gambe corte, la strada è profonda, si affonda.
Pensi: niente! Non accadrà niente.
Tutto dentro di te e il mondo vuoto.
Il mondo, guscio di piombo.
Fammi uscire, fammi uscire!
Le cose non cambiano, il mio desiderio è fuoco che non forgia.
Avvolge tutto, brucia tutto e tutto resta della stessa forma.
Apri gli occhi e guardami.
Guardami, una volta sola,
toccami, una volta sola.
Gli occhi, aprili! Non ti voltare.
Conosco le tue spalle a memoria,
il tuo sguardo è fulmine catturato di fretta
che non sa trasformarsi in ricordo.
La tua voce, raccontami chi sei! Non tacere.
Conosco i tuoi silenzi, a memoria
e il mio amore è un film muto.
“…il pubblico ne era soggiogato. Ma da che cosa, dopo tutto? Soltanto da un paio di bambole di legno con le articolazioni snodabili, fantasticamente rivestite da un’armatura di latta e fatte muovere su un palcoscenico in miniatura.
Però c’era qualcosa di più; c’era la voce del lettore, la voce di lui che parla.
Nella prima parte della serata ci aveva dato una buona declamazione, che era quanto si pretendeva da lui. Con l’incontro tra le due principesse ebbe la sua grande occasione; attaccò la scena e la svolse in tono di grande persuasività e, con la voce rotta dall’emozione, ottenne un trionfo.
L’arte è ricca di miracoli, e non è dei minori che un uomo possa prendere pochi, annacquati luoghi comuni e trasformarli, con la magia della sua voce, nel vino d’oro del racconto cavalleresco. Il pubblico beveva avidamente le fulgide gocce che stillavano dalle sue labbra, immobile in un silenzio rotto soltanto da un gran singulto al calare del sipario. Che cosa importava loro di bambole di legno snodate o di palcoscenici in miniatura? Non erano più a teatro. Avevano vagato per i boschi con Marfisa, avevano cercato Bradamante nelle radure ombrose, l’avevano trovata morente nella grotta, ne avevano raccolto l’ultimo respiro, e il mondo per loro non sarebbe più stato lo stesso. Una voce capace di tanto è rara e, come la forza di un gigante, ancora più raro è che si trovi in possesso di uno che la sappia usare degnamente.
da Un inglese all’opera dei pupi di Henry Festing Jones
Tremula s’apre la mano
le dita di resa, sconfitte.
E’ l’inizio. E’ la fine.
Cade, bagna la terra, nessun rumore
sangue di una vita intera,
frutto maturo di semina
senza raccolto.
L’amore miracoloso si fa vedere
adulto, all’improvviso
tutto nudo e intero
appare
agli occhi bagnati d’addio.
Venite, Venite!
Ho doni per tutti:
pelle, ossa,
lacrime e vene,
i respiri
prendete ogni cosa.
Che nulla resti d’unito.
Ovunque la mia pelle canterà di te,
ovunque le ossa suoneranno il tuo nome,
le lacrime bagneranno su ogni sabbia i tuoi piedi
le vene uniranno come filo d’oro i tuoi passi
e il respiro spingerà lontano le vele.
Tutta la fatica d’esser viva tra i vivi,
fiorita dentro ai tuoi occhi,
ogni felicità attesa dal mondo,
germogliata fra le tue mani.
Che ne hai fatto del ghiaccio di tutti i miei inverni?
Ora, spogliata
d’amore nudo
entro a piedi scalzi
nella bocca del mondo.
Ho visto la vita intera, sul mare di Palermo in un riflesso di sole.
Ora sono come un pescatore che tira in barca le reti. Tiro, sollevo, fatico, ma le reti non hanno fine. Ho le braccia stanche e le dita di sangue. Le reti sono fili di lama.
Quel riflesso sul mare della mia città mi aspettava, un’imboscata.
Ha atteso con la pazienza di un cacciatore ed ha esploso il suo colpo appena mi ha vista sotto tiro. Un minuto prima e mi avrebbe mancata, un attimo dopo e mi avrebbe soltanto ferita di striscio. Sarei scappata impaurita e la cicatrice al braccio si sarebbe amalgamata con le cellule fino a non ricordare più nulla.
La mira è stata perfetta. E non c’è cellula che possa inghiottire i segni di quell’esplosione.
