My clandestine body

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I have a secret in the heart
Myself have the secret of my heart.
My body is a mystery
and I do not find the map to understand it.

I get lost looking for the secret,
I’m afraid of the dark
I’m afraid of the light
There is no one who helps me to search.

Only the wind helps me
the air gives me relief.
I need to have courage
I need to be strong.

Can’t scare me
The journey is endless,
The road cannot be interrupted.
I need to have courage.

My blood won’t hurt me
the darkness doesn’t bury the secret of my heart.
I will tame the darkness
with the strength of every day and all night
with the patience of all day and all night.

Shout to my body: you are allowed to exist!
And I understand who you are.
I’ll say it in the wind,
so the air will be pure
and I shall recover my breath.

Ho un segreto nel cuore
Io, sono il segreto del mio cuore.
Il mio corpo è un mistero
e non trovo la mappa per decifrarlo.

Mi perdo alla ricerca del segreto.
Ho paura del buio.
Ho paura della luce.
E non c’è nessuno che mi aiuti a cercare.

Solo il vento mi viene in soccorso.
l’aria mi dà sollievo.
Io devo avere il coraggio.
Io devo essere forte.

Non posso spaventarmi.
Il viaggio è senza fine,
la strada non può essere interrotta.
Io ho bisogno di avere coraggio.

Il mio sangue non mi farà del male
e il buio non seppellirà il segreto del mio cuore.
Io domerò il buio
con la forza di ogni giorno e per tutta la notte
con la pazienza di tutto il giorno e di tutta la notte.

Grido al mio corpo: hai il permesso di esistere!
E capisco chi sei.
Lo dirò, al vento
così l’aria sarà pura
e riavrò il mio respiro.

 

Tutto è nostro (ovvero il mio giro del mondo al “Gibellina Photoroad”).

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Ludovico Quaroni-Luisa Anversa Ferretti, Chiesa Madre, Gibellina (foto di Carlo Columba).

Ho fatto un giro intorno al mondo. Mi ci è voluto un pomeriggio d’estate e migliaia di chilometri macinati di buon passo sui sentieri interiori.

Il Festival internazionale di fotografia “Gibellina Photoroad” è un viaggio. Road, appunto, “la strada”. Un viaggio non solo perché le foto è così che sono: per strada, nelle piazze, dietro gli angoli, fra le mura degli edifici che fanno di Gibellina un posto unico al mondo, ma soprattutto perché le fotografie accompagnano nella sempre difficile e ardua operazione dell’introspezione guidata e sostenuta da un’opera d’arte. Non sono un critico, non capisco nulla di tecniche fotografiche, non conosco le avanguardie o i fotografi di tendenza, ma cerco di tenere gli occhi aperti, su me stessa e sulla storia che sto attraversando.

Il mio viaggio comincia da Baglio Di Stefano, tra canti di cicale e vento di campagna. Ci arrivo con il bagaglio delle parole intense scambiate durante il tragitto con l’uomo che mi accompagna, parole che demoliscono, parole che costruiscono, il dolce affanno del conoscere se stessi, del provare a conoscere l’altro. Entrare nel padiglione di arte contemporanea che custodisce le opere di Arnaldo Pomodoro è stato come metter piede in un mondo incantato. Muovermi tra le opere dello scenografo, tra le sue sculture geometriche di bronzi e ingranaggi, tra i dipinti e le installazioni di diversi artisti contemporanei, tra le foto della rassegna, è stato come avere una visione, non spaventarmi, attraversarla. Dalla vita notturna delle case, ritratta nelle foto bellissime di Turiana Ferrara, si passa, nel giro di pochi metri quadrati, a mondi diversi e complessi e a diversi e complessi modi di esprimere l’essere umani. Nessuna definizione a restringere lo spazio, nessun ruolo obbligato a determinare l’identità. Materiali diversi e le più disparate tecniche di realizzazione utilizzate per dar vita al proprio mondo, per dar sfogo al tormento o all’inquietudine, per creare spazi altri dove sperimentare l’esistenza così come accade e così come si vorrebbe che fosse.

