Come una sorgente

Era estate e faceva molto caldo, perfino in Russia.
La Russia. Non occupava alcun posto tra le mete dei miei sogni, ma ero molto giovane allora e sapevo poche, pochissime cose. Accettai di far parte di una strana compagnia composta da alcuni professori della facoltà di Teologia, qualche collega e qualche personaggio in cerca d’autore. Era il mio primo viaggio fuori dall’Europa.

periferia-mosca_202L’arrivo a Mosca fu traumatico. Attraversare la periferia intravedendola dall’autostrada che collega l’aeroporto al centro città è un pugno allo stomaco. Palazzi. Tutti uguali. Tutti grigi. Per chilometri e chilometri. Nessun balcone. Finestre piccole. Piccolissime.

Mosca è quasi tutta grigia. Ed è immensa. Ma in questa distesa monocolore di un’uguaglianza imposta e mai realmente realizzata, esplode il colore della piazza Rossa ed esplode la luce sulle cupole delle basiliche del Cremlino.

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A San Pietroburgo, invece, siamo arrivati in treno. Un viaggio lungo, attraverso una infinita distesa di betulle senza né case né uomini. Il treno puzzava di vodka e rimbombava di grida in una lingua dura e sconosciuta. La città è bellissima, al grigio del decaduto regime si è sostituito il colore vivo dei palazzi costruiti dagli architetti italiani e all’afa una frescura umida e sempre carica di nuova pioggia.

89863c67-f15d-4d34-b234-f1a10aa1fc38L’Hermitage è un posto incredibile. Gli occhi non sanno dove posarsi, i piedi rincorrono lo spazio di mille sale e il cuore è continuamente sollecitato allo stupore. Ho visto moltissime opere studiate sui libri, che mi hanno restituito il senso delle ore trascorse nella fatica d’imparare. Fra tutte le Tre grazie di Antonio Canova sono state l’incontro che non immaginavo di poter fare. Poste al centro della sala, in alto, non si possono guardare se non con la testa indietro e il naso all’insù. La perfezione e la dolcezza delle forme, la bellezza dei corpi che elogiano il movimento pur restando immobili, le espressioni del volti strappati al freddo del marmo e donati al calore degli sguardi. E’ stata una grande emozione. Ma, con il senno del poi, che è uno dei miei più preziosi compagni di vita, ho capito che non soltanto lo stupore dell’opera d’arte mi aveva coinvolta in quella visione. C’era dell’altro. Qualcosa che avrei compreso molti anni dopo e a prezzo di molte e non sempre facili esperienze. Era la “femminilità”.

Non certo quella dei tacchi alti e delle creme anti età, ma quella dello spirito dato in dono, come un mistero, a noi donne. Non a tutte in egual modo, forse, ma comunque nascosto come un tesoro nell’animo di ciascuna. Non è solo un modo di muoversi e non è mai un atteggiamento costruito, è come una specie di grazia che occupa lo spazio concavo del nostro corpo e del nostro cuore. Non è necessariamente legato alla famigerata maternità fisica, basta osservare come va il mondo per comprenderlo. E’ qualcosa di più profondo e primordiale. Forse è la confidenza con il patire e con il sangue, il frutto della fatica di una trasformazione ciclica ma mai uguale a se stessa. Forse sono le forme del corpo di per sé armoniche molto, molto al di là della forzata corrispondenza ai cangianti  e a volte perversi modelli estetici. Forse, però, osservando la scultura, mi viene da pensare che la femminilità, in qualche modo che non so dire, sia pure legata alla solidarietà che esiste tra le donne, ad una certa “sorellanza”. Una delle tre grazie, presa a solo, per quanto bella, non avrebbe mai e poi mai potuto esprimere la stessa forza che viene dal loro abbraccio senza possesso.

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Si toccano appena, si guardano, si appoggiano l’un l’altra, quasi senza peso, ma donando un grande senso di stabilità a chi le osserva. Vi è confidenza, conoscenza, comprensione, sostegno. Non credo sia un valore di altri tempi, compromesso oramai da un mondo tanto cambiato da sembrare quasi impazzito, a volte confuso, sterile. Credo sia una realtà che lacera dentro quando non viene riconosciuta o, peggio, volutamente infranta. Bisognerebbe ri-conoscersi continuamente: l’anziana nella giovane, la giovane nell’anziana, la donna matura nella bambina, la bambina nell’adolescente. Dovrebbe esserci uno scambio continuo, come una sorgente, di saperi e dispiaceri, di segreti e di nuove scoperte. Una dinamiche difficile, ma preziosa. Dovrebbero insegnarci che quel che sembra perdersi con l’avanzare dell’età e la difficoltà della vita, in realtà è solo donato e rimesso in circolo, per sempre presente, per sempre vivo.

