Lettera dall’inferno

(foto di Martin Vaissie)

(foto di Martin Vaissie)

Dovevano essere in ventuno, ma oggi erano in sette. Certo, avrei potuto fare la mia lezione ugualmente, anche perché me l’ero preparata con cura…avrei potuto, appunto. Ma non l’ho fatto. Che ho fatto? Sono andata alla rierca di territori sconosciuti. Ho provato a capire chi avessi davanti, ho cercato di cogliere qualcosa della loro vita, quella che a scuola non si vede, quella che resta sommersa sotto gli zaini posizionati sui banchi tipo muro di Berlino. Ho scoperto cose, oh… che Cristoforo Colombo oggi mi pare uno che si è affittato il pedalò per fare il giro della piscina. G. ha 17 anni, ma è ancora al secondo anno, vive al CEP e per venire a scuola al mattino si sveglia alle 6.00. Il primo autobus passa alle 6.45. Forse. Perché può essere pure che passi dopo mezz’ora o che non passi affatto, facendo saltare il resto delle coincidenze. Quando questo succede arriva in ritardo. “Minchia lo vede prof. quando mi dicono gli altri prof. che arrivo in ritardo perché l’autobùs un passò e loro mi rispondono: Ti alzi prima! E manco mi talianu na facci! Minchia prof. io divento nervoso, perché mi posso susiri puru ai quattru, ma l’autobùs dal CEP prima delle 6.45 non passa!”.

Cosa fanno i ragazzi della mia scuola quando non sono scuola? Giocano a calcetto. Quasi tutti. E durante la lezione è questo che guardano sui cellulari, guardano le scarpette Nike con i tacchetti buoni per la terra battuta. Si allenano tre volte a settimana. E la cosa forte degli allenamenti e che ti stanchi fino allo sfinimento, che butti via tutta la rabbia per come sei e non vorresti, per come è la tua famiglia e non vorresti e per quella che ti piace e ti saluta un giorno si e uno no a saltare però, che manda all’aria pure la regolarità dell’attesa. E poi ci sono gli spogliatoi dove ci si ricarica con le urla, gli scherzi, con il rutto libero e pisciando un po’ dove capita, senza regole. Ovviamente non manca la playstation, anche se la musica è la padrona assoluta del loro tempo fuori scuola. G. ascolta musica rap che si divide in due gruppi però, il rap duro e quello da musica commerciale. Cosa piace del rap? Piacciono le storie, le storie che parlano delle cose che loro vedono e sentono e sanno e desiderano.

A questo punto la mia esplorazione vuole andare fino in fondo e allora chiedo a G. di farmi ascoltare la sua canzone rep preferita. E lui decide per “Lettera dall’inferno” di un certo Emis Killa. La canzone è un monologo di un giovane che però è pure, forse, una preghiera e che ad un certo punto dice così:

“Nella mia vita non sei stato quel che dovresti
Il diavolo è stato più bravo, per certi versi
Il credo dalla fede, ognuno c’ha la sua
Mia madre in chiesa piange sangue, più della tua
Non so con quale scusa ti possa difendere
La gente scrive preghiere ma forse non ami leggere”.

Ascolto tutta la canzone in silenzio e poi senza pensare dico sussurrando: “Sono parole forti”. Prontamente G. mi risponde in un modo tanto potente da poter scoperchiare il tetto della scuola: “Prof. nella mia vita o le cose sono forti oppure non le voglio”. Lo guardo, volendogli molto bene per quello che ha detto ed avendo insieme molta paura per lui”. Anche lui mi guarda e aggiunge: “Prof. per me questa è la canzone più bella perché questo ragazzo a Dio gli dice tutto il suo dolore, perché minchia prof. certe volte pare che la sofferenza è troppo grande. Io non credo prof. non ho nessuno a cui credere, però secondo me se esistesse Dio, dovrebbe leggerle le nostre lettere dall’inferno. Picchì a mia prof. sto Dio che dice la chiesa, ma non mi convince proprio. Anzi, pi mmia la chiesa proprio putissi spariri picchì cu u Signuri un ci trasi nienti. Io certe volte li sento parlare tutti chisti ca criunu, puru u papa ca s’affaccia ra finestra e pensu na me tiesta: ma che mi rappresenta? Boh”.

Io di nuovo lo guardo e penso e dico: “lo sai che nella Bibbia esistono pagine che sono simili alla canzone che ti piace?”. E lui: “Io questo non lo so, a me mai nessuno me l’insgnò a capire zoccu c’è scritto na Bibbia”.