Palermo di colpi ne ha sentiti fin troppi, eppure non è mai sazia. Gli scoppi di morte si perpetuano all’infinito, rimbalzano dall’asfalto ai cimiteri, dai cimiteri alle pagine dei giornali, dai giornali alle aule dei processi, come un’eco che non trova riposo.
Gli scoppi di vita non rimbalzano, invece, gli scoppi di vita entrano nel corpo e rimangono in circolo. Trasformano da dentro, giorno dopo giorno. Ci si prova a dimenticarli, si, ma invano. Non si può. Si vorrebbe affidarli al primo cumulo di spazzatura all’angolo di qualsiasi strada, è la paura di scoprirsi capaci di realizzazione, ma per quanto ci si agiti restano attaccati alla pelle.
Non c’è pensiero o sentimento, paura o sussulto del cuore che non sia intrecciato come filo di lana ad un altro, al luogo dove viviamo. Una maglia che non si può sfilare, che non può in alcun modo tornare ad attorcigliarsi come un gomitolo.
Uno scoppio di vita acceca la vista e la percezione della pienezza non è data dal comprendere o intuire cosa esattamente accadrà, ma dalla visione di una potenza possibile, qualunque sarà la sua declinazione.
L’acqua era di cristallo. Circondata di sabbia e di roccia color deserto. Qualche metro dietro le mie spalle il grigio dell’asfalto, in cielo un sole fuori stagione, inopportuno. Un insieme di opposti, un impasto impossibile, elementi differenti che pure hanno imparato a convivere in uno spazio condiviso.
Non si dimentica il disagio né la rabbia di dover abbracciare con lo sguardo, ogni giorno, la gloria e l’inferno, la bellezza e la vergogna.
La rassegnazione dura un momento. L’animo si ammala di sconfitta solo se resta incapace di viaggiare nel tempo:
lo splendore del passato, la miseria del presente, la speranza del futuro,
la miseria del passato, la speranza del presente, lo splendore del futuro,
la speranza del passato, lo splendore del presente, la miseria del futuro.
Quando s’innalzano case di pietra con fondamenta profonde in quello che fu, che oggi è o forse sarà domani, si resta prigionieri di un solo momento che si perpetua inesorabile nel tempo.
Il vento era leggero. L’acqua tremava appena e i cespugli selvaggi ondeggiavano lievi.
Palermo lotta contro i giganti. Anch’io. Non sempre dalla sua parte, ma sempre al suo fianco. Vince una volta su mille, eppure non si ritira. Vince quando la posta in gioco è bassa, a notte fonda, quando il popolo abituato alla vittoria dei giganti si è appisolato, accasciato su sacchi pieni di monete d’oro, facile bottino del più forte.
Cosa accade nella vita di uomo in un sol giorno? Dal mattino fino a sera, quante volte respinge l’assalto dei briganti, quante volte si ritrova i piedi immersi nel fango, quante volte è incoronato re, quante volte difende se stesso e sfida a duello i suoi fantasmi? Quante volte batte la ritirata e mangia il pane amaro del fallimento?
C’era silenzio. Ogni voce taceva a bocca aperta. Ovunque lo stupore delle cose, quando comprendono di poter accadere. Vedere con i propri occhi l’impossibile possibile, per un istante appena e la visione diviene esperienza e l’esperienza è la chiave che apre le porte d’ogni prigione.
Tutto può accadere. Il mare respira.
Caro Abuna Paolo,
a un anno e quattro mesi dal tuo rapimento torno a fare la cosa più inutile che posso: scriverti. Lo faccio perchè è il tuo compleanno, mentre il mondo intero con la preghiera o con un pensiero, con la stima e con l’affetto ti abbraccia, silenzioso e presente.
Alla mia prima lettera, scritta il giorno dopo la tua scomparsa per le strade di Raqqa, avevo affidato parole di sconcerto, parole di rabbia.
La rabbia, quella forza che mantiene in vita in mezzo a qualunque inferno, fino a quando si intravede, seppur lontana, una possibile via di uscita. Quando l’orizzonte si è ormai oscurato, quando le macerie superano in distruzione ciò che resta in piedi, allora alla rabbia deve far posto il coraggio, deve subentrare la pietà.
La Siria è morta.