Nel padiglione poco più lontano, molto luminoso e scarno, ci sono le foto di vari artisti, giunti sulle rovine di Gibellina ancora fresche di polvere e disperazione, subito dopo il sisma, a catturare i volti e le storie che il terremoto aveva seppellito mandando in frantumi la vita quotidiana di uomini e bestie. Tra le foto due si impongono ai miei occhi con forza fra gli scatti di Melo Minnella: una tendopoli e una donna con in braccio il suo bimbo. Potrebbero essere foto di oggi, frammenti di uomini e donne sparsi in uno fra i tanti campi profughi della terra: che brutta cosa  – penso – dimenticare il dolore fino a non saper più riconoscere quello che si ha sotto gli occhi negli occhi degli altri, ogni giorno. Come è corta la nostra memoria.

Nella piazza del Municipio c’è un bar che bisogna visitare se si va a Gibellina. Si chiama “Agorà” ed entrarci è come sentirsi catapultati in uno dei paesi della dittatura comunista del secolo scorso. Vedere per credere. In piazza le foto sono enormi, a grandezza naturale, foto di facciate di palazzi, di persone che tornano da lavoro, foto di città devastate e squallidi spazi abbandonati ripresi dall’alto. Spazi urbani che si alternano a volti, volti che contengono storie, storie che si deve esser disposti ad ascoltare per capire il senso degli spazi e le espressioni dei volti: un girotondo di sensazioni, una vertigine.

Era la mia seconda visita a Gibellina e l’ho amata molto. Le sue stranezze mi erano più famigliari e le sue pietre più comprensibili. La sfera di luce bianca della cattedrale mi è parsa bellissima e così gli angoli del giardino antistante fra le cui mura si trovavano le foto delle “Pietre di Palermo” di Ezio Ferreri. Palermo, la città dalle rovine mute che ancora oggi non si riescono a raccontare, rovine di malinconia feroce e decadente, dal cui peso ogni giorno proviamo a riemergere. Si può sostare al riparo, custoditi da spigoli pungenti, seduti su panche ruvide di muro orizzontale, con la sfera di luce incombente alle spalle  e il corpo di Cristo al di là del cemento armato, seduti a guardar le foto appese o a pensare o a raffinar l’olfatto per odorar la salvia e il rosmarino piantati a circondare la chiesa, forse nel tentativo di farla sentire una casa per tutti.

Le foto sparse nella città obbligano ad attraversamenti pedonali di piccola o media portata. E’ ancora estate e ci sono i ragazzi per strada. Ad ogni luogo la sua porzione di giovinezza: i bambini che giocano a pallone al Sistema delle piazze e gli adolescenti nella Piazza della memoria, i ragazzi che giocano a carte ai tavolini del bar e le ragazze che passeggiano, con gli smartphone in mano a causar distrazione e a far perdere la partita, fin da subito, a scanso di equivoci. Chissà se crescere in questo museo a cielo aperto che è Gibellina crea in loro un immaginario diverso. Chissà se le opere d’arte tra le quali giocano, camminano e crescono avranno la meglio sulla fantasia banale di orizzonti resi tutti uguali da facebook e dalla Tv. Chissà se lo spazio immenso, il silenzio e la luce di questo luogo li aiuteranno nelle scelte da fare per diventare adulti, chissà.

Alla fine del giro, tornando in auto, ripenso alle cose viste e capisco che due sono i lavori che ho particolarmente apprezzato. Il primo è di Giulio Piscitelli. Le sue foto ritraggono “quell’evento storico inarrestabile, quell’energia collettiva davanti alla quale si svelano le nostre meschinità” ovvero i viaggi dei migranti verso l’Europa. Le foto enormi costeggiano la strada e sono poste in alto. Bisogna alzare lo sguardo, quindi, con la testa leggermente indietro per poterle osservare. Sembra che ti vengano addosso e senti il mare e senti il deserto e senti la disperazione e vedi la paura, la vedi in quegli sguardi e sotto la tua pelle, anche se non hai da scappare con la morte alle calcagna e l’ignoto ad ogni passo.