L’odore del mare, come uno schiaffo.

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Certe volte mi chiedo come abbia fatto a vivere per trent’anni senza leggere le poesie di Pier Paolo Pasolini. Mi domando come sia potuta arrivare a conseguire un dottorato di ricerca senza che qualcuno mi abbia chiesto: “Hai mai letto le poesie di Pasolini?”.

Quando poi l’ho fatto è stato come sbattere contro un muro procedendo ad alta, altissima velocità. Da adolescente lo osservavo da lontano, lo guardavo ma non mi avvicinavo, come si fa a quell’età con le cose “dei grandi”. Una volta chiesi a mia madre: “A te piace Pier Paolo Pasolini?”. Mia mamma mi guardò e mi rispose: “Pasolini è… troppo”. Io non domandai oltre, lei non mi spiegò.

A trent’anni ho fatto le valigie e sono andata a vivere a Roma, prima per frequentare un corso di tre mesi, poi per lavorare in Rai sei mesi, poi, ci sono rimasta quattro anni. Ho scritto, insegnato, camminato molto, mangiato poco, pianto moltissimo. Ci siamo incontrati così io e Pasolini, tra lacrime e passi.

Il mio posto preferito di Roma è Torre Argentina. La prima volta nella capitale  ho dormito in una soffitta di un palazzo lì vicino. Studiavo i testi antichi seduta ad una minuscola scrivania dalla quale scorgevo una distesa infinita di tetti. Poi scendevo giù, giravo l’angolo, sentivo il rumore del tram che faceva capolinea davanti al Teatro Argentina. Il teatro aveva una facciata mal messa, decadente, bellissima. Due anni dopo, qualche scellerato ha deciso di metterla a nuovo. Una follia. Prima del restauro sembrava un’anziana signora elegante: l’intonaco bianco pendeva a brandelli in più punti facendo intravedere un color ocra d’altri tempi e creando una mappa segreta di chiazze e crepe sottili. L’amavo davvero molto. Dopo il restauro ho odiato il suo luccichio nuovo di zecca e la distesa di cemento a cancellar per sempre le tracce del capolinea del tram 8.

(Teatro Argentina)

(Teatro Argentina)

Guardavo i gatti, la gente, la donna di colore che chiedeva l’elemosina cantando tutto il giorno con un cartello appeso al collo con su scritto: “Sono felice, aiutatemi!”. Entravo alla Feltrinelli e stavo lì per ore. Non avevo una lira da spendere in libri, quindi mi piazzavo davanti allo scaffale dei poeti, prendevo un testo, mi sedevo, leggevo. Un pomeriggio ho alzato lo sguardo e ho visto: “Trasumanar e organizzar” di Pier Paolo Pasolini. Ho preso il libro. Mi son seduta, ho respirato, ho aperto, ho letto:

Non c’è cena o pranzo o soddisfazione del mondo che valga una camminata senza fine per le strade povere, dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani.

Ho chiuso il testo. Sono uscita dalla libreria e non ci sono rientrata per settimane. Ho camminato per ore senza meta, tra i ponti che solcano il Tevere, i platani gialli d’autunno e l’umidità della sera. 561432_107041426159320_1833314049_n “Pier Paolo Pasolini è… troppo” – soltanto questo riuscivo a pensare. Poi ho smesso di pensare. Era un pungolo nel cuore che non mi dava tregua. Volevo provare a capire cosa fosse. Ho comprato il libro. Poi un altro. Poi tutte le raccolte di poesie. Ma il pungolo è rimasto, intatto.

 

Leggo con difficoltà, lentamente, la prosa di Pier Paolo Pasolini, i film non riesco a reggerli. Non conosco poesie a memoria. Imparo soltanto singoli versi con tutta la lentezza che richiede: Una nera rabbia di poesia nel petto.
(https://www.eufemiaframmenti.it/2013/05/12/frammento-alla-morte/)

Non amo i film che lo raccontano. Quel che vedo rappresentato non corrisponde a quel che io so, a quanto provo per lui. Di andare ad Ostia dove lo hanno massacrato per la paura che incuteva all’animo meschino dei falsi e degli ingiusti, non ho avuto mai il coraggio. Spesso però mi addentravo tra le vie di Testaccio, e lo cercavo. Anche se oramai era tutto troppo diverso da quello che i suoi occhi avevano visto, da quanto il suo cuore aveva amato. Restavo, allora, a fissare il Gazometro nella luce del tramonto che a Roma è sempre l’annuncio di un compimento.