Ci avevi avvertiti, lo hai fatto in ogni modo, hai urlato, pregato, parlato ovunque, cercando di richiamare l’attenzione di tutti, poi hai deciso di andar da solo per provare a resituire ai Siriani la loro pace e a te stesso quella promessa di Dio che è tutta la tua vita.
Ci vorranno decenni per ricostruire il paese, e anche quando le case saranno di nuovo in piedi, il popolo erediterà a lungo, di parto in parto, le ferite del nostro abbandono e della violenza subita.
Ti penso ogni giorno, e ho paura. Mi spaventa di più saperti vivo e consapevole della tragedia, con il cuore colmo di un dolore senza guarigione, che pensarti morto a questa terra ma vivente, faccia a faccia con il tuo Dio.
Ho desiderato di vederti tornare, di poterti avvistare all’orizzonte, ombra gigante da abbracciare, pensavo: quando tornerà sarà bellissimo! Ora, io voglio imparare a desiderare ciò che tu desideri. E tu, Paolo, cosa desideri?
Tagliano le teste. Rapiscono le donne. Cancellano l’infanzia. Sono bestie feroci. E a tanta violenza noi rispondiamo con le bombe dal cielo, privi di ogni pudore trasformiamo il luogo della speranza in pioggia di fuoco.
Possediamo parole che sono barattoli di latta, rumore e ruggine .
Per sembrare affidabili e ancora potenti abbiamo taciuto, armato gli eserciti e fatto scorta di munizioni.
Ricordi? Dicevi che il conflitto fa parte della realtà, che sottrarsi ad esso, fuggire, non affrontarlo, non assumerlo nella nostra esitenza rende ideologi, xenofobi e violenti.
Il desiderio di libertà del tuo popolo è stato troppo per noi. Cosa potevamo fare, così occupati come siamo a contare, spicciolo dopo spicciolo, i nostri euro e i nostri dollari agonizzanti! Rischiare forse? Perdere quello che avevamo per condividere il pane della democrazia e della pace? Potevamo mettere da parte la nostra ben delineata appartenenza religiosa, per mischiare i nostri abiti buoni della domenica ai vostri piedi nudi? Potevamo forse impegnarci a capire cos’è l’Islam, che pulsa e lotta per sopravvivere alle spalle di un estremismo dal volto coperto?
Paolo, a scuola parlo di te. Parlo di te e della Siria davanti a giovani vite dagli occhi vergini, capaci di visione, come dici tu. E dico loro che, al di là della devastione, esistono ancora le persone, esistono i siriani, e che da essi si deve poter ricominciare. Lo faccio per non perdermi, per rimanere ancorata alla speranza di un mondo diverso. Lo faccio per non perderti, perchè il bene di chi ci ama ci strappa ogni giorno alla fame della morte.
Buon compleanno Abuna Paolo. Ovunque tu sia e qualunque sofferenza tu stia patendo, resta con gli occhi negli occhi del tuo Signore. E se è la vita che vuoi, invocala! Sii forte. Fagli sentire in faccia il fiato e la saliva delle tue grida, giorno e notte. Io, lo faccio con te. E se è la morte che vuoi, se sei stanco, Paolo, chiedila, fuori dalle barricate della dottrina, dove hai sempre vissuto, con la confidenza dei vecchi amici, con la dolcezza degli amanti, come solo può fare chi ha intrecciato la sua sorte all’esistenza di Dio. Io, lo faccio con te.
http://www.paolodalloglio.net/
Occhi cechi ca sannu unni iri,
u piscaturi di notti a mari,
n’capu na varcuzza in mezzo a lu scuru
Unni t’innisti vita lucenti?
Ti vitti, lampu nta la notti.
Unni t’innisti?
Ti cercu strati strati
trazzeri e sassi, nta li vigni.
Ti cercu nu funnu di lu mari,
sutta terra spinciu li vrazza
e u focu m’abbrucia li mani.
Unni t’innisti vita lucenti?
Ciuri servaggiu senza viddani,
e giri e curri e scappi
mentri firrìu, io
senza rispiru.
Pigghia a spada e cummatti,
chiantala dintra lu cori di la morti
di lo so sangu inchiti i manu
e poi dunami carizzi
e ammutilisci ogni scantu.