Il secondo è di Issa Touma, un fotografo siriano, di Aleppo. Io a queste foto non ero preparata. Stavo ancora ammirando le geometrie e le asimmetrie delle Case Di Lorenzo realizzate dall’architetto Francesco Venezia, i muri color della terra e il cielo a stabilirne il confine, quando, voltato l’angolo, mi sono ritrovata davanti la guerra di Siria. Ritratti di giovani donne con una fascia bianca sugli occhi, donne violate proprio nell’intimo sacrario della propria identità: amici e parenti morti, lavoro perduto, le bombe sulla testa, l’impossibilità di progettare il futuro e di vivere il presente.  Non so se si può dire di aver visto il volto di qualcuno se non lo si può guardare negli occhi, ma forse quello che la fascia bianca posta dall’artista nasconde è svelato dalle poche parole riportate dietro ad ogni foto. Solo il nome e un pensiero breve: Dima, Zanous, Angela, Lama e molte altre.

Le loro parole le voglio riportare alla fine di questa piccola cronaca, perché si dice che sono le ultime parole quelle a rimanere più impresse. Prima voglio provare, se riesco, a rendere un momento di questa visita a Gibellina, un momento breve, quasi invisibile, ma importante. Era il crepuscolo, tirava un vento sottile e dappertutto attorno era silenzio. Passeggiando insieme all’uomo che mi ha accompagnata ho avuto la percezione netta di quanto fosse importante tornare a casa con la consapevolezza di dover non ricordare, ma metabolizzare le cose viste, le parole lette, le sensazioni provate, farle diventare parti del mio corpo, pezzi di me. Le foto del Gibellina Photoroad non sono al riparo fra le mura di un museo. Sono affidate alla strada, agganciate in gran numero solo dalla parte superiore: il vento le fa dondolare, il sole ci batte contro. Sono nascoste fra gli angoli, trovarle è una caccia al tesoro. Non ci sono custodi a difenderle, né riparo alcuno dai temporali estivi, dai vandali, dai gatti randagi. Mi davano l’idea di appartenere a chiunque ed io le ho sentite mie. Lui mi camminava accanto, ma in questo incedere non eravamo soli. Eravamo in cammino con tutti e niente di quanto quelle foto ci avevano raccontato poteva esserci davvero estraneo o indifferente: da una sensazione personale e privata ai grandi drammi sulle spalle dei popoli, tutto quello che avevamo visto era nostro.

E lo erano anche le parole delle giovani donne siriane. Andrebbero ripetute a voce bassa queste parole, a fior di labbra, come un rosario, fino a quando non sarà chiaro a ciascuno quella cosa piccola, piccolissima, forse inutile eppure da fare per porre fine a tanto insostenibile, ingiusto, inaccettabile dolore:

Hiba, 31 anni.
Dopo 13 anni di indipendenza economica, oggi sono terrorizzata di perderla se Aleppo dovesse cadere nelle mani degli estremisti. Sarei intrappolata nel mio appartamento, incapace di uscire se non accompagnata da un familiare di sesso maschile. Ho attacchi di panico quando penso di perdere la mia vita, il mio lavoro, solo perché sono una donna.

Angela, 35 anni.
Ho studiato farmacia in Russia. È terribile non essere in grado di dispensare medicine alle persone che ne hanno bisogno. Nel 2012-2013 le medicine erano particolarmente difficili da trovare. Non potevo stare ad Aleppo. Dopo tre anni di guerra sono tornata nel mio villaggio, lontano dal puzzo della città che muore.

Zanous, 26 anni.
Non ho paura di morire, ho paura di un handicap fisico o mentale. Credo che Dio sia il Salvatore onnipotente ed ho intenzione di rimanere qui ad Aleppo.

