Sangue

(foto di Sara Lorusso)

(foto di Sara Lorusso)

A scuola, in alcune classi, ho affrontato il tema dell’adolescenza. Abbiamo cominciato un giorno alzandoci dai posti obbligati, dalle sedie tutte in fila dietro la cattedra e i banchi. Abbiamo cercato una posizione comoda e abbiamo iniziato a respirare. Volevo che uscissero dalla folle quotidiana corsa delle sette ore di scuola, che si fermassero un attimo, che avessero il tempo di capire, di esistere. Poi ci siamo concentrati sulle emozioni, per comprendere quali fossero e in quale parte del corpo le sentivamo muovere. Così qualcuno ha scoperto di avere la rabbia nelle mani, la paura in gola, l’amore negli occhi.
E’ stato faticoso, faticosissimo, anzi. Ma bello, veramente tanto. Abbiamo parlato di tutto. Abbiamo parlato tutti. A voce, per iscritto, con una canzone, con un libro, ciascuno ha avuto modo di potersi esprimere, se lo voleva. I temi che sono stati affrontati erano impegnativi: il bullismo ad esempio. Che se lo chiami così sembra il titolo di un giornale, ma se poi spieghi cos’è te lo ritrovi addosso, come vittima e come carnefice, senza  aver immaginato di esserne protagonista. Oppure la relazione con i genitori, un conflitto sempre meno acceso e formante per i troppi “sì” che ricadono a cascata su corpi e cuori in trasformazione, che aspettano un “no” per potersi misurare con la potenza della propria metamorfosi.

Abbiamo parlato di differenze di genere, anche. Provando a stanare modi di intendere ed intendersi così radicati da diventare invisibili. Ho visto gli occhi dei ragazzi guardarmi con smarrimento mentre ragionavamo sul perché  la fidanzata che esce da sola in minigonna provoca loro rabbia. E ho visto le ragazze illuminarsi in viso quando abbiamo parlato del ciclo mestruale: liberamente, tecnicamente, davanti a tutti.

Abbiamo sorriso noi, femmine, osservando l’imbarazzo sulla faccia dei maschi e ci siamo guardate complici quando uno di loro ha detto stizzito e preoccupato: “Ma prima si vergognavano di più, ora vanno a cambiarsi e poi tornano con l’assorbente arrotolato in mano che si vede”.
Certo che è incredibile… Una donna, in media, ha il ciclo mestruale per circa 35 anni della sua vita. Lo sanno tutti, la vita stessa si rinnova grazie alle mestruazioni. Eppure, in una classe di liceo, nel continente culla della cultura occidentale, aggressiva e moderna, si prova ancora imbarazzo a parlare di sangue, assorbenti, dolori mestruali.

(foto di Alexandra Sophie)

(foto di Alexandra Sophie)

Negli ultimi anni qualcosa sta cambiando. Artiste, scrittrici, attiviste, tramite i social, Twitter sopratutto, hanno lanciato una campagna di sensibilizzazione e direi anche di liberazione, contro tutti gli stereotipi legati al ciclo e, di conseguenza, alle donne (per es.:https://casadiringhiera.com/im-on-my-period-sara-lorusso-editorial-4253fa47eb65#.j78mvsh91http://culturainquieta.com/en/foto/item/10341-lovely-and-provocative-photos-representing-the-stages-of-a-woman-s-life.htmlhttp://www.huffingtonpost.it/kiran-gandhi/perche-ho-corso-la-maratona-di-londra-durante-il-ciclo-senza-portare-lassorbente_b_8019062.html; diversi articoli a riguardo si trovano su http://www.internazionale.it/).
Ci penso sempre io, quando ho le mestruazioni e devo andare a scuola, un luogo di lavoro dove la presenza femminile è ancora preponderante. Ci penso, soprattutto, quando dopo lezione devo restare per le riunioni e so che in bagno non troverò carta igienica né i sacchetti dove riporre l’assorbente né tanto meno la possibilità di potermi rinfrescare. Crearle, invece, queste possibilità mi parrebbe un inizio concreto e sensato per una riforma scolastica seria e un esempio di civiltà che varrebbe cento lezioni di “Costituzione e cittadinanza”.

(foto di Alexandra Sophie)

(foto di Alexandra Sophie)

Quando sento un uomo o, peggio, una donna, esordire con la battuta: “Ehi, ma perché sei così nervosa ti devono venire le tue cose” (perché ancora mica tutti le sanno chiamare per nome in pubblico!), mi viene da piangere, sia per la banalità della battuta sia per l’ignoranza che si nasconde dietro. Nella mia piccola indagine a proposito, ho scoperto che più o meno la metà dei maschi e delle femmine in età fertile non conoscono le fasi del ciclo o non le sanno chiamare per nome. E l’apparato riproduttivo femminile? In tutte le sue parti e caratteristiche? Quasi un perfetto sconosciuto.

La maggior parte delle donne trascorre la propria esistenza e condivide l’esperienza sessuale con uomini che si ostinano a non voler capire nulla del ciclo e che si limitano a chiedere: “Oggi si può liberamente”? Aspettando il responso che pare dover arrivare da un mondo misterioso e sconosciuto, inaccessibile.

(foto di Alexandra Sophie)

(foto di Alexandra Sophie)

E’ vergognoso, pericoloso e triste che l’intero percorso obbligatorio d’istruzione non preveda un tempo, non facoltativo o lasciato alla buona volontà dei docenti, da dedicare all’educazione sessuale e affettiva delle nuove generazioni. L’analfabetismo a riguardo provoca ferite profonde e molto, troppo dolore.

Conoscere il ciclo, chiamare ogni cosa con il proprio nome, mettersi in ascolto del corpo è un’esperienza che trasforma la vita. Io ho imparato per necessità, quando da adolescente le mie ovaie si riempivano di cisti dolorosissime e nessuno sapeva spiegami il perché. Un ginecologo, alto, bello, della borghesia palermitana, uno di quelli che fa partorire con taglio cesario e molti euro le donne ricche della mia città, mi ha imbottito di estrogeni, attribuendo la responsabilità del “mal funzionamento” al mio animo irrequieto e troppo sensibile. Ho molto sofferto per questo. Poi mi sono stancata e ho cercato di capire. Ho studiato, ho trovato dottoresse in grado di ascoltare, valutare, comprendere. E ho scoperto che era l’insulina a provocare le cisti e l’irregolarità del ciclo. Ho eliminato gli zuccheri e tutto piano, piano, piano ha ricominciato ad essere armonico.

(foto di Alexandra Sophie)

(foto di Alexandra Sophie)

Ho imparato allora che non esiste un ciclo uguale ad un altro e che ogni fase va riconosciuta, ascoltata, attesa, vissuta. Ho imparato a distinguere i momenti fertili da quelli non fertili e a conoscere di cosa il mio corpo ha bisogno per ciascuno di questi momenti. Ho scoperto che nella fase che precede le perdite il mio corpo desidera il magnesio e alcune vitamine e che nei giorni del sangue vedo dentro di me cose che, poi, non vedo più.