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Un pomeriggio di giugno, il giorno del mio compleanno, sono andata a visitare una mostra che lo riguardava al Palazzo delle Esposizioni. Sono rimasta fino alla chiusura. Ho letto le pagine di diario, i dattiloscritti, ho guardato le fotografie. Ho imparato a memoria i tratti della sua grafia e quelli dei disegni. Ho osservato le foto, quegli zigomi così pronunciati in una faccia che sembrava di cartapesta. Ho odiato sua madre perché mi sembrava fosse responsabile delle sue disgrazie, anche se non saprei spiegare perché. Ho appuntato tutte le parole che sollecitavano il pungolo nel cuore su un taccuino dalla copertina in pelle regalatomi da un uomo troppo ferito e  troppo lontano da se stesso per essere amato.

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Fuggii con mia madre, una valigia e un po’ di gioia che risultarono false su un treno lento come un merci, per la pianura friulana coperta da un leggero strato di neve. Andavamo verso Roma. Ho vissuto quella pagina di romanzo, l’unica della mia vita: per il resto – che volete – sono vissuto dentro ad una lirica come ogni ossesso.

Ha vissuto senza evitare il suo tormento. Senza distrarsi un attimo da esso. Ha puntato gli occhi sulla miseria umana che gli abitava in corpo e l’ha cercata ovunque fosse possibile trovarla. Ha attraversato la disperazione, cercando dappertutto ogni felicità. Ma è rimasto solo, fino alla morte perché nessuno era in grado di fargli compagnia.

Adulto? Mai, mai! Come l’esistenza che non matura, resta sempre acerba, di splendido giorno in splendido giorno. Io non posso che restare fedele alla monotonia del mistero. Ecco perché nella felicità non mi sono abbandonato, ecco perché nell’ansia della mia colpa non mi ha toccato un rimorso vero. Pari, sempre pari come l’inespresso, all’origine di quello che sono. 

Da quel pomeriggio alla Feltrinelli di Torre Argentina, Pier Paolo Pasolini abita in me come una ferita dal significato introvabile. Il suo “troppo” sarà per sempre impenetrabile. Gli studiosi che parlano di lui, che sanno di lui, che scrivono di lui, mi fanno sorridere. Mi pare che lui li beffi sempre, continuamente, senza che essi ne abbiano mai reale coscienza.

Lo scorso novembre ho visitato, sempre a Roma, una piccola mostra che esponeva gli oggetti che aveva addosso e in auto la notte in cui è stato ucciso.

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Ho visto il suo sangue.

Allora mi sono ricordata di una strofa che avevo imparato a memoria, leggendola davanti al Cristo crocifisso della Chiesa del Gesù.

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Noi staremo offerti sulla croce,
alla gogna, tra le pupille

limpide di gioia feroce,
scoprendo all’ironia le stille
del sangue dal petto ai ginocchi,
miti, ridicoli, tremando
d’intelletto e passione nel gioco
del cuore arso dal suo fuoco,
per testimoniare lo scandalo.

 

 

 

A margine di un disegno senza data scriveva: Il mondo non mi vuole più, e non lo sa.
Mi è sembrata la più precisa e coraggiosa definizione della sua vita.

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Che cosa abbia avuto a che fare Pier Paolo Pasolini con la nostra storia, con questo paese che isola e uccide i profeti come un tempo faceva Gerusalemme, io non so capirlo.

Ma forse i poeti hanno a che fare soltanto con la vita di chi li legge e ne custodisce le parole costate loro così care. E la ricerca del senso di quelle parole, per chi le trova, tiene in vita, generazione dopo generazione, lo spirito dei giusti massacrati dove l’umanità misera si infrange e dove l’odore del mare è come uno schiaffo.
(https://www.youtube.com/watch?v=d8CTJbYqOaE)

Una perla di ragazza

(foto di Barry Feinstein)

(Janis Joplin, foto di Barry Feinstein)

Da quando gli anni ’70 hanno fatto irruzione nella mia vita attraverso la storia di chi era un ragazzo in quegli anni, ho imparato, conosciuto e cominciato ad amare molte, moltissime cose e ho compreso che quegli anni esistono come una traccia genetica, inconscia, ma fortissima nella vita di chiunque sia arrivato dopo.