Dima, 21 anni.
Da quando è iniziata la guerra ho detto addio a tante persone. Allora ho smesso di incontrare persone così non avrei dovuto più dire addio. Ho perso ogni senso di vivere. Sono rimasta ad Aleppo per finire i miei studi e ogni notte conto le bombe che esplodono intorno a casa mia fino a quando non mi addormento.

Lama, 25 anni.
Non avevo paura della morte, perché non sapevo che cosa significasse. Quattro anni di guerra mi hanno cambiata. Ora vivo ad Aleppo, il luogo più pericoloso del mondo. Ma sono ancora determinata a sognare, vivere e godere di ogni atomo di aria fresca e nubi bianche. Se sopravvivo a questa guerra voglio visitare la grande muraglia in Cina, praticare la meditazione indiana e continuare a disegnare.

“Se sopravvivo a questa guerra”. Prima persona universale.

 

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Una felicità a perdere

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(Foto di Laura Makabresku)

 

Oggi ho visto una scena bellissima.
L’ho vista in piazza, una fra le tante piazzette popolari che alla periferia di Palermo sanno radunare ancora la vita di quartiere nella luce dei meriggi d’estate.
Ho visto una bambina bionda di circa dieci anni. Bionda e coi capelli lunghi, coi capelli lunghi e con guance color di rame e mare.

Stava accanto ad un motorino e sul sellino c’era un neonato che lei teneva stretto per non farlo cadere. Si guardava attorno, come aspettasse qualcuno e voltandosi, da una parte e dall’altra, i suoi capelli lunghi sfioravano il piccolo, come una carezza.

E’ stata una scena tanto bella e potente che mi è letteralmente mancato il fiato. Non vi ho visto nessun riferimento simbolico alla maternità, la bambina non imitava gestualità adulte, era, anzi, un po’ smarrita, tutta protesa verso l’arrivo di chi avrebbe potuto liberarla da quel ruolo di custodia sproporzionato alla sua età.

Ma era bella, elegante, potente in quanto alla variabile di possibilità contenute nella sua infanzia e fragile rispetto alla realtà. Erano indifesi entrambi, ma fortissimi, erano piccoli, ma riempivano lo spazio con una  presenza in grado di modificare, appunto, i sentimenti, le emozioni e i pensieri dei passanti.

Sembrava di poter toccare con mano tutta la vita che è possibile avvicinare.
A guardarli proprio così appariva la vita: come un eccesso incontenibile, una felicità a perdere.

 

Resto chi sono

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È lu putiri ca nforza li putenti,
è lu silenziu ca ammazza li ‘nnuccenti,
grapu li pugna, cuntu li jita
restu cu sugnu, cercu la vita.

Rosa Balistreri, Rosa canta e cunta

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Maestro e la Musa

Guardare l’accadere delle cose attraverso lo sguardo attento di qualcun altro è un’intensa esperienza di confronto e verità. Grazie Daniela Thomas.

Spalle al mare

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Foto di fraru.b

Qualche giorno fa sono rimasta bloccata tra i vicoli del centro storico a causa di una manifestazione, l’ennesima a Palermo.
I vicoli del centro sono stretti, in alcuni l’auto ci passa appena. Si attraversano con la sensazione di non averne il diritto: le persiane aperte per il caldo fanno intravedere le tavole apparecchiate, la televisione accesa, gli uomini in canottiera bianca, le donne con gli abiti attillati, qualunque sia la taglia di appartenenza. Non è guidare in città, è entrare nelle case della gente. L’estate del sud costringe al contatto, ci obbliga a vedere e sapere. Mentre sostavo sotto il sole cocente di fine giugno, priva di aria condizionata, ho notato alla mia destra un uomo e una donna che parlavano  in modo animato.