Poi è suonata la campana. I ragazzi sono usciti di corsa verso la fermata del bus. E io sono rimasta cinque minuti, in silenzio, nell’aula deserta. Deserta.

Autunno in fiore

(Marc Chagall)

(Marc Chagall)

Ti bacio di rosso e d’autunno
d’arancio su labbra di loto,
ti bacio di vino e di lava
a vela su passi di strada.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il tempo opportuno

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Oh, saprò aspettare il momento giusto.
Custodirò la tempesta,
fino alla sua esplosione resterò in silenzio.
Il respiro sarà lieve fino a che non sarà colma la furia.
Poi sarà uno scroscio d’acqua senza riparo,
sarà burrasca in ogni anfratto del mondo.
La terrà secca tornerà a partorire germogli,
e l’aridità non scamperà alla vendetta.
Il deserto arretrerà con il terrore negli occhi
e l’umidità esploderà in un canto di tuoni.
Ovunque arriverà la frescura,
ogni spigolo si ricoprirà di muschio.
La piena delle acque nuove sconvolgerà ogni cosa
e nulla resterà al suo posto.
Il vento spargerà sementi ovunque
e non troverà alcun rifugio la desolazione.
Sarò quel che sono fino all’ultima goccia di rugiada
e tutta la fatica cupa dell’attesa si muterà in festa.

Settembre, dovrebbe.

Così dovrebbe essere la vita
se soffia il maestrale a settembre:
priva di mura attorno
e con orizzonti che l’occhio non tiene,
dovrebbe essere a piedi scalzi a schiacciar uva
e fisarmoniche in festa,
dovrebbe essere ebbra di speranze audaci
e fuoco acceso
e membra stanche di lavoro buono.
Dovrebbe sapere di pane caldo e di legna,
di pace all’imbrunire
e tra il vento la voce amata
e acini morbidi di succo,
dovrebbe esser un sorriso lieve
che si apre
e la cesura di molte ferite.

La ragione non bacia le sirene

L’autunno porta il miglior mare, ma le creature di gamba doppia a terra non lo sanno. Scambiano il calore del sole con il tempo propizio del mare e s’ingannano. Hanno paura del freddo che sferza ad una ad una le gocce d’acqua e sale sulla pelle nuda e così, in autunno, il tempo propizio del mare, si rintanano fra le mura di casa e gli voltano le spalle.

Lo vedessero adesso, così, come lo vedo io, lo vedessero ingrigire a poco a poco, gonfiarsi come ventre gravido, arricciarsi di bianco e spuma sulla costa. Gridano, parlano, cantano, si guardano, si cercano, sulle spiagge, in estate, e trattano il mare come uno stagno di frescura. Fossero adesso qui, invece, reggessero un po’ meglio il silenzio, avessero udito per ascoltare il rintoccare dei ciottoli che il mare vuole portare a fondo con sé, onda dopo onda. E’ il tintinnio del corteggiamento, della resistenza, della resa. Avessero occhi per vedere i granelli di sabbia compattarsi al ritiro delle acque e separarsi uno dall’altro al sopraggiungere dell’onda, saprebbero vivere e comprendersi con più saggezza.

Quando sulle spiagge deserte vengo in autunno a cercar tracce di amori perduti, trovo resti di parole non dette, fanciullezza abbandonata sul bagnasciuga come pelle di serpente, infanzia ilare e vecchiaia portata sulle spalle; guardo alla terra ferma come al guscio duro di una tartaruga. Poveri uomini e povere donne! Quanta fatica fate nell’illusione di poter ammorbidire e far breccia nel vostro stesso guscio, in un tempo opportuno che non sopraggiunge mai. Creature terrestri d’incomprensibile cecità. Avete occhi che non resistono al sale e polmoni d’aria incompatibili alle profondità. Siete creature di superficie che si proteggono da tutto.

Noi sirene, invece, su questa superficie strisciamo, a colpi forti di braccia trasciniamo la nostra parte estranea di corpo, per raggiungere  gli scogli pungenti sulla riva, per poter vedere anche noi il mare di fuori. Eppure, con un solo tuffo torniamo all’acqua fredda degli abissi, scompariamo a colpi di coda, giù, giù, sempre più a fondo. Le nostre “squame di madreperla” si riempiono della luce del sole e una volta tornate alle profondità, portiamo luce nelle tenebre e gli odori di mille superfici lontane, trascinati dal vento, li uniamo al profumo del mare in una pozione che inebria gli dei.