Janis Joplin fino a qualche mese fa era per me uno dei tanti nomi leggendari della musica: Jim Morrison, Bob Dylan, Jimi Hendrix, John Lennon…. Questa estate, invece, percorrendo le assolate strade del Portogallo, ho scoperto chi fosse. Osannata per la sua voce blues, particolarissima in una donna bianca, capace di interpretare brani dal folk al rock and roll (per esempio: https://www.youtube.com/watch?v=sfjon-ZTqzU) e morta come tutte le stars della musica a 27 anni.

Ma della sua storia, più di tutto, mi ha impressionato il disagio e l’inquietudine che l’hanno quasi costretta ad una ricerca continua di se stessa e alla gestione di una sofferenza molto molto profonda.
Dicevano che non fosse bella e pensava anche lei di non esserlo. Grassa per tutta la durata della sua maledetta adolescenza e con la pelle del viso rovinata dall’acne era il bersaglio perfetto per quella massa di idioti presenti nelle scuole di ogni tempo. Janis pativa la solitudine e desiderava essere amata da tutti, tutti, senza distinzione. Scappò via dalla cittadina del Texas dove era nata, da un futuro scritto che la voleva sposata ad un brav’uomo e insegnante in una scuola di provincia. A diciassette anni scoprì di saper cantare e da allora, fino alla morte, non fece altro che questo: cantare e desiderare l’amore.

Io solitamente ascolto Janis Joplin quando sono triste o quando ho bisogno che la malinconia prenda una forma. Possiede una strana forza Janis: quella di portare in corpo un grande tormento e di riuscire a condividerlo come un dono. E’ graffiante ed è dolce. Sfacciata a volte e timida come una bambina. Ascoltare Janis Joplin è come partecipare ad un dolore che è di tutti e cantare con lei aiuta a capire che la fragilità non è una colpa e che nello sguardo di ciascuno si può ritrovare un frammento di qualcosa che ci appartiene.

Janis entrava ed usciva dai tornanti dell’eroina continuamente, era la sua tragica metafora della vita. Vi entrava per amore e vi usciva per amore. Janis ha fatto tutto per amore. Non si è accorta di morire e questo mi consola quando la penso spaventata per la sua solitudine. Forse aveva troppa vita addosso per attraversare l’esistenza  camminando su sentieri già battuti: “Lei non riusciva a trovar il modo per essere come tutti gli altri. Grazie al cielo”, raccontano i suoi amici.

Tra le mie canzoni preferite c’è “To love somebody” ( https://www.youtube.com/watch?v=fkGUt4QYc08; testo e traduzione: http://www.theblacksnack.com/to-love-somebody-janis-joplin/). Mi piace perché descrive bene la sua paura di non poter essere veramente amata da qualcuno. Janis era emotivamente onesta. Patty Smith che l’ha conosciuta e frequentata durante la permanenza al Chelsea Hotel, racconta: Janis trascorse gran parte della festa in compagnia di un bel ragazzo che le piaceva, ma poco prima dell’orario di chiusura il tizio se la svignò con una delle sue leccapiedi più carine. Janis ne fu sconvolta: “Capita sempre a me. Un’altra notte da sola”. Io la riportai in camera. Quando feci per andarmene si guardò allo specchio, e sistemò i boa di piume: “Come ti sembro amica?”.  “Una perla – le risposi. Una perla di ragazza”. (da Just Kids di Patti Smith).

Nel 2005 al 72° Festival di Venezia è stato presentato un documentario che ripercorre la sua storia, guardatelo se potete (https://www.youtube.com/watch?v=UI3NxZIcd2A). E’ molto bello. Viaggerete con lei tra le vie tortuose, tragiche e bellissime dell’animo umano, tra la California e Manhattan, fino al compimento di una vita che sembra spezzata solo in superficie. Nel montaggio è inclusa la lettura di alcune sue lettera. Quella che amo in particolare si conclude con una esclamazione che è forse un grido, forse una bestemmia, ma che a me sembra davvero una delle più belle preghiere che abbia mai sentito in vita mia: “Cristo, quanto cazzo vorrei essere felice!”.