L’età della signora era indefinibile. Sembrava mamma, sembrava nonna, non so dire se mi apparisse vecchia pur essendo giovane, o se, essendo anziana conservasse un qualche scampolo prepotente di gioventù. So che per metà i capelli erano grigi e per l’altra metà di un castano meticcio. Era bassa e molto grassa, ma gli occhi erano vispi e grandi, ingenui, quasi. In braccio teneva un bambino di circa tre anni, biondo e monello. Non parlava il bambino. Si lamentava. E mentre la signora si intratteneva in un dialogo serrato con il vicino di casa, “u picciriddu” cercava di arrampicarsi sul corpo della donna servendosi del suo seno immenso come appoggio. Sembrava cercasse di andare oltre. Voleva scappare, scavalcare forse la vita che gli era toccata in sorte. Erano tenaci entrambi, però, perché ad ogni tentativo di fuga, la donna lo riportava giù, mille volte, ogni volta, come se non potesse stancarsi mai, come se non ci fosse altro luogo in cui andare, come se non ci fosse mondo oltre il suo seno.

L’uomo, il vicino di casa, ascoltava. Solo la donna parlava. E lo faceva con parole allungate, di forma anomala, con un dialetto fitto fitto, un po’ arabo, un po’ nostro. Raccontava di sua figlia, che “magari ora puru na tessera ciù scrivunu che è buttana! E quannu ci pari a idda a finisci ri fari a cagna”. Certo non le manda a dire la signora. Ma il fatto è che sua figlia partorisce a ciclo pressoché continuo figli senza padri. E pure il piccolo fuggiasco che portava in braccio era uno di questi: “U viri chistu, chistu vinni ca a Talassemia, che rappresenta a tipo anemia mediterranea”.

Noi a Palermo a spiegare le cose in un modo solo ci imbarazziamo, siamo a disagio. Ci pare di mentire, di dire bugie. Una stessa cosa la dobbiamo spiegare in modo diverso e per enunciare queste molteplici identità di cose e persone ed eventi ne pronunciamo il nome, la realtà che vogliamo esprimere e poi aggiungiamo “che rappresenta…”. Noi, a Palermo, lo sappiamo che le persone, le cose, gli accadimenti non hanno una sola faccia, sappiamo che niente è come appare. Noi per i quali… La Mafia è lo Stato? Oppure: La Mafia e lo Stato? Cioè: “Lo Stato che rappresenta la Mafia”, per capirci. Perché, insomma, da noi a Palermo tutto va al contrario, noi lungo la costa costruiamo le panchine che danno le spalle al mare e ci sediamo a guardare le costruzioni abusive che scaricano la fogna sulla spiaggia. Perché a noi in Sicilia la bellezza ci provoca terrore, il suo richiamo alla custodia, alla responsabilità, alla coscienza non lo possiamo sopportare. Così diciamo: “Haiu na casa a Villagrazia che rappresenta tipo na villa a mari”, appunto. Se esiste una cosa mica vuol dire che quella cosa significhi quanto chiaramente mostra di sé, ma manco per sogno! E pure per le persone è così, ovviamente. “Chistu rappresenta che è me cumpari”. La sua identità è data dal ruolo che svolge in relazione al soggetto che si esprime. E se non svolge nessun ruolo è un gran problema perché qualcuno con fare minaccioso può avvicinarsi a chiedere conto di quanto dici e fai esclamando: “Oh ma chi mi rapprisienti!?”. Già, tu, proprio tu…chi rappresenti?
Il bene non è il bene e il male non è il male. E’ dipende cosa rappresenta, cosa ci rappresenta.

Spero che il bambino biondo e monello, con la Talassemia che purtroppo non “rappresenta” la semplice anemia mediterranea, un giorno prenda bene la rincorsa e puntando con decisione e senza troppa pietà il piede sul cuore di questa terra senza verità possa trovare il suo modo di fuggire e vivere, dove le panchine guardano l’orizzonte e l’occhio non s’inganna.