Lasciate sulla sabbia le impronte invisibili del vostro tormento, voi che sempre volete essere altrove, voi che vi portate appresso il vostro corpo come un castigo. I granelli che non si possono contare, piccoli, privi di consistenza hanno la forza per sopportare il peso delle vostre felicità mancate e il terrore che vi attraversa quando la felicità vissuta vi pare fragile e minacciata e vi irrigidite e vi spaventate e stringete i pugni per trattenere quello che non potete, per far vostro ciò che non vi appartiene. Se foste in grado di reggere il mare d’autunno, il mare, paziente e generoso, vi restituirebbe ogni cosa. Ma gli uomini sono sempre alla ricerca delle “belle giornate” che rubano al mare il silenzio e ai ciottoli il tintinnio della resa.

Noi ci mostriamo di rado, solo agli uomini afflitti, a quelli che non vogliono più convincere nessuno della loro superiorità ma che piuttosto l’hanno vista infrangersi sugli scogli aguzzi della vita. A loro ci mostriamo, a coloro che non hanno più bisogno d’esser creduti e sanno restare, tutti interi, ad abitare le cose che accadono, oggi, ora. Non si domandono se sono matti o ubriachi, ma ci guardano e sorridono, ci tendono la mano per salire sulle loro barche di legno e fatica e così, adagiate sul fondo restiamo ore a regalare sguardi. Alcuni s’innamrano di noi e noi di loro e l’amore non è un pericolo, nel mare, d’autunno, l’amore si prende e si da, al ritmo delle barche sull’acqua. Ci guardano e pensano alle loro donne, a quelle che hanno perduto, a quelle che hanno lasciato andare, a quelle che hanno tradito o a quelle che li hanno feriti, riducendo il loro cuore in miseria. S’avvicinano con desiderio, senza bramosia, questa l’hanno perduta a suon di drammi e malanni. Con una mano toccano le squame, e con il viso si tuffano dentro ai nostri capelli. Non parlano, respirano. Giocano ad acchiappar la vita con il naso, giocano a rincorrere i tonni, ad occhi chiusi  e labbra aperte appena, cercano sulla nostra bocca la morbidezza dei molluschi e il sapore dolce del pescato appena tratto dal mare. Cercano un nutrimento senza caccia.

Qualcuno di loro sa anche piangere e noi dal loro viso lecchiamo le lacrime con la nostra lingua minuta, una ad una, restituiamo le lacrime al mare. E il mare le riconosce come  l’unica traccia di sé, rimasta clandestina dentro al corpo degli umani e allora canta, il mare, canta la nostalgia per gli uomini e le donne coi piedi immobili a terra.

Quale maledizione la parola, quale assordante rumore se spiega gli sguardi, quale massacro se squarta il bene voluto come un pesce da taglio cercando i pezzi migliori da vendere al più ricco offerente. Quale maledizione la parola che mette a tacere l’attesa di abbracci da compiere muti, che piega le carezze al merito e giustifica gli slanci del cuore, che s’impiglia come pesce nelle reti crudeli dei pescatori notturni.

L’autunno possiede il mare migliore. Il luogo dove non si dovrebbe stare, la permanenza fuori stagione, l’amore fuori luogo, il corpo mai del tutto compiuto, le conchiglie vuote, le spine dei ricci, la vaghezza delle acque durante la burrasca, l’attesa d’improbabili ritorni: fuggite uomini la luce accecante della ragione, il ventre sterile del buon senso, la ragione non bacia le sirene.

Un mare di pace

(Parole di Pace di Angela Di Blasi)

(Parole di Pace di Angela Di Blasi)

Di palme a Palermo ce n’erano a migliaia. Poi è arrivato il punteruolo rosso, un coleottero feroce che le ha sterminate cambiando per sempre il volto della città. Nel cuore di Palermo, però, nel quartiere arabo della Kalsa, alcune palme partigiane resistono e rivendicano il diritto di svettare ancora a lungo verso il cielo, è il Giardino dei giusti.
Io ci sono entrata per la prima volta ieri sera, una delle sere più calde di questa estate del sud, sono andata per partecipare alla manifestazione Giardino in circolo che segna la riapertura delle attivita Arci di Palermo.
Non è molto grande questo Giardino dei giusti, eppure varcando la sua soglia  sono salita su una barca di pescatori nel mare di Tunisia, sono stata a Gaza, sotto le bombe, ho solcato il mare fra le pagine di un libro di stoffa, navigato sulle imbarcazioni costruite con l’argilla da mani d’infanzia, sentito addosso il vento di terre lontane, una forza di bene e passione sulle dita che modellano la terra.