 

Perché nulla vada perduto

foto di Carlo Columba

foto di Carlo Columba

Per tutto il mese di novembre, a giorni alterni, Eufemia vi terrà compagnia con una piccola personale recensione/narrazione di personaggi, luoghi, canzoni, films, eventi, foto, libri…
In nome della sua passione per la raccolta paziente di “frammenti”, condividerà con i suoi amici e lettori un percorso di passi senza una meta precisa e senza un significato particolare. Solo la partecipazione di quanto, giorno dopo giorno, oltre e al di là dei grandi eventi, fa la nostra storia.
Ogni esperienza può essere raccontata da punti di vista differenti. Eufemia sceglie di raccontarsi attraverso le piccole incursioni che l’arte, nelle sue molteplici forme, fa nel nostro quotidiano plasmando i nostri gusti, i pensieri, le emozioni, la creatività, l’immaginazione.
Si comincia il primo giorno di Novembre.
Vi aspetto!

Gesti

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“…che almeno nei gesti si plachi,
per un istante di gloria
tutta la febbre che mi freme nel cuore…”

Cesare Pavese, estratto poesia del 17 agosto 1927

Queens of Syria

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Vogliamo che la gente conosca la lotta del popolo siriano in modo diverso

Queens of Syria è un film documentario di Yasmin Fedda. Narra la storia di un gruppo di donne siriana rifugiate in Giordania, coinvolte in progetto teatrale volto a mettere in scena le “Troiane” di Euripide e a raccontare, attraverso la tragedia greca, il dramma contemporaneo della Siria e della sua gente.

Queens of Syria è la narrazione di un’esperienza molto forte, capace di raccontare la guerra di Siria dall’interno, senza far sconti alla drammaticità degli eventi, ma caricandoli di quella speranza che la perseveranza della vita porta con sé. Le parole di Euripide sembrano le più adatte ad esprimere il dolore che abita il cuore dei rifugiati siriani.

Rasha, Suad, Maha, Hanan, Hedaya, e tutte le altre donne coinvolte nel progetto portano in cuore e nel corpo una grande pena: il dolore per i parenti uccisi e seppelliti nelle fosse comuni, lo strazio per la distruzione delle proprie case, lo sgretolarsi della vita quotidiana, l’allontanamento dalla propria terra. Nelle lacrime delle troiane, nel canto del loro dolore, man mano che lo spettacolo viene allestito, preparato, provato, le donne siriane ritrovano se stesse. Nei loro gesti all’inizio maldestri e scomposti e alla fine unanimi e pieni di pathos, lo spettatore osserva la forza che viene fuori dalla condivisione di un progetto comune e dalla complicità che ne segue.

I canali ufficiali, i giornali e i Tg, raccontano la guerra di Siria a partire dagli equilibri politici e dalle strategie di potere messe in campo da Stati Uniti, Russia, Turchia e dallo stesso Bashar Al- Assad. Anche il fenomeno delle migrazioni viene raccontato quasi sempre dando voce alle difficoltà di chi accoglie. Ma la guerra così come i viaggi dei migranti verso l’Europa devono poter essere raccontati dai protagonisti, da chi si ostina nella ricerca della vita fino a rischiarla del tutto. Il teatro, la danza, la narrativa forse non risolvono le guerre e non decidono i confini e le alternanze politiche, forse non fermano le bombe e non danno pane a chi ha fame, eppure il linguaggio dell’arte è l’unico capace di  trovare parole diverse e punti di vista realistici strettamente legati al sentire delle persone coinvolte.

Attraverso la musica, la street art, il teatro, la poesia, la rivoluzione del popolo siriano continua a perseverare nella ricerca della libertà. Sono infinite le contraddizioni che caratterizzano questa rivoluzione, molte le sue degenerazioni,  ma negli occhi di queste donne impegnate nella realizzazione di uno spettacolo teatrale, divise tra i figli, la paura del regime, il desiderio di riscatto, la gestione del dolore, il desiderio di autodeterminazione si scorge una forma di resistenza che riempie di fiducia: Hanno visto la morte, ma continuano a desiderare l’amore, hanno perso tutto ma continuano a immaginare un futuro, hanno visto violenza e distruzione, ma l’una con l’altra sistemano gli abiti e truccano gli occhi prima di andare in scena. Nella loro gestualità quotidiana e nella disponibilità ad imparare un nuovo linguaggio, quello del teatro, si esprime una forza tenace che tiene in piedi un intero popolo e, forse, anche tutti noi.

Sai che cosa sembra?