Ho imparato che vale la pena  far la fatica di condividere ciascuna di queste conoscenze con l’uomo amato, perché cambia tutto, e cambia in meglio. E che, pure, confrontarsi con le altre donne è come immergersi in una sapienza antica quanto il mondo, una sapienza che ciascuna donna contribuisce a far crescere con la propria unica e singolare esperienza.

Dalle donne ci si aspetta sempre qualcosa: che siano belle, magre, corrispondenti ad un modello estetico costruito sul gusto degli uomini o del mercato, che scelgano tra figli o carriera, tra libertà o famiglia, tra femminismo o sottomissione e, quel che è peggio, alcuni dei più famosi e deleteri stereotipi di genere sono incarnati e perpetuati proprio dalle donne, come accade per la menopausa, ad esempio. Quante volte sentiamo o diciamo l’espressione: “Quella donna è ANCORA bella”, rivolta a chi si avvia verso i cinquanta o li ha passati da un pezzo. Ancora? Ancora rispetto a cosa? E con quale bellezza ci si sta confrontando?
E quante donne son capaci di godere dello sbocciare di qualcun’altra senza sentirsene minacciate o senza giudicarle in modo spietato?

Cresciamo vivendo il ciclo come la più grossa scocciatura possibile e invecchiamo pensando che la fine del ciclo sarà l’inizio delle nostre disgrazie: non più giovani, con qualche chilo in più, isteriche e sole. Nel peggiore dei casi circondate dai gatti (altro fantastico stereotipo legato solo alle donne, ovviamente.. Mah!).

E’ una trappola sociale/culturale subdola e meschina, costruita con finezza per secoli e secoli, che fa leva sulle fragilità e sull’ignoranza che alcune donne possiedono di se stesse. Va smascherata, disinnescata, trasformata in qualcos’altro.

Credo che sia necessario riconquistare il nostro stesso sangue, il ventre, il latte, il corpo tutto, con la sua sapienza; imparare le trasformazioni ed essere parte attiva della nostra crescita. Invecchiare non è certo indolore, ma voglio credere che sia possibile farlo scoprendone i segni come un prodigio, così come sappiamo riconoscerli e apprezzarli nell’alternarsi delle stagioni. E’ importante per qualunque donna questa riappropriazione di quanto le appartiene e possiede, di qualunque età, in qualunque condizione si trovi, che sia giovane o anziana, che sia madre o che non voglia o non abbia figli, che sia eterosessuale o lesbica, che abbia qualcuno accanto o che sia single, perché non è quello che viviamo che da maggiore o minore importanza a quel che siamo.

(foto di Alexandra Sophie)

(foto di Alexandra Sophie)

Conosco donne bellissime che il passare del tempo rende forti e coraggiose, piene di vitalità ed esperienza, capaci di riconoscere la vita ovunque si manifesti e di godere di essa anche quando, in qualche modo, sottolinea la distanza tra loro e la giovinezza. Sono donne senza rancore, impegnate in un processo di pacificazione che mi affascina e mi sorprende.

E’ un cambiamento culturale già in atto, ma sempre più urgente, che necessita della consapevolezza e della partecipazione di maschi e femmine, insieme, perché si tratta di sangue e di vita e la vita è di tutti e da tutti va conosciuta, sempre, nuovamente, e accudita con consapevolezza, perché se ne possa godere appieno, fino alla fine e “perché nulla vada perduto” (cfr. Gv 6,12).

Sotto la neve, pane

Foto di Carlo Columba

Foto di Carlo Columba

Vivo sullo stesso livello del mare, su di un’isola strana, bella, disgraziatissima e triangolare. Vivo sulla costa, dove il clima è mite anche in inverno e dove in estate “nevica fuoco”. Nei mesi più freddi la neve decora le cime di questa terra abbandonata in mezzo al mare. Ogni tanto si imbianca monte Pellegrino, il promontorio che galleggia sul Tirreno alle porte della città: la neve ricopre gli alberi morti ammazzati, divorati dal fuoco dell’ignoranza e della miseria del cuore. Se c’è la neve su monte Pellegrino, allora fa freddo davvero, anche a Palermo.

Io non scio, non amo fare a palle di neve, il freddo intenso mi fa venire i geloni alle mani e tutto quel bianco a volte mi blocca il respiro. Ma quando nevica, le cose accadono in modo diverso e questo l’ho imparato anche io.

Conflenti, provincia di Catanzaro
Mi pare  fosse la fine di gennaio ed io ero ospite in una casa non mia, non contenta di esserci e, infatti, di quella casa ricordo appena una stanza. C’erano quadri, cornici dismesse, pennelli, carta di ogni tipo. Doveva essere la stanza di un artista. In quel periodo l’arte era praticamente tutto per me e dentro quella stanza mi sentivo quasi me stessa, quasi però. Ero poco più che adolescente e non molto felice. Un pomeriggio, insieme alle persone con le quali mi trovavo, abbiamo deciso di fare un giro. Sprofondavamo nella neve fino alle ginocchia e il sole faceva scintillare i cristalli di ghiaccio come un immenso abito da sera. Raggiungemmo una strada, un piccolo sentiero di neve spalata che si inerpicava fin sopra la collina. Dopo circa un’ora di cammino, bussammo ad una casa di legno scuro e ci aprì un uomo. Conosceva alcune delle persone che erano con me e ci fece entrare. Dentro era caldo e spoglio. Con l’uomo abitava la moglie e la loro bambina di un anno. Lui aveva la barba più nera che avessi mai visto, nero corvino, foltissima e lunga e aveva gli occhi verdi, malinconici e vergini. Non parlava italiano, tranne qualche frase fatta, parlava solo dialetto e pure la moglie, e la bambina balbettava parole che che noi non riuscivamo a decifrare. Ci raccontò della desolazione del luogo, immerso in una natura bellissima e selvaggia e abitato da un’umanità smarrita e feroce. Della natura conoscevano il linguaggio, le regole i rischi; dell’umanità capivano poco e non sapevano mai cosa aspettarsi veramente. Non avevano un diploma e non avevano un lavoro. Lui spaccava legna, lei cucinava. Volevano una vita diversa, si capiva ascoltandoli, ma forse non lo sapevano che le loro parole storpiate e i loro sguardi vergini mostravano un desiderio sconosciuto di cose sconosciute, non immaginavano che i loro corpi erano tutti protesi verso una vita nuova, ma i loro piedi piantati su una terra che gli pietrificava le ali. Si fece tardi, salutammo, andammo via. Era quasi buio, il cielo terso, il freddo intenso, nel cielo la luna. Intorno era blu, la neve scendeva giù color dell’argento e io decisi di studiare da allora in avanti con tutto l’impegno che potevo.