Cummogghiami di ventu,
parrami, vucca vicina
lo to ciatu mi grapissi l’occhi,
aria, lustru, rispiru.
Unni t’innisti vita lucenti?
Occhi ciechi che conoscono la direzione,
un pescatore di notte
su una barca avvolta di tenebre.
Dove sei fuggita vita lucente?
Ti ho visto, lampo nella notte.
Dove sei fuggita?
Ti cerco per le strade
fra le campagne e i sassi, nelle vigne.
Ti cerco in fondo mare,
spingo le mie braccia fin sotto terra
e il fuoco mi brucia le mani.
Dove sei fuggita vita lucente?
Bocciolo selvatico
che giri e corri e scappi
e io su me stessa giro e rigiro
senza respiro.
Sfodera la tua spada e combatti
piantala profonda nel cuore della morte,
del suo sangue riempiti le mani
e poi accarezzami
facendo muta ogni paura.
Ricoprimi di vento,
parlami, bocca vicina
che il tuo fiato apra i miei occhi
aria, luce, respiro.
Dove sei fuggita vita lucente?
La terra ha le viscere. Sotteranee e profonde.
Tra i cunicoli di queste viscere umide viveva una Ragazza. Non era nata lì, viveva in superficie, prima. Sottoterra c’era finita un giorno, per caso. Aveva sbagliato strada, si era persa, gli avevano fracassato il senso dell’orientamento, fu una vile aggressione. Un gruppetto di uomini e donne ben organizzato, vestiti di scuro, tutti uguali. Cercava la strada, la Ragazza. “Unisciti a noi” – gli disse il gruppetto, all’unisono, avvolto di tenebre. La Ragazza li seguì, ma poi si accorse che si addentravano in profondità, sempre più in fondo, sempre più al buio. E allora, la Ragazza, sentì nelle sue di viscere un istinto insopprimibile di luce, un desiderio di aria che la stordì. Si voltò, di scatto e si diresse correndo nella direzione opposta alla loro. Se ne accorsero quasi subito, cercarono di riacchiapparla, ma erano vecchi e storpi, e lei aveva piedi giovani, e correva. Si voltò, appena un attimo, per sentirsi rassicurata dalla distanza conquistata, ma una donna avvolta di buio la guardò e riuscì a fracassarle il senso dell’orientamento, ad avvelenare le radici buone del suo istinto.
Rimase sola e immobile. Il silenzio e il buio attorno. Cominciò a vagare in cerca di un’uscita. Niente. Passarono gli anni, e pensò diverse volte di essersi avvicinata alla luce, di vederla filtrare sotto la spessa coltre di terra, pietra e radici profonde. Niente. Nessun varco. Un giorno, camminava con gli occhi bassi e il buio dentro, occhi abituati alle tenebre e inciampò. Si ritrovò con la faccia a terra e mentre si tirava su cercava con le mani di spazzar via dal volto la polvere nera del suolo. Non era un sasso, né un ramo, non un cumulo di terreno indurito dalla siccità. Era inciampata in qualcosa di caldo e morbido, qualcosa che si muoveva e parlava:
“Ahi!”, disse infatti.
“Scusa!”, esclamò la Ragazza spaventata;
“Chi sei?”, rispose ancora dolente la voce dentro al buio.
“Io sono la Ragazza e tu?”, silenzio. “E tu?”.
“Parli con me?”,
“E con chi se no!”.
“Io sono il Mago”, disse, alzandosi in piedi.
“Un mago!?
“No, il Mago!”.
“Cosa ci fai qui?”, esclamò la Ragazza sempre più incredula.
“Non lo so bene – disse il Mago – sono alla ricerca di una nuova strabiliante magia”.
“Wow”, disse la Ragazza, mentre sentiva crescere nel suo cuore la gioia di aver qualcuno, vivo, con cui dialogare.
“Perchè non mi aiuti!”, gridò con entusiasmo il Mago, spalancando i suoi occhi grandi e scuri che però la giovane non poteva vedere.
“Aiutarti? Io? E come? Non so far niente, ho il senso dell’orientamento fracassato, non so mai dove vado, cosa faccio”.
“Non importa! – disse sorridendo il Mago, spalancando la sua bocca in un sorriso luccicante che gli occhi della Ragazza non potevano ancora vedere – sono sicuro che mi sarai d’aiuto”.
