Vento

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Io comincio.

Nell’anno ’42 guardando un albero in autunno
e una foglia che cadeva,
decisi di fare quel tipo di danza,
ma quando cercai una musica adatta, non la trovai.

Allora chiesi alla foglia dell’autunno:
“Hai bisogno di musica per muoverti?”.
La foglia mi contestò:
“No, ho bisogno del vento”.

Allora cominciai a cercare
nei ritmi interni
la possibilità di muovere la mia danza
il mio corpo.

Io sento che il mio tempo
è molto più breve,
più breve di vita.

Non devo smettere di fare
ciò che devo fare oggi,
non aspettare domani.

Potete arrivare al gran mistero
e dire:

“Sento il suono del vento
sento il suono del mare”.

Maria Fux

Guardate, qui. http://www.internazionale.it/notizie/2016/01/23/ivan-gergolet-dancing-with-maria-fux

Groviglio d’intenti

mani

Quante cose per le mani
in questo inspiegabile groviglio d’intenti…

Non volermi male.

Certe volte l’importante è vedersi più belli,
quanto basta per sentire che il mondo è vicino.
E non è perfetto.

– C. Consoli, Non volermi male.

Poi

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Cefalù

 

“Mi sono innamorata, sulla spiaggia”, disse Rosemary.
“Di chi?”
“Prima di un mucchio di gente che aveva l’aria simpatica, poi di un uomo”.

— F.S. Fitzgerald, Tenera è la notte.

Equilibrio

(Alicja Brodowicz)

(Alicja Brodowicz)

RESISTENZA: dal verbo “resistere”, composto della particella RE addietro, che conferisce idea di opposizione e SISTERE fermarsi, formato dall’addoppiamento della radice di STA-RE star fermo, star saldo. Non cedere all’urto, alla spinta di altri corpi.

RESA: dal verbo “arrendersi”, nel senso di “dare in mano”.  Inflettersi agevolmente per ogni verso, senza spezzarsi.

Non il contrario

 

(Opera di Neil Moore)

(Opera di Neil Moore)

A me non piace il capodanno.

“Fine” e “inizio”, son troppo vicini. 

Un solo secondo non è sufficiente a reggere il passaggio.

Forse per questo sentiamo il bisogno di stordirci con botti, musica e champagne. Speriamo che ci aiutino a sopportare lo strappo da quanto non sempre siamo pronti a lasciare, cerchiamo di nascondere lo sgomento per i 365 giorni che si presentano a noi del tutto sconosciuti e imprevedibili.

La malinconia si accentua,  l’allegrezza diventa ubriacatura.

L’altra sera per strada ho visto una mamma ed un bambino  molto piccolo che camminavano tenendosi per mano. Si sono avvicinati ad un signore anziano che aspettava di spalle, per strada. La donna ha toccato appena la spalla dell’anziano signore il quale girandosi e vedendo il bambino ha esultato di gioia! Il suo volto appesantito dall’età e dalla fatica si è trasformato in una festa di luce negli occhi e linee morbide di sorrisi. Poi si è piegato per baciare il bambino. Lo ha ha fatto con sforzo e dolore, giù giù fino al volto del bimbo per dargli un bacio, per fargli una carezza. 

Quello è stato il mio capodanno. 

In quei gesti ho trovato la lentezza del passaggio necessario al cambiamento, la fatica, la gioia. È il vecchio che si piega davanti al nuovo. Non il contrario. È il nuovo che giudica l’antico. Non il contrario.

Esistono processi inarrestabili. Ogni metamorfosi che inizia, giungerà al suo compimento.

Auguri bella gente.

Stare nella pelle è il segreto

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La caparbia, inesausta lezione delle fiabe è dunque la vittoria sulla legge di necessità, il passaggio costante a un nuovo ordine di rapporti e assolutamente nient’altro, perché assolutamente niente altro c’è da imparare su questa terra.
CRISTINA CAMPO, Gli imperdonabili

Leggete questo post…è bello. E’ molto bello.
https://domodama.wordpress.com/2015/12/27/stare-nella-pelle-e-il-segreto/

Il Natale di Eufemia, frammenti.

Cu tuttu ca fora c’è a guerra,
mi sentu stranizza d’amuri
“.