Gangi (Palermo)
La mia migliore amica è di Gangi, un paese poggiato su un rilievo a 1011 metri sul livello del mare. Ai tempi, quando amavo lasciare la città e passare lì i miei fine settimana non ero proprio una ragazza, ero più un bruco, neppure troppo fiducioso sulla riuscita della propria metamorfosi, ma ero un bruco attento e mi nutrivo della vita attorno a me, qualunque fosse la sua forma, avidamente. Amavo passare a Gangi il mio tempo, mentre i miei capelli ricrescevano e io imparavo l’esistenza di nuovo, daccapo. Amavo svegliarmi al mattino e guardare i tetti dalla finestra, dopo aver trascorso la notte a parlare con la mia amica, di tutto, di tutti, di noi: ascoltando capivo, capendo parlavo, parlando raccontavo, raccontando guarivo. I suoi amici divennero i miei e mi stupiva che mi volessero bene nonostante io non avessi fatto nulla per loro. Ho amato moltissimo le strade silenziose, le salite scoscese, la gente che si salutava per strada, i campanili, la tramontana, le mani premurose della mamma della mia amica, l’odore della cucina, il loro affetto.
Un pomeriggio d’inverno, di sabato, andammo a visitare la chiesa del convento dei Cappuccini, ma quando uscimmo da lì, per terra c’era un leggero strato di bianco, dal cielo cadevano fiocchi freddi e silenziosi, davanti a noi si estendeva la vallata, il sole moltiplicava la luce, tutto era illuminato e io volevo vivere.

Firenze (Stazione  S.M. Novella)
Abitavo a Roma, ma ero stata al Monastero di Camaldoli per partecipare al “Dialogo ebraico cristiano”, che si tiene lì ogni anno. All’edizione precedente avevo preso parte come inviata di Rai Radio 3: dovevo intervistare Alexander Rofé, ebreo di origine italiane, professore di Sacra Scrittura all’Università ebraica di Gerusalemme. Quell’anno, invece, mi invitarono per prendere parte al confronto tra giovani ebrei, cattolici, protestanti, un appuntamento fisso, ogni anno, durante i tre giorni del convegno. Ritrovai i miei amici, me ne feci di altri. Con loro passai la notte, a bere nocino di Camaldoli e a discutere di religione, liturgie, filosofia, arte, vita, amore e morte. Forse fu grazie al liquore, non so, ma la serata trascorse allegra e costruttiva; nonostante le differenze, eravamo lì, tutti insieme, a mangiare, bere e far festa infischiandocene di secoli di divisioni, guerre sante e anatemi. La gente è sempre più sapiente di chi la governa, anche in campo religioso.
Senza toccar letto, alle sei del mattino, una donna dolcissima accompagnò me e la mia amica Miriam, ebrea della comunità di Milano, alla stazione di Arezzo. Da lì io avrei proseguito per Roma, lei per Milano, appunto. Lungo il tragitto verso Firenze ci raccontammo la fatica del continuare a credere ai nostri sogni, il teatro per lei, la scrittura per me. Parlammo di amore, della passione, di quella tenacia nel voler essere ciò che volevamo essere nonostante il mondo attorno a noi ci lusingasse per convincerci a cedere alla rassegnazione. Arrivammo a Firenze intorno alle 10, era venerdì. Ci abbracciamo forte e ci separammo, ma dopo qualche istante mi sentii chiamare per nome, era Miriam, oramai un po’ distante, che in mezzo alla folla, sorridendo, sventolava il braccio e gridava: “Shabbat Shalòm!”. Alzai il braccio anche io e risposi a voce alta: “Shabbat Shalòm!”. E’ l’augurio per l’arrivo del sabato, giorno santo degli ebrei. Shalòm significa “Pace”. E mentre noi due ce le auguravamo a vicenda, a voce alta per estendere quella speranza al mondo intero, cominciò a nevicare. La stazione fu ricoperta di una coltre di neve soffice, il freddo divenne pungente e io capii di stare vivendo finalmente, davvero.

 

Nelle più piccole cose

Se ricordo i miei diciassette anni, penso che mi sono accadute una quantità incredibile di cose, ma, forse, quando si hanno diciassette anni, è normale che accada una incredibile quantità di cose.

Giugno, Austria, 1997.
Dovevo frequentare il quarto anno del Liceo classico e in sorte mi toccò di partire per la seconda ed ultima tappa del “gemellaggio” che la mia classe aveva intrapreso con una scuola di Linz. Durante la primavera i ragazzi austriaci erano stati a Palermo per quindici giorni; l’estate era il nostro turno. Li avevamo ospitati in casa e loro avrebbero fatto altrettanto. La mia “gemella” si chiamava Sandra e abitava in un comprensorio di villette immerse nel verde. Di quel viaggio ricordo ancora molte cose, per esempio che a giugno sulla vespa, in Austria, non puoi salirci a maniche corte perché ti cadono i denti dal freddo, che esistono laghi tanto grandi da sembrare mare, che mi annoiava, tranne qualche eccezione, stare con ragazzi della mia età, che molti dei miei compagni non avevano idea di chi fossi, che se vieni ricoverata in ospedale, a pranzo mangi la cotoletta con marmellata di mirtilli per contorno. Mi accadde una incredibile quantità di cose, per l’appunto.

Ma più di tutto mi accadde di visitare insieme ad uno dei professori in viaggio con noi e ad un gruppetto esiguo di ragazzi, il campo di concentramento di Mauthausen.

Campo di concentramento di Mauthausen, Austria

Campo di concentramento di Mauthausen, Austria

Avevo una paura matta di andare e ancora oggi non lo so cosa mi spinse ad unirmi al gruppo. Forse fu solo perché chi andava tra i compagni mi faceva più simpatia di chi restava o forse perché la paura a me fa un effetto strano e invece di mettermi al riparo, mi espongo, nella speranza che la questione, qualunque essa sia, si risolva al più presto, per non pensarci più.

Del viaggio di andata non ricordo quasi nulla. Ricordo, però, che quando arrivammo ero tesa e vigile, pronta a chiudermi a riccio per non vedere o non sentire qualunque cosa fosse stata “troppo”, per me. Invece ho ascoltato e visto ogni cosa. Abbiamo preso una guida cioè una cassetta con un registratore. Ci hanno detto che dovevamo far partire il nastro prima di cominciare la visita e così abbiamo fatto. La voce di un uomo, roca e profonda, iniziò dicendo: “Cari visitatori, adesso accadrà qualcosa che non potrete controllare, il vostro cervello metterà un filtro di protezione, perché quanto vi racconterò non vi porti alla pazzia”.

Abbiamo proseguito in silenzio: le zone di lavoro, i dormitori con i letti a castello in legno, le camere a gas, i forni crematoi. Era tutto avvolto di un silenzio surreale, sembrava che nessuno di noi osasse respirare. Era una giornata di sole che rendeva difficile immaginare la neve e il freddo e i corpi all’agghiaccio. Ma davanti ai forni crematoi non c’era niente da immaginare. Non riuscivo a provare sdegno o sgomento o commozione o rabbia, niente. Nessun respiro, nessun pensiero, nessuna emozione: niente.
In uno dei capannoni avevano allestito una mostra fotografica che fu durissima da visitare. Ricordo che seppur muti noi ragazzi ci cercavamo con gli occhi, da pannello a pannello, da un lato all’altro della stanza, come se avessimo sviluppato il bisogno di sapere dove ciascuno di noi fosse, in ogni momento.