La Ragazza era confusa e anche spaventata, per un attimo pensò potesse essere uno del gruppetto di tenebre tornato ad ingannarla, ma la voce di quel Mago aveva qualcosa di luminoso e vivo che non gli sembrò compatibile con il buio.
Si misero a camminare uno accanto all’altra, senza una direzione, in cerca di una nuova strabiliante magia. Il Mago aveva piedi buoni e tanta voglia di camminare e ogni tanto saltellava alzando polvere e facendo traballare i sassi. Alla Ragazza non importava non sapere dove si trovasse davvero il Mago, se dietro o davanti, a destra o a sinistra, amava la polvere e il traballare dei sassi perchè voleva dire per lei non essere più sola. In altri momenti, invece, il Mago rallentava, e procedeva con andatura felpata e silente. La Ragazza allora con voce tremante sussurrava: “Ci sei?” – “Ci sono”, rispondeva il Mago con voce serena.
Durante quel folle procedere senza meta il Mago raccontò alla ragazza di essere cresciuto in un castello grigio e isolato e di aver deciso un giorno di catapultarsi giù da un balcone e di correre a valle, inseguendo l’allegro mormorare del villaggio. Lì conobbe tante persone semplici e buone e giocando con i bambini si accorse di esser capace di magia. Dalle sue dita venivano giù fiumi di luce brillante, arcobaleni e farfalle, ma nonostante tutto questo non riusciva a cacciare dal suo cuore tutto il grigio del castello. La Ragazza lo ascoltava trattenendo il respiro e sentì dentro di sé che qualcosa si muoveva. Ebbe paura, ma non disse nulla. Percossero le viscere della terra in lungo e in largo, raccontandosi il passato e immaginando un futuro dentro alle tenebre. Nonostante la Ragazza avesse imparato a percepire i passi felpati e silenziosi del Mago, le piaceva ogni tanto esclamare: “Ci sei?”. E il Mago ne era felice perchè lui amava risponderle: “Ci sono”.
Un giorno mentre si raccontavano il futuro la Ragazza sentì i piccoli movimenti avvertiti dentro di sé, ogni giorno, diventare un terremoto, le viscere si agitavano senza sosta, il cuore e le ossa sembravano muoversi a passo di danza. Si fermò, ansimò spaventata e felice. Il Mago si accorse che la ragazza si era appoggiata alla parete di un cunicolo e le si avvicinò. Piano. Piano. Voleva toccarla, sfiorarla appena, ma le chiese: “Posso avvicinarmi?”. La Ragazza sentiva tutta la vita agitarsi dentro di lei, nei piedi, nel naso, tra i capelli e disse: “Si, avvicinati”. Il Mago fu felice e stava per farlo, senza indugio, ma si fermò, lì, dentro al buio, trattenendo il respiro perchè capì cosa stava accadendo, fu un attimo e con voce calma chiese alla Ragazza: “Spiegami dove sei esattamente, perchè possa avvicinarmi”. Senza neanche pensarci la Ragazza gli gridò: “Sono qui! Davanti a te cioè non davanti, ma…di fronte, a sinistra”. Il Mago per essere sicuro che la strabiliante magia si stesse realizzando davvero le chiese: “Sinistra? Ma la sinistra qual è?”, e la Ragazza, senza indugio: “Dalla parte del cuore!”. Appena pronunciate quelle parole, scoppiò in un pianto di gioia, rendendosi conto che era stata di nuovo capace di orientarsi, di individuare coordinate, di offrire indicazioni, di distinguere. La felicità era incontenibile e il Mago fece appena in tempo a raggiungerla per evitare che la Ragazza si accasciasse a terrà per la troppa emozione. Appena i due si toccarono, furono riportati immediatamente in superficie, alla luce del sole. La Ragazza vide gli occhi grandi e scuri e il sorriso scintillante del Mago, e nel cuore del Mago si prosciugò ogni residuo di grigio. Nessuno dei due sapeva cosa sarebbe accaduto adesso, cosa del futuro immaginato sottoterra potesse diventare realtà. Uno di fronte all’altra, mano nella mano si guardarono a lungo e l’unica cosa che la Ragazza riuscì a dire fu: “Ci sei?” . “Ci sono”, rispose lui.