(Addaura, Palermo)

“Ora camminavano sotto braccio.
L’uomo portava la bicicletta con la mano sinistra e lei, la donna, era nell’altra sua mano, camminava dentro di lui, non sulla strada. […]
«Sai,» egli le disse, «che cosa sembra?»,
«Che cosa?» disse Berta.
«Che io abbia un incantesimo in te».
«E io in te. Non l’ho anch’io in te?».
«Questa è la nostra cosa».
«C’è altro fra noi?»,
«Pure sembra che ci sia altro».
«Che altro?»,
«Che io debba vederti quando sono al limite».
«Come, al limite?»
«Quando ho voglia di perdermi»”.

Elio Vittorini, Uomini e no, 1945.

Il conto che non torna

(foto di Zein Al Rifai)

Oggi ho ascoltato il giornale radio mentre rientravo a casa. Hanno detto che Holland è andato a visitare il campo di Calais, quello che ospita 10.000 persone e che viene chiamato “Giungla” perché è una prigione di melma e fango, senza servizi igienici, dove impunemente avvengono stupri e ronde xenofobe. Ma…non è vero che Holland “ha visitato Calais”, come titolano i giornali. Ha visitato la città, non il campo ed ha promesso agli abitanti che la “giungla” sarà sgombrata, del tutto, per sempre. Come, però, non lo ha specificato. Ha specificato, di contro, di aver chiesto l’aiuto del Regno Unito: che paghino anche loro per riportare a Calais la civiltà! Ma il Regno Unito non vuole pagare, perché è già totalmente a sue spese la costruzione del muro che impedirà del tutto e per sempre, il passaggio dei migranti.
 
Poi, sempre al giornale radio, hanno parlato della Siria. Hanno detto che erano “brutte le notizie”, come se sulla Siria avessimo ascoltato altro se non cattive notizie dal 2011 ad oggi. I negoziati tra Russia e Stati Uniti per la ricerca di un accordo, di un cessate il fuoco e di una transizione politica sono compromessi – dicono i russi – “a causa del tono inaccettabile”, usato dagli Stati Uniti nei loro confronti. Ci sono uomini sensibili al Cremlino. E misurano le forze, come fanno le bestie, che segnano il territorio con urina ed escrementi per decidere chi nel branco è il più forte, il capo. E che importa se intanto 2 milioni di persone ad Aleppo sono senza elettricità e senza acqua e se i bambini bevono   dalle pozzanghere per porre fine al tormento della sete.
 
Ancora, è stata data la notizia del dibattito diretto fra Donald Trump e Hilary Clinton. Pare che il confronto avrà un numero di spettatori superiore al Super bowl, ah, gli americani… Trump oggi ha annunciato che farà di Gerusalemme la capitale indivisa di Israele e che la sua sicurezza sarà per gli USA una priorità. E chi aveva dubbi su questo: ingraziarsi i forti e calpestare i deboli, è lo sport più praticato dell’ultimo secolo.
 
Ah, poi hanno pure detto che il film-documentario di Gianfranco Rosi, “Fuocoammare”, interamente girato a Lampedusa sul tema dei migranti, è il film italiano scelto per concorrere all’Oscar.
 
Già.
 
E’ una bella notizia, certo! Però io, che pure in matematica non sono stata mai brava, mi rendo conto che i conti non tornano.
“Fuocoammare” agli Oscar e 10.000 profughi in mezzo al fango di Calais?
 

Forse il legame tra cultura e società civile è veramente oramai irrimediabilmente compromesso e l’arte, il cinema, la letteratura sono tutte nobili cose, ma ininfluenti, slegate dalla realtà, poiché incapaci di mutare il pensiero, interrogare le coscienze, innescare un cambiamento.

Ma che siamo tutti ottimi attori, è fuor di dubbio. Basta sorridere a favor di camera.

Il mondo davanti

img_20160923_144814  img_20160923_144903  img_20160923_145113 img_20160923_152808Da quando è cominciata la scuola la maledico questa città, per il traffico opprimente e i cantieri aperti, le strade dissestate, i marciapiedi con l’erbaccia alta 50 cm, per la sporcizia e il puzzo della spazzatura per strada. Lo sapevo che Palermo non avrebbe avuto alcun riguardo per il mio ritorno, che non mi avrebbe mai ringraziata o trattata con garbo.