La visita durò un paio d’ore. Passammo molto tempo all’aperto, all’interno del campo, ma solo una volta varcato il cancello verso l’esterno sentimmo di essere “fuori”. Il ritorno alla parola fu lento e pure il respiro si regolarizzò con fatica. Camminando, seguendo gli altri, senza sapere verso dove, pensai che studiare la storia dai libri era davvero poca cosa, pensai che fra le pagine non ci sono gli odori e neppure il rumore dei passi e non ci sono le voci dei testimoni e neppure il tatto della mano, poggiata a palmo aperto su quei muri di pietra umida.

Cosa fu per me la visita a Mauthausen, lo compresi veramente, però, solo alcuni mesi dopo, in un cinema del centro, a Palermo. Con un gruppetto di compagni andammo a vedere “La vita è bella” di Roberto Benigni. Fu un incubo per me.

Scena del film "La vita è bella"

Scena del film “La vita è bella”

Perché di ogni fotogramma che mostrava il campo di concentramento io ricordavo gli odori e tutte quelle emozioni che erano rimaste raggelate e mute allora, vennero fuori all’improvviso: provai uno sgomento tale da farmi correre in bagno a vomitare, sudai freddo. Dovetti soffocare il desiderio di urlare fino a cadere stremata per liberarmi di tutto l’orrore che durante quella visita avevo immagazzinato e che in quel momento mi esplodeva nel cervello senza riguardo.

Mi salvarono le ciliegie. Ricordai che andando via da Mauthausen ci perdemmo per le campagne alla ricerca di una stazione nascosta chissà dove, in mezzo a distese di campi in fiore. Lungo una discesa un grande albero di ciliegi aveva un ramo che come una carezza pendeva sulla strada, sfiorando i passanti. Avevamo fame. Ne raccogliemmo molte, tutte quelle che potevamo con la paura che i padroni di casa se ne accorgessero. Le magliette ripiegate sulla pancia a mo’ di cesta e poi una corsa senza meta, sgambettando come a diciassette anni si riesce a fare. Scoppiammo tutti in una risata sonora, una di quelle che poi resta in circolo e si riaccende alla minima occasione. Eravamo sudati, giovani e vivi.

cherry-1442564_1280

Pensai a questo mentre piangevo al cinema, a quel sole pomeridiano, alla luce, alle risa, alla corsa, alle ciliege strette sulla pancia, alle macchie sulla maglietta e sulle dita. Da allora penso sempre alle ciliegie quando provo un dolore che mi pare di non saper gestire. E quando si fa primavera e le vedo per strada sui banchi del mercato o sulle tavole, tante tutte insieme, di quel rosso così vivido, divento allegra e sorrido e mi faccio coraggio pensando a come la vita esploda e si riveli anche nelle più piccole cose, lì dove la morte vuole vincere su tutto.

D’autunno

img_20161119_221658

I Faggi che sono in Sicilia sono figli dell’ultima glaciazione. Quando i ghiacci si sono ritirati, loro sono rimasti in questa Trinacria circondata dal mare. Son rimasti abbarbicati e maestosi a ricoprire le rocce più alte dove il freddo dell’isola si concentra e si difende dall’aria di mare. Se vengono tagliati non ricrescono più. Se muoiono nessun altro Faggio prenderà il loro posto.

Io non lo sapevo, l’ho imparato ieri, fra le curve delle montagne madonite, durante una gita quasi improvvisata alla ricerca dell’autunno. L’uomo che mi vuol bene mi ha portata via dalla città, perché, a volte, le grandi città sono il luogo più stretto e soffocante dove vivere. Siamo andati in cerca di spazi senza artifizio, dove ogni cosa occupa il suo naturale ambiente di sopravvivenza e dove il tempo che passa è un ciclo che fa nascere e morire continuamente, senza lutto, senza dolore.

Mi pareva fosse visibile dietro di noi una scia: man mano che abbandonavamo la valle ci lasciavamo dietro preoccupazioni, stanchezze, pensieri, grovigli difficili da sciogliere. In auto abbiamo ascoltato Live From Madison Square Garden di Eric Clapton e Steve Winwood (http://www.deezer.com/album/339209) e mentre lui guidava io leggevo ad alta voce alcune pagine di My generation di Igort, un libro che è un’immersione nella musica, nella cultura e nel dramma degli anni’70 (http://www.chiarelettere.it/libro/narrazioni/my-generation-9788861908536.php).
Pioveva. Il cielo era grigio. Il mare era piatto. Io indossavo un maglione blu. Lui era bellissimo.

Prima il mare, poi la campagna, poi la montagna. Tutto percorrendo cento chilometri appena. Lungo la strada mutavano i colori, la temperatura scendeva, il silenzio ricopriva ogni cosa. L’unica voce era quella del vento. Ci siamo fermati a fotografare gli alberi accesi di arancio, uno in particolare, proprio sulla strada, sembrava il roveto ardente dal quale Dio parlò a Mosè rivelandogli che proprio lui, fuggitivo e balbuziente, avrebbe potuto sfidare il faraone d’Egitto e liberare gli ebrei dalla schiavitù.

img-20161119-wa0009

Avevo freddo, ma sono rimasta sotto la chioma a vedere le foglie tremare, staccarsi, cadere e piovermi addosso come pioggia luminosa.

img_20161119_221914

I bordi delle strade erano pure ricoperti d’autunno: milioni di foglie morenti adagiate sfinite, ma fiere di aver portato a termine il proprio compito. Fino a qualche anno addietro io odiavo la “fine”, qualunque fosse la sua declinazione e pure l’autunno mi stava stretto per quella privazione di luce che mi sembrava sempre improvvisa ed ingiusta.

img_20161119_221403

Adesso non è più così. Adesso la “fine” delle cose, mi consola. Non mi sembra facile né indolore, semplicemente la sento necessaria perché tutto si possa rinnovare. E pure il buio mi è meno ostile: c’è bisogno che l’oscurità avvolga le cose, come i bulbi  dei fiori che per germogliare restano nascosti e muti fino al tempo opportuno. Ecco, l’autunno è diventato per me il tempo opportuno, per lasciar andare ciò che ha bisogno di morire e attendere ciò che fiorirà non appena sarà pronto a farlo.