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Ex-sistere

(Foto di Fan Ho)

(Foto di Fan Ho)

Nel corridoio centrale dell’ipermercato, oggi mi è venuto incontro un uomo.
Era un signore anziano. Pochi capelli bianchi, alto, con un’andatura disarmonica. Aveva una maglia rossa ed era avvolto da una grande giacca a vento blu e gialla. Portava gli occhiali, quelli con le lenti che fanno sembrare gli occhi grandi grandi e aveva un’espressione smarrita e infelice.
In una mano stringeva una busta trasparente, con dentro un vestito da Babbo Natale nuovo di zecca, di bassa qualità, con appiccicata sulla plastica la foto di un uomo giovane e forte con quel vestito addosso, sorridente, circondato da regali e bambini dall’aria festante. Sembrava una beffa quella foto con poggiato sopra il suo pollice rugoso. Sotto al braccio portava un pacco di biscotti e con la mano avvolgeva il collo di una bottiglia di vino rosso.

Mi è venuto incontro cominciando a fissarmi da lontano, cercando di aprirsi una strada tra una muraglia di panettoni e una torre di Ferrero Rocher. Ha dato un’occhiata al mio carrello, semivuoto, senza nessun acquisto natalizio, poi ha rialzato lo sguardo senza che smarrimento o tristezza arretrassero di un passo. Ci siamo incrociati e abbiamo proseguito, ognuno per la sua strada.

Ho continuato a fare la spesa e a guardare la gente. C’erano due uomini, ognuno dei quali spingeva un carrello colmo di panettoni, quelli nella scatola di cartone, con una bottiglia di spumante per compagnia e i fuochi d’artificio sulla confezione. Ho contato, erano quaranta scatole. Hanno pagato circa 500 euro, in contanti. Ho dedotto che appartenessero ad un’azienda, una di quelle che invia i regali ai fedelissimi, con i biglietti prestampati, tutti uguali, per augurare buone feste.

Allora mi sono guardata attorno, ho guardato le cose, non le persone. Ho guardato i festoni, i dolci, le confezioni regalo, la frutta secca, i canditi nelle scatole di latta con Gesù bambino il bue e l’asinello, il fiocco argentato sulla casacca dei commessi, i barattoli di nutella di ogni dimensione e colore.

Ho immaginato le stesse persone, nello stesso supermercato l’8 di gennaio. Quando lo spirito delle feste viene svenduto “a prendi tre e paghi due” su banconi senza oro né argento. Quando i Ferrero Rocher smontano a malincuore la loro torre d’avvistamento e si rimettono in fila ordinata e anonima negli scaffali del reparto dolciumi, quando sulle casacche dei commessi rimane appesa soltanto una bustina di plastica con dentro il tesserino e una foto di riconoscimento che sorride in loro vece, sempre, anche a chiusura, quando la stanchezza stronca le caviglie e le voci della gente e la musica rimbombano nel cervello come una droga. Ho immaginato l’uomo anziano ripiegare il suo alter ego e riporre Babbo Natale dentro la busta con la foto stropicciata.

Allora ho capito perché quest’anno non ho tirato fuori gli addobbi, perché mi infastidiscono le luminarie e non ho comprato ancora un solo regalo. E’ perché non sopporto più ciò che non lascia un segno. La sterilità delle cose, perfino di quelle “spirituali” che pure sanno essere sterili e mutare  la loro profondità in un pozzo nero di tanfo e veleno. La ciclicità dei doveri mi pare spaventosa. Fosse pure il “dovere” della gioia. Rivendico il diritto ad una festa che trasforma, al passaggio di persone, vicende, storie e occasioni che mutano il paesaggio come lo scirocco le dune di sabbia. Non voglio vestire a festa ciò che resta sotto uguale a se stesso, felice o triste che sia. Preferisco lasciare tutto spoglio. In attesa. Preferisco saltare il turno, rimanere indietro, non tenere il tempo. E semmai arriverà la stagione di una festa che trasforma, allora mi vestirò da Babbo Natale fosse pure in pieno agosto e monterò luminarie d’argento nella luce invincibile dell’estate, farò il panettone con le mie mani abbronzate, comprerò regali in primavera e festeggerò il nuovo anno nel mezzo dell’autunno. Da allora in poi potrò rientrare nei cicli festivi della terra e camminare lietamente tra le torri di cioccolata e canditi, sorriderò agli uomini anziani che abbracciano babbo natale e una bottiglia di vino rosso. Ogni segno porterà la sua metamorfosi e non ci sarà, almeno per me, nessun ritorno alla normalità, si procederà per cambiamenti di fiore in frutto, di frutto in seme, di seme in fiore, di fiore in frutto…..