Così è Palermo inghiotte ogni sforzo e riporta tutti continuamente al punto di partenza. Non cede di un solo passo la sua malinconia decadente e quel senso di perdita, di vuoto incolmabile. Eppure oggi, mentre in un quartiere popolare aspettavo seduta in auto l’uscita da scuola dei miei nipoti, ho avuto tempo di osservare e di pensare: mi è passato il mondo davanti agli occhi. Non solo per gli stranieri che si muovevano disinvolti e salutando la gente per strada, ma anche per il passaggio di giovani molto diversi tra loro, seppure si trattasse della solita diversità rituale di ombelichi in bella vista, capelli colorati e piercing. Tutto mi è apparso comunque in movimento. Ciclico, rettilineo, a spirale, non importa, purché ci sia.
Le persone si muovono. Si, lo so è la più banale delle affermazioni. Ma anche quella che sembra fare al mondo maggiore paura.
Sul muro vicino all’auto, poi, ho visto affissi dei manifesti che mi hanno molto molto impressionata. Ritraevano Bashar Al Assad, il dittatore a capo della Siria, quello che uccide i bambini del suo popolo con le bombe al fosforo, per intenderci. Ma il manifesto lo ritraeva sorridente, circondato dalla folla e c’era scritto in calce: “Il maggiore garante per la lotta contro il terrorismo e legittimo presidente dei siriani”, la firma era quella di Casapound. Ho sentito la collera bruciarmi la gola: era il desiderio di maledirli per quella perversione della realtà pagata con il sangue di 500.000 siriani e con il dolore di 7 milioni di persone che non hanno più una casa, una terra, una patria. Ma non li ho maledetti, perché intanto è suonata la campanella e un fiume scomposto di bambini mi è venuto incontro.img_20160923_145216 Erano bianchi, neri, gialli, sani, diversamente abili, di fede cristiana e musulmana ed erano insieme. La scuola riesce a farli ancora questi miracoli. Allora ho pensato che nonostante Casapound e Bashar al Assad, il mondo si mescolerà, i popoli si incontreranno, i muri diventeranno macerie, sta già succedendo, almeno in un quartiere popolare di Palermo, alle 3 del pomeriggio, davanti ad una scuola.

Ti scrivo ogni sera, da quasi vent’anni

Per festeggiare il nuovo ed esclusivo dominio di “eufemia,frammenti”, riproponiamo uno dei post che avete amato di più! Buona lettura.

(foto di Alberto Tozzi)

(foto di Alberto Tozzi)

Ti scrivo ogni sera, da quasi vent’anni.
Nessuno lo sospetta, una donna non scrive.
Mi pensano intenta a filare la tela per Laerte, impegnata a far cose consone alla mia condizione di donna e di regina. Se solo qualcuno tra quanti mi circonda fosse veramente interessato a me, si sarebbe reso conto che per filare, sfilare e rifare mi bastano ormai poche ore al giorno, dopo tanti anni si diventa esperti nei movimenti sempre uguali a se stessi. Mi guardano con desiderio i Proci, ma nessuno realmente possiede occhi per me. Il loro sguardo è avido, nel mio corpo riflettono la propria immagine, una virilità dal sapore dolciastro di vino, unta come il grasso delle bestie che divorano con morsi ingordi.

Ti scrivo ogni sera, per nostalgia, per amore e per rabbia. La nostalgia dei tuoi occhi, l’amore per te, per la tua vita, per il tuo corpo e per la tua anima profonda come il mare sul quale ti aggiri vagabondo, la rabbia per la tua esistenza libera, per le avventure, per la possibilità di scegliere, per il pericolo sfidato a duello ogni giorno, per la tua barba incrostata di sale. A volte mi assale il terrore, quando non riesco a ricomporre, con la perfezione che vorrei, i tratti del tuo viso; ad ogni tramonto, con il sole, perdevo un po’ della nitidezza con la quale ho provato e provo a ricordarti, e se non ti ho perduto del tutto è stato perché ti ho visto rinascere e crescere ogni giorno sulla faccia di Telemaco. Se solo avessi più coraggio, se solo fossi io per prima libera dal ruolo al quale tutti mi condannano, sarei capace di elaborare un piano per liberarmi dai Proci che invadono la nostra casa e che mi rubano la vita. Certi giorni sento dentro di me la forza necessaria a compiere la strage: li abbatterei uno ad uno con la precisione di un arciere. Saresti fiero e invidioso per la lucidità con la quale ad ognuno strapperei il cuore dal petto, sempre che gli dei abbiano donato a queste belve un cuore di uomini! Si Ulisse, amore mio, li abbatterei tutti come alberi nella foresta e di rabbia e voglia di vivere me ne resterebbe a sufficienza per imbarcarmi alla ricerca di te.