Abbiamo raggiunto Piano Battaglia (http://www.pianobattaglia.it/), restando a bocca aperta ad ogni curva. Poi siamo scesi, di nuovo, in mezzo al fango, alla pioggia e al freddo, per rendere omaggio ai due “Patriarchi”, i grandi Faggi che da secoli sorvegliano la vallata. Quando la pioggia è diventata battente abbiamo bussato al Ristoro dello scoiattolo (https://www.tripadvisor.it/LocationPhotoDirectLink-g1081305-d7081880-i193122211-Il_Ristoro_dello_Scoiattolo Petralia_Sottana_Province_of_Palermo_Sicily.html), e una gentile signora dagli occhi chiari ha apparecchiato per noi, unici clienti della giornata uggiosa, vicino al camino appena acceso. Erano le due del pomeriggio, fuori c’erano 6 C°, ma la signora non aveva dubbi: “Ancora non fa freddo”. Abbiamo mangiato, parlato, scambiato le idee e immaginato cose. La signora si è fermata con noi per il caffè  e ci ha raccontato dell’acquisto di una villa adiacente e del progetto di creare trenta posti letto. Le brillavano gli occhi.
Allora ho pensato che è bello fare progetti e pure provare a realizzarli. Forse bisogna sempre, però, mantenere vigile il senso dell’autunno e sapere che a nessuna cosa e a nessuna relazione, comprese quelle primarie, ci si può attaccare come non dovessero finire mai, perché le foglie si staccano dall’albero, al momento opportuno, e cadono.

img_20161120_084729

Sulla strada del ritorno, ci siamo fermati ancora, questa volta per fotografare alla nostra sinistra un gregge di Faggi, tutti fitti e vicini, pronti ad addormentarsi per l’inverno, color fuoco, bellissimi. Alla nostra destra, invece, incredibilmente, c’era il mare. Enorme, solitario, e blu.

img_20161119_220807

Ho amato la mia terra per la sua bellezza e odiato il popolo cui appartengo per la sua stoltezza, per quella cecità criminale volta a distruggere e umiliare un patrimonio unico al mondo, per ignoranza e pigrizia e per quell’animo sottomesso al prevaricatore di turno che si pensa di raggirare, mai di affrontare, con una furbizia viscida e prepotente, vandalizzando ogni cosa. Ma non volevamo essere tristi o arrabbiati tornando a casa. Abbiamo accolto le notizie del bombardamento ininterrotto su Aleppo est e sui suoi ospedali con profondo sdegno e lottando contro un ineluttabile senso di rassegnazione. Ci ha aiutati a farlo una luce proveniente dal sole oramai al di sotto delle nuvole più scure, una luce abbagliante, pulita. Era un incanto.

Si compiono viaggi importanti, anche percorrendo pochi chilometri e nel giro di alcune ore, sono viaggi personalissimi alla ricerca di qualcosa che difficilmente riusciamo a definire, ma che la ciclicità vitale della natura e del mondo ci permette di riconoscere. I cicli della vita non ripercorrono sempre un’unica strada, non sono la ripresentazione di cose già accadute, così mi pare di capire. Ogni ciclo ci spinge in avanti verso qualcosa di nuovo che possiamo aspettare, desiderare, veder accadere:

Il sole sorge, il sole tramonta;
si alza e corre verso il luogo
da dove rispunterà di nuovo.
Il vento soffia ora dal nord ora dal sud,
gira e rigira, va e ritorna di nuovo.
Tutti i fiumi vanno nel mare,
ma il mare non è mai pieno.
E l’acqua continua a scorrere
dalle sorgenti dove nascono i fiumi.
Tutte le cose sono in continuo movimento,
non si finirebbe mai di elencarle.
Eppure gli occhi non si stancano di vedere
né gli orecchi di ascoltare.
(Qoelet 1, 5-8)

A nudo

Foto di Marco Bisanti

Nel cuore del cuore di Roma c’è un posto bellissimo, incastonato tra Campo dei Fiori e Sant’Andrea della Valle. Al Largo del Pallaro, l’artista Elisa Nicolaci ha dato vita ad un mondo incantato.
E’ un laboratorio ed è un museo, è una scuola ed è un rifugio, è un’officina di idee ed è la quiete del cuore, è tutto quello che si voglia che sia. Sui muri sono esposti i disegni dei più piccoli, ci sono draghi, ballerine, tigri, giraffe, guerrieri e principesse. Il colore è ovunque, la vita è ovunque, l’impossibile, vicino.

Poi, ci sono le sculture di Elisa, di metallo e stoffa, due materiali tanto diversi tra loro che pure si fondono, si amalgamano, si intrecciano per far nascere quello che non sappiamo dire, ma che ci abita.
Nelle sculture di Elisa ci si riconosce, si rimane a contatto con le parti più estreme di se stessi. Non si dice nulla davanti alle sue sculture, ci si ammutolisce in cerca del significato che possiede quello che si sta provando. Ci si sente messi a nudo, all’improvviso.

"Un'altra storia d'amore (La donna morta) Tessuto cucito, metallo Cm173 x200 x55 Foto di Francesco Filingeri

“Un’altra storia d’amore (La donna morta)”
Tessuto cucito, metallo Cm173 x200 x55
Foto di Francesco Filangeri

Al “Pallaro”, così come è chiamato il laboratorio, io ho imparato a disegnare. Io, che sono cresciuta convinta di non esserne capace né portata. Elisa dice che tutti sanno disegnare e ci riesce davvero a far disegnar tutti e dice pure che “Cancellare non vuol dire riportare il foglio al grado zero, ma sostituire quello che c’è con quanto dovrebbe esserci”, ed io non me lo scordo più.

"Raggiungimi", matita e tempera.

Questa sono io, questo il mio primo disegno: “Raggiungimi”, matita e tempera.

Ma la cosa più bella, per me, è stata trovare un luogo nel quale essere me stessa fosse possibile, plausibile, auspicabile! Un luogo dove poter raccontare le immagini del cuore, un luogo dove il contrario di ogni cosa trovava legittima cittadinanza. Nel laboratorio di Elisa Nicolaci le sedie stanno sugli alberi, gli alberi hanno gli occhi, gli occhi stringono le mani e le mani ascoltano, le orecchie cantano, la bocca danza.

Se passate da Roma o siete di Roma, cercate il “Pallaro”, bussate ed entrate. Sarete i benvenuti, ne sono certa. E se potete, iscrivetevi ad un corso di scultura o pittura…imparerete cose incredibili e scoprirete di avere in cuore un mondo fantastico: lo vedrete prendere forma e niente sarà più uguale a prima, mai più.

Elisa è una maestra paziente, anzi, è una compagna di strada e vi darà gli strumenti per potervi esprimere davvero, come non credevate o immaginavate di poter fare.

Nel cuore del cuore di Roma, mi raccomando, andate.

Foto di Francesco Filangeri

Foto di Francesco Filangeri

https://www.facebook.com/Elisa-Nicolaci-235866696596127/?fref=ts

Diversamente, altrove.

Itaca

Itaca

Ho acquistato “Itaca per sempre” in una delle librerie indipendenti più belle della mia città.
Era un pomeriggio caldissimo di agosto, uno di quelli con le strade deserte e la pelle bagnata di mare e umidità.

Non sapevo che l’avrei comprato e portato a casa con me. Non conoscevo il testo e, ahimè, non conoscevo neppure Luigi Malerba. Ma il titolo mi ha afferrato lo sguardo e non ho più potuto cercare ancora o scorgere altrove.

Ho impiegato mesi a leggere “Itaca per sempre”, nonostante mi entusiasmassi ad ogni riga, nonostante le parole facessero scintille e mettessero a ferro e fuoco le cose che sapevo, le cose che credevo. Anche poco, era troppo. E dovevo misurarmi costantemente con la mia capacità di comprendere le trame dell’animo così magistralmente narrate.