Il viaggio a ritroso

Nella vita “si deve andare avanti”. Lo si dice quando si è nel dolore, soprattutto. Quando si è disposti a qualunque cosa pur di “andar via”, dalla sofferenza, dal dramma, dal fallimento, dalla malattia. Poco importa se non si sa dove andare, se non si percepisce alcuna direzione: “avanti” è certamente un luogo migliore. Quando si è felici, invece, non ci si vorrebbe spostare, mai. Anzi, tutto quello che sembra poter mutare l’assetto delle cose è percepito come una minaccia: chi è felice vuole restare dov’è. Forse qualche temerario della felicità azzarda un passo nel territorio scosceso della “progettazione”, immaginando il modo di perpetuare nel tempo e nello spazio il proprio giubilo, inutilmente.

Poi, invece, c’è chi non è né felice né triste, perché ha disimparato la strada delle ambivalenze, degli opposti che si attraggono o delle forze che si respingono. Chi, magari, ha scoperto che ad andare sempre avanti per fuggire dal dolore ci si perde e a voler ingabbiare la felicità lo sguardo si restringe, sempre di piú, sempre di piú, fino alla cecità e all’egoismo piú bieco.

Accadono cose nella vita che costringono a tornare indietro, a fare la strada a ritroso fino a ricongiungersi con la parte di sé che si era persa, chissà quando, chissà dove o come. Magari proprio per l’ansia di futuro o per la brama di dettar legge alla vita. Oppure con la parte si stessi che non si è mai compresa o guardata a fondo o amata, accolta, accettata.

Accadono cose, s’incontrano persone. E all’improvviso comprendiamo che andare verso noi stessi è la sola strada possibile. È un percorso accidentato, pieno di macerie, di zone d’ombra, di vuoti d’aria. Si passa per strade che si preferirebbe dimenticare, che si vorrebbe non aver mai imboccato. E pur ripercorrendo a ritroso la vita, le cose imparate fino a quel momento non servono a nulla. Non ci sono criteri conosciuti che si possano applicare, nessuna esperienza è abilitata per la riuscita del cammino, non c’è giudizio che sappia aprire varchi nel buio, non ci sono imperativi esterni a noi stessi che sappiano appianare le salite, segnalare i burroni, evitare i tornanti. La fiducia in se stessi è tutto il coraggio di cui si può disporre, prendersi sul serio l’unico atto di eroismo possibile. Tutto ciò che sapevamo si ribalta, si ribella e scappa mentre del nuovo non riusciamo a scorgere che frammenti,  luccichii ed echi lontani.

La speranza è che una volta intrapresa la strada ci si possa ri-conoscere, alla fine, che esista realmente la possibilità di ri-congiungersi con se stessi, di ri-trovarsi, di ri-scoprirsi e che la vita, la nostra, le persone, le relazioni abbiano ancora desiderio d’accadere, con noi.

La paura è veleno

© Ben Zank

© Ben Zank

Appena entrata in classe mi hanno detto che avevano una cosa da raccontarmi. Son pochi e di stare seduti ai loro posti non ne vogliono sapere. L’orologio segna quasi le tre del pomeriggio, hanno ragione, porca miseria. Stanno lì dentro dalle otto del mattino! Dovrebbero costituirsi parte civile contro uno Stato che tollera di far scuola in ambienti così, come se fossimo tutti polli da allevamento. Li lascio liberi di stare in piedi o seduti sui banchi o vicino a me, alla cattedra, che qualche animo gentile esiste ancora.

E’ di droga che mi vogliono parlare. Per un servizio che hanno visto in tv. Una storia terribile, ma a lieto fine. Fanno a gara per decidere chi deve raccontarmi meglio, per stabilire a chi spetta mettermi a parte di tutti i particolari. Io della storia, in verità, non ci capisco un granché, ma leggo sui loro volti il sollievo, molto vicino alla gioia, per un ragazzo come loro che era perduto, morto e che, invece, ce l’ha fatta.

Cerco allora di capire cosa ne sanno questi ragazzi sedicenni di droga. Beh, ne sanno un sacco. Sanno di droga e di spacciatori e sanno che “certe volte si spaccia per poter mangiare prof”. Dicono che loro non la toccano la droga, che a tutti, nessuno escluso, è stata proposta, con insistenza, e sentono il bisogno di specificare che “non si trattava di spinelli”. Io decido che mi stanno guardando troppo e a lungo negli occhi e che la vittoria della luce e dell’aria d’autunno sullo squallore dell’aula è troppo grande per potermi mentire.

Quando chiedo perché secondo loro un ragazzo comincia a drogarsi, la risposta è unanime: “Per paura”.
“Per paura di che?” – controbatto io. “Per paura di non essere abbastanza prof., per paura di non essere accettati, per paura di essere messi da parte e restare soli, per paura di non farcela, per sentirsi forti”.

Amen.