(Moncef Ghachem)

(Moncef Ghachem)

Je suis venu de la mer, de la soif, du cri. Je suis voué au cri comme les vents de la mer (“Sono venuto dal mare, di sete, di grido. Mi sono dedicato a piangere come i venti del mare”). Moncef Ghachem è un poeta tunisino che conosce il mar mediterraneo, i suoi pesci, la sua gente. I popoli che nascono e vivono sul mare sono uno strano tipo di gente, infatti: cresce dentro o vicino ai porti, dove si arriva, da dove si parte, senza sosta. Eppure la solitudine ne bacia le labbra e ne risucchia le parole. Sulle rive del mediteraneo si diventa grandi mentre il sole brucia la pelle e il sale corrode il cuore e insieme ne guarisce le ferite, si cresce con gli occhi pieni d’acqua e una sete invincibile. Moncef Ghachem, ha parlato del mare e dei pesci  che non ci sono più, tutti divorati dall’ingordigia di chi s’illude d’imbrogliare il mare. I pescatori come Moncef, invece, sanno che il mare prepara la sua vendetta. Parla della razzia del pesce il poeta, per dire la razzia del potere, l’agguato alla parte fragile del mondo, per dire di bimbi morti sulle spiagge, per annunciare che il tempo è scaduto e che bisogna far tornare i pesci nel mare e la giustizia fra gli uomini. Recita i suoi versi con fermezza e discrezione, in arabo, in francese, con uno strano ritmo che ricorda le onde  sulla barca nelle notti silenziose di pesca.

Ramy M Balawi, invece, è un giovane uomo, un maestro elementare di Gaza che nel Giardino dei giusti arriva attraverso le parole di una lettera proclamata a voce alta, mentre il buio scendeva lento sulle palme partigiane. La lettera raccontava del divenir uomo tra i morti, dei boati delle bombe che scuotono il letto, di fratellini che urlano la paura alla luce fioca di una candela. Ramy ha raccontato della guerra, ma anche della scuola, l’unico ponte per raggiungere la speranza di una vita migliore, l’unica arma contro l’ingiustizia subita dalla sua gente, l’unica possibilità di riscatto. La biblioteca dei bambini e dei ragazzi Le Balate, che opera nella trincea del centro storico di Palermo, grazie all’impegno generoso di Daniela Thomas, sta unendo le forze per riuscire a condurlo a Palermo e dargli l’occasione d’essere corpo e voce, narrazione ed esperienza, con noi, per noi.

WP_20150906_012Su un tappeto colorato un libro aperto di stoffa, opera di Angela Di Blasi, si popola delle  sagome dei partecipanti disegnate da ciascuno con cura. Parole di pace da affidare a strisce di cotone bianco che sembrano schiuma sul bagnasciuga. Alla terra ci pensa Alberto Criscione.

(Alberto Criscione)

(Alberto Criscione)

A lui e al suo blocco di creta si avvicinano grandi e bambini: nasce un’intera flotta di barchette a vele spiegate e poi palline e cubi e fiori e coccodrilli a moltiplicare la gioia della creazione.

(Salvatore Rizzuti)

(Salvatore Rizzuti)

In un angolo le mani dello scultore Salvatore Rizzuti partoriscono un volto di donna. La gente capisce, lo circonda, vuole vederlo lavorare, ma lui è irragiungibile: solo con la terra. Con le dita modella quel blocco di creta informe che guarda senza distrazione, come se stesse aspettando il ritorno di qualcuno.

PicMonkey CollageL’arpa di Romina Copernico strappa via dal cuore i brutti pensieri: la gente ascolta con attenzione, si guarda attorno, si riconosce, si saluta, mangia e beve birra e quando il gruppo di Arci Tavola Tonda mette mano agli strumenti, si balla anche. Perchè la festa, la gioia di ritrovarsi insieme vivi è il modo migliore per sabotare le guerre ed anche il modo più nobile di rendere omaggio alle vittime e alla disperazione dei popoli in fuga. Al ritorno le strade del quartiere deserto si accendono di nostalgia, i lampioni riflettono sulle balate: sembra un mare d’oro.