Luigi Malerba racconta quello che l’Odissea di Omero evoca, appena. E così mi appare il testo antico da allora, come un canovaccio sul quale ciascuno costruisce la trama della propria storia personale. L’Odissea è di tutti ed è per tutti.
Malerba intesse una storia fittissima, fatta di pochissime parole pronunciate e moltissimi parole pensate nell’intimità del proprio travaglio. Restituisce a Penelope la grandezza del personaggio che incarna, la forza, la perseveranza dell’attesa, la fierezza e la crescita, avvenuta giorno dopo giorno durante la prigionia della solitudine e l’oppressione quotidiana dei Proci.

Io l’ho amata moltissimo durante la lettura di “Itaca per sempre” e mi sono chiesta quanto ci sarebbe sembrata grande l’avventura di Ulisse senza l’attesa di Penelope, quanto ci avrebbero coinvolto le peripezie straordinarie dell’astuto Odisseo senza che ci fosse un’Itaca da raggiungere.

Luigi Malerba mostra di Ulisse la debolezza e la stanchezza. Ne fa emergere la confusione che scaturisce dalla tenacia di Penelope, decisa a non accettare d’essere esclusa o considerata non capace di poter gestire il disvelamento della sua identità. Ulisse si rivela a Telemaco, alla serva, ma non a Penelope e lei questo non lo accetta. Patisce e si dispera, ma pretende che il suo uomo le dia fiducia, si faccia riconoscere, la coinvolga nella vendetta verso i Proci.

Ulisse guarda Penelope cercando la giovane regina lasciata ad Itaca molti anni prima, ma non la trova. Penelope cerca il re baldanzoso e furbo partito per una guerra che è stata, sopratutto, la più profonda delle trasformazioni. Finché cercano entrambi l’idea che ciascuno aveva conservato dell’altro non riescono a trovarsi. Solo quando  restano nudi uno di fronte all’altra, nudi e diversi riescono a riconoscersi e ad amarsi in un modo totalmente differente rispetto a quello che avevano provato a conservare integro per così tanto tempo.

Nell’amore, pare, che nulla possa restare integro e uguale a stesso.

Penelope accoglie in casa un uomo completamente cambiato, un uomo profondamente differente da quello che aveva scelto e sposato e Ulisse si innamora nuovamente e diversamente della donna che attendendolo aveva mutato di lei ogni cosa.

Né io né Penelope eravamo più gli stessi. Avventure, naufragi, dolori, solitudine, inganni e alla fine tanto sangue, avevano segnato i nostri animi e i nostri volti come il vento e le intemperie segnano le pietre.

In amore, pare, non ci sia nulla che si possa trattenere o conservare.

Penelope è rimasta sempre ad Itaca, ma ha compiuto un viaggio coraggioso quanto quello di Ulisse, perché ha messo in discussione tutto, ha perduto tutto, ha rischiato tutto ed ha costruito il futuro del proprio amore sul cambiamento di se stessa, profondo, terribile, destabilizzante, ma potente e verissimo. Luigi Malerba, con la sua narrazione incalzante e puntuale, descrive la metamorfosi di una donna che non si piega ad un ruolo né ad una mancanza ma che ha cura di trasformarsi e vivere e di amare ogni cambiamento con coraggio e benevolenza verso se stessa. Una benevolenza mai facile.

L’amore ritrovato è un amore complesso, accoglie le ferite che ciascuno ha ricevuto o inferto e lascia al dubbio e alle paure libertà di pungere il cuore. L’amore non si può difendere dalla complessità della vita, dalle spigolosità e dai vuoti incomprensibili e incolmabili dell’animo.

Ma, allo stesso tempo, non si piega all’infelicità e scalpita e si ribella ad ogni costrizione che lo vorrebbe trattenere, gestire, controllare, anche se questo desiderio di possederlo è dettato dalle intenzioni più nobili  o dai disagi più incomprensibili.

L’amore va dove alla vita è permesso di accadere, di sconvolgere, di trasformare, di guarire, di ricominciare. Itaca non è la meta di un ritorno, nell’isola nulla resta uguale. Itaca è la possibilità di far pace con la propria storia, è il “luogo” dove imparare ad amare se stessi ad ogni trasformazione perché è ad ogni trasformazione che  la vita si rinnova e ci rigenera.

A Penelope non importa che l’Ulisse ritrovato sia realmente l’Ulisse partito da Itaca molti anni addietro. E’ un’audacia quasi scandalosa, la sua. Le importa che l’uomo ritrovato sia quello capace di amarla, di starle vicino, di accettare la sua determinazione ad essere se stessa.

L’amore, pare, debba essere audace per essere felice.
E scoprire nuove rotte e rischiare naufragi perché la meta continuamente muta e va cercata diversamente e altrove.

 

Qualcosa accade, sempre.

tumblr_ogl5tl0rne1rywysso1_500

Venerdì sera, una villa vicino al mare, fulmini che illuminano il cielo e pioggia e vento a far tremare i vetri.
Delle sei persone con cui ho trascorso la serata, a parte l’uomo che mi vuol bene, ne conoscevo, appena, solo una. Ma la sensazione di non conoscersi è durata poco.
Il tempo di prendere da bere, aprire il pacco di sfoglie cariche di burro con lo zucchero a velo ad imbiancare il pavimento, schiacciare qualche noce, accendere l’impianto stereo.

Eravamo lì, insieme, per la musica.

Ciascuno con i suoi cd sotto braccio o le tracce di spotify o i video di youtube da proporre agli altri componenti di questo strano strano gruppo, motivando la scelta, spiegando cosa quella canzone, quel pezzo significasse, dando notizie sull’album, il cantante, la versione che stavamo ascoltando.
Attorno a quel tavolino di briciole e bicchieri di whisky e vino dolce, seduti, ad ascoltare… E’ stato bello, per tutti. E’ stato bellissimo, per me.

Lo è stato perché la musica era forte, intensissima, perché il suono dell’impianto stereo montato per l’occasione, sublime. Ma anche perché la serata si è trasformata in un viaggio. Non solo per la svariata provenienza dei brani, ma sopratutto per le storie che li hanno accompagnati. Storie di ricordi, di anni ’70 vissuti nel vortice dei vent’anni, di legami nati su quelle note di basso e rulli di batteria. Storie di incontri, di emozioni, di concerti, di amori, di delusioni, di attese. Ho visto occhi brillare o chiudersi lentamente per immergersi  nel suono, ho visto sorrisi e sguardi complici.

Non serviva conoscere i singoli avvenimenti della vita di ciascuno; gli amori, i dolori, gli errori o i rimpianti né tanto meno sapere cosa ci fosse in cuore quella sera, quale situazione si era lasciata a casa o quali timori, aspettative o angosce si sarebbero ripresentate alla porta con il nuovo giorno, la musica raccontava tutto.

L’una e mezza della notte è arrivata in fretta, tra pause di sigaretta e cd da mixare. L’atmosfera vissuta posso provare solo a descriverla, ma i brani che ho amato maggiormente tra quelli ascoltati, quelli posso condividerli e far viaggiare anche voi.

Fra tutti l’intro di Lust for life di Iggy Pop, è il mio pezzo preferito. Un minuto ed undici secondi che sembrano sempre uguali e che pare siano infiniti, come se stesse per succedere qualcosa, come se non potesse succedere niente. Ma, per fortuna, qualcosa accade sempre, se ci si (ri)mette in piedi e si comincia a cantare.