La vita dentro

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Ieri sera a Palermo ha preso il via il Sole Luna Doc Film Festival, una rassegna cinematografica che cerca di promuovere, come ponte fra le culture, la conoscenza reciproca, la solidarietà, il rispetto.
Tra i primi film in gara è stato proiettato presso lo Spazio Arena dei Cantieri culturali A walnut tree “Un albero di noci”. Il regista Ammar Aziz racconta la nostalgia di un anziano strappato al suo villaggio, in Pakistan, dal conflitto fra esercito e talebani e costretto a vivere in un campo profughi con la sua famiglia.
Baba, così viene chiamato il protagonista, è un maestro e un poeta, un uomo misurato, dalla barba bianca e lo sguardo profondo. Poggiato ad un muretto di mattoni che ne sostiene la fatica e la disperazione narra ai nipoti della terra che ama e nella quale, però, non è potuto restare, “una terra piena di giardini”, trasformata in terreno di sanguinose guerre fratricide, in terra arida dove è feroce la sete della lotta.

Si aggira nel campo in cerca di confronto e conforto, ma lì “non esistono più persone, solo storie”. Esiste solo il passato da ricordare, per molti di loro il presente è troppo duro e il futuro un lusso fuori portata. I bambini bevono acqua mista a fango e sporcizia ed hanno i capelli unti di inconsapevole disperazione.

I lunghi silenzi aiutano a comprendere e a rendere il dramma dei giorni tutti uguali e i dialoghi fanno venire alla luce la distanza tra le generazioni. Lì dove i giovani resistono in attesa di un futuro migliore gli anziani disperano non tollerando oltre l’esilio, la sofferenza, la solitudine.

Baba recita per farsi coraggio una poesia su un albero di noci piantato dal padre, simbolo di appartenenza ad una terra, ad una comunità. Non poterne aver cura, non poterne passare la custodia a figli e nipoti è un dolore troppo grande da sopportare, uno sradicamento che rende il pensiero della morte più tollerabile della vita vissuta in quelle condizioni.

Baba piange lo strazio della sua condizione, davanti al figlio, ai nipoti, alla giovane nuora dice di voler tornare al villaggio e non servono a nulla le ragionevoli opposizioni della sua famiglia, a nulla giova ricordargli delle bombe, delle case distrutte, dei funerali quotidiani, dei bambini senza braccia e gambe, del terrore, dell’odio fratricida. “Voglio tornare – dice singhiozzando – non provate a fermarmi”.

E il desiderio di tornare, di fuggire da una vita che umilia  l’identità è davvero più forte di tutto. Baba scappa. Ancora oggi risulta disperso. Il figlio ha provato a raggiungerlo, ma non lo ha trovato. Ciò che trova sono le macerie della scuola dove lui era cresciuto, dove suo padre aveva insegnato.

Prima di fuggire Baba aveva raccontato delle dodici ore di viaggio tra le montagne, per fuggire ai talebani. Dodici ore durante le quali un fratello spara alla sorella disabile su sua disperata richiesta, perché portarla sulle spalle durante la fuga era impossibile, dodici ore in cui i bambini muoiono di stenti e dove le madri partoriscono figli sotto la pioggia battente.

A walnut tree è una potente poetica narrazione che descrive la forza inarrestabile del viaggio verso la vita che si porta dentro: “La terra di Dio è vasta, troveremo un luogo per vivere in pace”.

A walnut tree

 

Lutto

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Si sfaldino di cenere nera
le vostre mani assassine.
Nessuna carezza sui figli
nessun tocco d’amore.

Di carbone fumante
ogni sogno.
Orizzonte grigio, per anni.

Le fiamme divorino
di ghigno selvaggio
i moti del cuore,
in fumo i progetti
i sorrisi
gli amori.

Disperati voi di disperazione!
Colma non era già questa terra
di tutta morte e la rassegnazione?

Solo conforto dal chieder perdono,
davanti ai fiori, in ginocchio.
Misericordia dal lutto dei frutti
pietà dalle orfane spine.

 

 

 

Di dolcezza rifiorirà, la terra.