Quando qualche forestiero si ferma ad Itaca in cerca di ristoro e racconta alcune delle tue gesta, lascio alla gioia libertà di invadermi il cuore di quella felicità che piove copiosa sulla speranza dei vivi in attesa, la felicità di avere notizie di te, vivo. Ma poi, quando credendo di non essere da me ascoltati raccontano dei tuoi amori, delle figlie di dei invaghite del tuo coraggio che ti trattengono fra le loro braccia e le loro gambe di giovani ninfe, la gioia lascia posto al furore della gelosia ed io vorrei liberarmi di te come dei Proci, abbatterti senza pietà e libera da ogni legame ricostruire la mia vita, una vita di poco amore e troppa attesa. Si, vorrei lasciare Itaca, il mio popolo e i doveri di regina e confondermi tra altri popoli e altre terre dove deporre le armi dell’attesa, dove l’ombra di un passato felice non mi avvolga di paura, dove l’ansia di un futuro incerto non mi costringa ad attendere albe, all’infinito; dove esiste solo il presente e la vita che possiedo davanti agli occhi, ogni giorno.

Voi, uomini, che sfidate la morte in combattimenti senza esclusione di colpi, che rischiate la vita per un insulto o un ideale o una vendetta, come se di vita ne aveste sempre in abbondanza, come se guardare la morte negli occhi fosse solo un modo per crescere in potenza e onore, fama e coraggio! Tra voi e il sangue non c’è il ritmo e l’armonia che noi donne conosciamo, voi con il vostro corpo che muta solo dall’esterno, voi  che decidete tutto e tutto distruggete, voi unica voce del potere. Le vostre ferite guariscono, i vostri tagli si rimarginano e le cicatrici sono i vostri trofei.

Ulisse mio amore e mia disgrazia, sono sicura che a tutti tu parli di me e giuri con profonda certezza che ad Itaca la tua sposa ti attende, fedele. Fai bene a giurare, Ulisse, sulla mia fedeltà, anche se ne ignori la fatica, tu…tu che neppure sospetti a quali ancore la mia fedeltà si aggrappa per resistere alle tempeste. Non al dovere Ulisse, né alla dignità di regina, non al pudore né al vincolo delle nozze, ma a me stessa Ulisse, a quello che di me vedo e scopro durante le ore infinite che trascorro nelle mie stanze, fingendo di tessere, appoggiata al telaio come fosse il timone di una nave. So viaggiare anch’io Ulisse, senza solcare nessun mare se non quello che dentro di me si agita mostrandomi terre sconosciute e paesaggi mai visti. Tu credi di sapere chi sono, ma ciò che io sono è come la sabbia che stringi nel pugno ad ogni naufragio dal quale gli dei ti risparmiano: granelli innumerevoli che scappano alla presa forte delle tue dita e che al sole luccicano, che le onde uniscono al loro passaggio e che il calore spacca, secca e separa. Io sono cose che tu non sai, possiedo volti che tu non hai mai visto.

In questi lunghi e feroci anni, la notte, dopo aver messo a letto Telemaco e atteso il russare ingordo di tutti i Proci, quando le ancelle hanno rassettato ogni cosa e gli anziani dell’isola appendono al chiodo le loro cetre, io rimango a vegliare su me stessa, a tessere la tela invisibile della mia anima, a combattere battaglie feroci con la vecchiaia che mi rapisce gli anni e la bellezza del corpo. In questo campo di battaglia io, Penelope, sono morta e tornata in vita mille volte, mutando i lineamenti di un’esistenza che per te è ormai solo un ricordo. Ulisse, uomo curioso e vagabondo, supplico gli dei che al tuo ritorno io sia per te terra ancora vergine, mistero capace di trattenerti, vicino e coinvolto. E se così non fosse, la fedeltà di cui ti sei vantato sarà quella che mi porterà lontano da te e da una vita che non può più essere mia. Tu navighi e giri il mondo, accechi i ciclopi ed espugni Troia, così cambi te stesso, così cambi me. Ed io…io vivo, vivo questo tempo di vuoto e di violenza, di povertà e dolore, Ulisse amore mio, nella speranza che la mia vita testarda possa mutare, come le onde la roccia, un giorno, anche te.