Ecco, alzate il volume:

Favola

03000891

Lei aveva un vestito a pois, con un fiocco alla vita che ne segnava i fianchi e delle scarpette da ballo col tacco.
Lui dei pantaloni di velluto, almeno di una taglia più grandi ed un maglione di lana chiara, a trecce, fuori misura anche quello.

Era l’ultima notte dell’anno.

Nel palazzo di fronte un uomo guardava la parete ricoperta di foto. Anche quella notte, come tutte le altre notti, sotto la stessa luce gialla in una stanza piena di ombre.
La tavola era apparecchiata, una tavola piccola, in una casa piccola di una città grande.
Lei aveva tolto i libri e fatto spazio ai calici, lui puliva il pesce sotto un filo d’acqua fredda, e sussurrando, cantava.
Non era loro la casa, e neppure la città. Erano nomadi con le tasche piene di cocci e una felicità a tempo determinato da succhiare fino in fondo, come i gambi dei fiori in bocca nei giorni di primavera. Il cuore in attesa di trasloco e molte crepe da riparare.

Lui aveva le mani di bambino e gli occhi che guardavano lontano. Uno sguardo smarrito color nocciola, con piccole sfumature d’oro che brillavano ad ogni bacio.
Lei, le labbra giovani e uno sguardo triste di desiderio e nostalgia.

Faceva freddo.

La pentola bolliva sul fuoco e sbuffava lenta un fumo profumato di attesa che riempiva  ogni angolo.

Lui non sapeva se avrebbe ancora potuto amare, lei non sapeva se avesse amato mai.

Si avvicinò e le passo vicino, lei lo vide da dietro, illuminato dalla luce dello schermo; lui tossì, fece partire una musica, bevve un sorso di vino rosso e l’abbracciò.

Cominciarono a ballare, lentamente. Lei sentiva la barba argentata di lui sulla sua guancia velata di fard, lui profumava di zagara e sigaretta.
La stringeva forte a sé, carezzandole la schiena, mentre i gatti seguivano i passi miagolando.

Lei imparò i riccioli uno ad uno, con gli occhi chiusi e le dita fra i suoi capelli, mentre lui l’accompagnava danzando verso un nuovo inizio.

Lui fece un sospiro profondo, lei si sentì felice per tutta quella vita possibile.
Si strinsero la mano, un’alleanza solida, senza promesse.

Rimasero abbracciati. La canzone finì. Lui la chiamò per nome, lei slegò i capelli.
Era mezzanotte, un tempo nuovo e questa canzone.

Venite a Palermo

Il post di oggi, non può ignorare la lunga veglia dell’Election Night americana. E proprio per questo, oggi, si resta nella mia città: Palermo.

Questa notte mi ha svegliata il temporale, ho dato un’occhiata alla pagina dell’ANSA, dal cellulare, e non ho più potuto prendere sonno. Pensavo a troppe cose. E me ne chiedevo altrettante. Sono stata disattenta e poco lungimirante credendo che Donald Trump non avrebbe mai potuto vincere. Proprio io che per più di metà della mia vita ho vissuto in un paese guidato da un uomo come Silvio Berlusconi, anzi…che per più di vent’anni ho fatto parte di un popolo capace di votare ad oltranza Silvio Berlusconi.

La gente non vota qualcuno che la possa “rappresentare”, la gente vota chi simboleggia le frustrazioni e le mancanze: denaro, potere, arroganza, possibilità di soddisfare ogni desiderio, capacità di cancellare e non di risolvere le paure.

Così a capo di una delle maggiori potenze mondiali ci ritroviamo un uomo, bianco, ricco, misogino, arrogante. Pensandoci ho quasi riso, sinceramente. Basta osservare un attimo il mondo che ci circonda, infatti, per capire che Donald Trump non rappresenta nessuno, non rappresenta nulla di quanto stia veramente accadendo e facendo la storia.

Per questo vi porto a Palermo, oggi. Per questo non vi racconterò nessun libro, dipinto, canzone, museo, scultura etc etc.., ma un’opera d’arte molto molto più grande.

Andiamo nel cuore della città: vicolo san Carlo, vicino piazza della Rivoluzione. E ci andiamo perché è lì che si trova uno dei centri di accoglienza della Caritas. E’ varcando quel portone che ho visto negli occhi i ragazzi che attraversano il mare e che approdano in questa isola grande e disperata. Li ho visti riuscire a giocare a calcio e biliardino, ridere e cantare nonostante siano minori non accompagnati con le radici spezzate e un futuro nero e profondo come il mediterraneo nei giorni di tempesta. E’ lì che ho portato gli abiti raccolti con generosità dai miei colleghi di scuola ed è lì che l’uomo che mi vuol bene mi accompagna con amore e fatica a trasportare quel che speranza e solidarietà riescono ogni tanto a mettere insieme.

Sono adolescenti, altissimi, magri, con la pelle scurissima e il sorriso di perla. Qualcuno ha lo sguardo triste, qualcun’altro ci osserva incuriositi, noi che possiamo entrare ed uscire quando vogliamo, noi con un documento di identità in tasca e uno Stato di cui lamentarci, noi che viviamo in pace, che possediamo le garanzie del diritto, che abbiamo un lavoro e delle radici, lì dove il seme è stato piantato.

A vicolo san Carlo si distribuiscono 200 pasti al giorno e le storie si intrecciano creando una rete di sostegno e protezione per lo smarrimento di chi cerca rifugio e nuove possibilità.

552be25b532b5

Mensa Caritas vicolo san Carlo, Palermo

E poi, poi lasciamo il centro storico e andiamo verso il mare. Al Porto di Palermo sbarcano i salvati e i cadaveri. Ma sopratutto sbarcano le donne, quelle incinta o quelle con i piccoli nati durante la traversata o messi dentro una coperta nella speranza di sentirli piangere sulla riva dall’altro capo del mare. Sbarcano donne con il seno pieno di latte e una disposizione al sacrificio che solo l’istinto di sopravvivenza e la sete di vita possono creare e che è più forte, molto molto più forte di Donald Trump.

Palermo, solo uno dei tanti luoghi d’Europa in cui è visibile la trasformazione del mondo. Il futuro è loro: il futuro ha la pelle scura, la forza delle donne e un desiderio di vita che nessun muro, nessun populismo, nessun fascismo potranno fermare.

129940-hd

Donald Trump è il rappresentante del mondo che muore.

Non spaventiamoci, dunque. Oppure facciamolo, ma solo se questo serve a prendere sul serio il tempo che stiamo vivendo, la nostra personale responsabilità e l’urgenza di aprire gli occhi sulla realtà. Non è restituendo potere agli ideali passati e sconfitti che colmeremo la paura per un cambiamento di cui non riusciamo ad immaginare la meta, ma il cui cammino non riusciremo in alcun modo ad arrestare.