Come acqua sulla terra bruciata, questa poesia ha attraversato ieri i cuori di molti siciliani affranti. Siamo abbattuti dal fuoco e dalla prepotenza. Accecati dal fumo e dalle fiamme cerchiamo, senza fiato, di rincorrerla la giustizia, di afferrarla alle spalle, ma fugge, lei, da questa terra senz’aria, con piedi veloci di sdegno. Spazziamo via dai nostri balconi la cenere degli alberi morti e dei fichi d’India cadaveri. Le loro spine erano in fiore, e senza frutto, ora, si accasciano sul suolo grigio di tristezza.
Versi dolci, di una donna dolce. Così ancora ci salviamo noi, in questa terra senza appigli, aggrappandoci all’intelligenza integra e visionaria di donne, di uomini rimasti sani.

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foto di Enzo Valenti

Lettera al figlio

Mi caro figlio, tu che sei lontano,
vedessi come è bella stamattina
questa città che a te piace e non piace,
antica aristocratica signora
sempre sporca disfatta spudorata.
Ma oggi no.
C’è Monte Pellegrino
tutto rosa, lavato dalle piogge recenti
e il sole conta i pini
e li illumina e ombreggia
uno per uno, e gli alberi e le foglie
foglia per foglia. Cantano
le finestre da vetro a vetro,
e tutto splende e brilla e il mare è azzurro
senza orizzonte come l’infinito.

Se una pioggia potesse ripulire
anche l’anima e il sole benedire
allegro una innocenza ritrovata
a questa tua città dai vermi neri
annidati nei tufi polverosi
da memorie e assassini,
e dolori e macerie e cattiverie
senza perdono né consolazione

Se potessi tornare, ritrovare
la dolcezza delle prugne di cuore,
le pomelie sui balconi dei poveri,
le canzoni delle sere d’estate
e le carezze di quest’aria mite
che oggi asciuga le lacrime
dei giovani Re di pietra ai Quattro Canti
e ai mendicanti,
in questa città di mercati e camposanti.

E guardarci negli occhi dei passanti
senza il pugnale tra i denti
e sorriderci e augurarci buona giornata
per quanto è bella questa mattinata

Grazia Cianetti

Buio a mezzogiorno

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Sono passata dal parco della “Favorita” oggi, era mezzogiorno. A mezzogiorno il sole è alto, soprattutto in una mattina di quasi estate, sottrarsi alla luce non si può.
E infatti a quell’ora, le prostitute le guardi in faccia, ne distingui i lineamenti, gli abiti succinti, le treccine dei capelli e la pelle scura.

Anche i “clienti” ci sono a mezzogiorno, ma non li vedi. Puoi leggere la targa, riconoscere il tipo di auto, scorgere il braccio che penzola fuori dal finestrino. Ma la faccia, la faccia di quei maschi non la riesci a vedere.

Come sui giornali o nelle pagine online di riviste e quotidiani, quando accanto ad articoli che parlano di stupri e uccisioni di donne a comparire è sempre la vittima, mai il carnefice. E se per caso si riesce a reperire dai social qualche foto, sono sempre foto di lui sorridente che bacia o abbraccia lei, prima di ucciderla, picchiarla, violentarla. Il volto del maschio violento e assassino non lo possiamo tollerare. Le foto di donne sedute in un angolo con la testa tra le gambe e un braccio alzato in un tentativo, inutile, di difesa, si.

Così oggi su una sedia di plastica bianca sotto un albero al bordo della strada, ho visto in volto lei. Aveva un vestito verde intenso, i capelli lunghi, le gambe accavallate e leggeva un libro.
Era assorta nella sua lettura.
Era giovane.
Era bella.
Era tragica.

Mi sono chiesta se possedesse un segnalibro, per custodire il punto esatto di ogni interruzione, per ogni volta che un maschio senza volto le chiederà di farsi terreno di sfogo delle sue più squallide voglie. Mi sono chiesta se il libro lo avesse comprato con i soldi “guadagnati”. Mi sono chiesta perché provassi tanta rabbia e a quali delle due categorie fossi più vicina, se a quella degli sfruttati o a quella degli sfruttatori.

Sono passata dal parco della “Favorita” oggi, era mezzogiorno.
Lei leggeva un libro.
C’era molta luce. Ed era buio.