 

 

Che cosa siamo venuti a vedere? Il Mediterraneo che cura

Povero Ulisse

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“Navigo al buio su acque ignote e i venti mi portano ora in una direzione ora in un’altra e rendono sempre più difficile il mio rapporto con Penelope. Ogni sua parola, ogni suo gesto lascia un segno ambiguo nella mia memoria. Mi sono difeso dall’acqua e dal fuoco, dal ferro e dagli altri metalli, dalle pietre, dalla terra, dalle malattie, dai quadrupedi e dai mostri con un occhio solo, dagli uccelli, dalle Sirene e dall’invidia degli dei, ma non so come difendermi da Penelope.
Povero Ulisse.
Ti sei destreggiato senza mai perderti d’animo anche nelle più difficili emergenze della guerra e hai saputo evitare le infinite trappole che gli dei hanno disseminato sulla tua strada, e ora guardi come fosse un fantasma sfuggente la tua sposa che pure sta lì seduta di fronte a te e ti basterebbe allungare la mano per toccarla”.

da Itaca per sempre, di Luigi Malerba

Supplica di luglio

“Chissà se il buon Dio
perdonerà Palermo”.

(C.Consoli)

Srebrenica: c’ero anch’io?

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Avevo circa dieci anni, ed era una domenica di primavera.
Non ricordo per quale motivo io mi trovassi sola a casa, forse un’influenza da cambio stagione. Decisi di apparecchiare la tavola e accesi la tv per farmi compagnia. C’era il Tg. Era il 1991 e stava per scoppiare la guerra in Jugoslavia.

Resoconti politici, analisi sociologiche, previsioni catastrofiche, diplomazie fallimentari. Avevo dieci anni, ma intuivo che qualcosa di molto grave stava per accadere, qualcosa di grave e di molto vicino a noi. Durante il servizio del Tg, proprio mentre il cronista  (pre) annunciava la violenza e le atrocità che quella guerra avrebbe portato con sé, si susseguivano sullo schermo le immagini di una città bosniaca. Erano immagini girate in tempo reale. Si vedevano le auto circolare, una discreta folla per strada. In mezzo a quella folla il mio sguardo scelse di seguire una gionave donna, ripresa da dietro. Aveva i capelli castani raccolti in una coda di cavallo, un dolcevita verde e una gonna marrone, stretta, lunga fino al ginocchio, nelle mani le buste della spesa.

Mentre l’osservavo camminare (tutto avvenne in una manciata di secondi), la voce del gionalista divenne un sottofondo indistinto ed io sentì il panico diffondersi lentamente nel mio corpo, dal basso verso l’alto fino ad esplodere all’altezza del cuore. Mi chiedevo come potessero essere tutti lì per strada nonostante l’imminenza della guerra, mi chiedevo perché non stessero scappando tutti. Mi chiedevo, soprattutto, perché noi italiani, così vicini a quella terra, non stessimo facendo nulla per andare a salvare la ragazza con le buste della spesa.

I miei rientrarono e mi trovarono con un piatto in mano, immobile, con il viso affogato nelle lacrime. “Cosa è successo?” – mi chiesero – “Sta scoppiando la guerra” – dissi io, balbettando. Si premurarono di dirmi che era tutto a posto, che non sarebbe successo nulla. Avevo dieci anni, volevano ad ogni costo che non mi angosciassi per la guerra, lo capisco. Ma non poterono in alcun modo mettermi in salvo da quello che accadde dopo, dal resoconto di violenze che i Tg ogni giorno raccontavano, accennandole soltanto, ma lasciando intravedere tutto l’orrore. Mi chiedevo, ogni giorno, cosa fosse accaduto alla ragazza.

Di tutto questo avevo perso memoria, l’anniversario della strage di Srebrenica, mi ha fatto riaffiorare ogni cosa. Sono passati vent’anni. E oggi, che non sono più una bambina, mi rendo conto quanto sia illusorio credere o sperare che gli avvenimenti del mondo non ci riguardino sempre e da vicino. Certo, non ho subito violenze, non mi è mancato il pane, non ho perso casa, non ho visto attorno a me brandelli di uomini dilaniati. Ma quella guerra e quel dolore hanno comunque condizionato la mia vita. Le guerre, la violenza, segnano il corpo del mondo di cui tutti siamo membra, in un modo o nell’altro. E anche le omissioni, il soccorso non dato, la codardia degli Stati, la tirannia del potere economico, l’interesse di pochi a scapito di molte vite umane, non illudiamoci, scavano in noi lunghi solchi di sangue con cui faremo prima o poi i conti, proprio nel dispiegarsi del nostro quotidiano, apparentemente lontano e indipendente da quelle vicende.

Ieri la Jugoslavia, oggi la Siria, in mezzo infiniti conflitti dimenticati. La storia ci implora: imparate ad essere umani!