Trump, Putin, Erdogan, il ristabilimento delle frontiere, il terrorismo, la guerra in Siria, il cambiamento climatico, la quotidiana nostrana povertà, i morti in mare, le armi nucleari….potrei continuare a lungo. Il senso di impotenza, paralizza. Sopratutto quando si è quotidianamente bombardati da un sistema di informazione corrotto e bugiardo, le cui responsabilità sono pesantissime e verso il quale sarà necessario prima o poi prendere una posizione.

Oltre le prime pagine dei giornali la vita vera delle persone vere fa il suo corso, in mezzo a multiformi difficoltà e infinite contraddizioni, ma scrivendo una storia molto differente rispetto a quella che il patinato Trump rappresenta, rispetto al tentativo di farci credere che egli sia tutta la realtà e tutto il pericolo.

L’elezione del miliardario americano non è la fine del mondo. Anzi, forse è l’occasione per aprire gli occhi, finalmente, e superare lo sconforto e il catastrofismo . Forse, con la vittoria di Hilary Clinton sarebbe rimasto ricoperto di polvere e rassegnazione il nucleo del problema che è dentro di noi prima d’essere fuori di noi. Ci saremmo convinti che l’elezione di una donna era il passo avanti necessario al cambiamento che tutti ci aspettavamo, così come abbiamo creduto che un presidente dalla pelle nera avrebbe portato la pace nel mondo.

Tutti siamo responsabili, in un modo o nell’altro, consapevoli e non, dell’ascesa al potere di Donald Trump. Staniamo in noi stessi l’ombra lunga della resa e della stanchezza, della rassegnazione e della lamentela fine a se stessa, dello scontento e dello sconforto. Togliamoci le mani dai capelli per questa vittoria/sconfitta che ci ha forse solo ipocritamente sorpresi e tendiamole verso noi stessi e verso chi può stringerla per bisogno e aiuto, paura, solidarietà senza farci promesse che poi tradirà perché non può annunciare nessuna ricompensa né distribuire il sogno di milioni di posti di lavoro.

Lasciate stare Trump, l’America e l’imminente fine del mondo: venite a Palermo, ce n’è una ovunque voi siate, in qualunque parte del mondo.

Attesa

Ero contenta di poter partire. Che la meta fosse Madrid mi importava poco. Quello che contava era trascorrere tre giorni lontana da tutto insieme al mio ragazzo: poco più di vent’anni, molti sogni nella testa e l’emozione per il mio primo rossetto rosso in tasca.

12243569_428657727331020_8942776288585546794_n

Eravamo giovani, squattrinati e innamorati così come sapevamo esserlo allora, così come potevamo esserlo per le cose che la vita ci aveva insegnato fino a quel momento.

L’albergo era vicinissimo a Puerta del Sol, ma minuscolo. Ricordo che doveva abbassarsi, lui, per passare dalla porta del bagno, perché era il ragazzo più gigantesco e buono e malinconico che avessi mai incontrato. Ed era anche molto bello, secondo me.

Puerta del Sol, Madrid.

Puerta del Sol, Madrid.

Madrid fredda e caotica, con la gente che restava per strada fino a notte inoltrata. Abbiamo passeggiato a lungo, mangiato schifezze e immaginato il futuro, abbiamo parlato, molto, ci siam detti tutte le parole che poi, invece, avremmo purtroppo cominciato a tenere per noi ed abbiamo dormito vicini come solo a vent’anni si sa fare. Ci siamo emozionati, ci siamo cercati, invano qualche volta, come accade tra gli esseri umani. Siamo stati molto in silenzio. Ci piaceva, sembrava importante.

Entrati al museo del Prado abbiamo lasciato gli zaini alla reception e preso una piantina per essere sicuri di non perderci. Riuscire a vedere tutto, con il tempo che avevamo a disposizione, era impossibile. Abbiamo vagato a zonzo, senza sapere cosa stavamo cercando. Devo essere sincera, io non ricordo nulla di quella visita, nulla tranne una cosa: Il Cristo crocifisso di Diego Velasquez. Lo avevo visto riprodotto infinite volte ed infinite volte non mi era piaciuto. Mi sembrava un’immagine “scontata”, uno dei tanti poveri cristi che pendono da milioni e milioni di croci ovunque nel mondo. Ma quella mattina, all’improvviso, mi fu chiarissima la differenza che esiste tra una riproduzione e un’opera originale. Era…incredibile.

maria4

La tela mi parve molto, molto  grande e il nero del fondo la cosa più buia che il mio sguardo avesse mai percepito. Il bianco del corpo fa si che Gesù sembri venir fuori dal quadro. Si ha l’impressione che dalla croce il corpo stia per piombarti addosso. E’ come se avesse un volume, come se si potesse mettergli un braccio attorno, per sostenerlo.

Ma non lo si può sostenere, invece. Né il corpo né il volto. Ebbi l’istinto di scostargli dal viso la ciocca di capelli che lo ricopre per metà. Gesù in quel quadro è un uomo bellissimo e questo rende la morte che tutto lo afferra, insopportabile. Osservando quel volto si desidera di vederlo sorridere, di vederlo riprendere colore, di poterlo guardare negli occhi, di sentirlo parlare, di riaverlo vivo.

Il sangue è appena accennato. Come se quell’uomo non avesse patito la violenza delle percosse, dello scherno, del tradimento da parte dei suoi, del peso della croce. E’ un dolore tutto interiore, il corpo non fa che dirne la presenza. Non c’è rabbia in questo dipinto. Non c’è disperazione. Ma è palpabile il senso della fine, l’assenza della vita. E questa assenza di fiato e colore si scontra con la luce che il corpo morto emana: accecante e bianchissima.

Non credo di aver pensato  nulla di “spirituale”, forse perché nel tempo ho imparato a diffidare dei passaggi troppo veloci che vanno diritti alla resurrezione. A quella gioia melliflua che è più vicina alla nevrosi che alla fede. Neppure oggi riesco a pensare nulla di “spirituale” di fronte al Cristo crocifisso di D. Velasquez. Porto impressa a fuoco la potenza dell’opera e quando mi riesce la raffronto con tutta la morte, la fine e il dolore che scorgo attorno a me o dentro di me.

Forse, se un’immagine di rimando mi si apre in cuore è quella legata al tempo della gestazione. Così mi appare il dolore: un tempo di nascondimento, silenzio e crescita, fino a che si è pronti a venire alla luce, di nuovo. Se si rimane troppo poco a contatto con il proprio dolore, il parto di se stessi è prematuro, non si è autonomi e ci si sente esposti ad ogni debolezza, se si resta nel grembo del dolore più del tempo necessario, si muore.

Ecco, il Cristo del Velasquez sembra proprio che dalla morte e dalle tenebre fitte, venga alla luce. Non riusciamo a vedere il compimento di questo processo, lo si può intravedere, lo si può sperare, lo si può solo aspettare. Se potessi intitolare io l’opera la chiamerei: L’attesa, perché se una scintilla d’inquietudine la fede accende in cuore è proprio l’affidarsi alla possibilità che un termine al dolore sia stato stabilito per tutti e che il senso del nostro patire ci verrà disvelato: Il Cristo resta in croce da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Un tempo determinato. Poi è il dolore muto e intenso, poi è il buio del sepolcro e poi è… .