“Cu tuttu ca fora c’è a guerra,
mi sentu stranizza d’amuri“.
Nel corridoio centrale dell’ipermercato, oggi mi è venuto incontro un uomo.
Era un signore anziano. Pochi capelli bianchi, alto, con un’andatura disarmonica. Aveva una maglia rossa ed era avvolto da una grande giacca a vento blu e gialla. Portava gli occhiali, quelli con le lenti che fanno sembrare gli occhi grandi grandi e aveva un’espressione smarrita e infelice.
In una mano stringeva una busta trasparente, con dentro un vestito da Babbo Natale nuovo di zecca, di bassa qualità, con appiccicata sulla plastica la foto di un uomo giovane e forte con quel vestito addosso, sorridente, circondato da regali e bambini dall’aria festante. Sembrava una beffa quella foto con poggiato sopra il suo pollice rugoso. Sotto al braccio portava un pacco di biscotti e con la mano avvolgeva il collo di una bottiglia di vino rosso.
Mi è venuto incontro cominciando a fissarmi da lontano, cercando di aprirsi una strada tra una muraglia di panettoni e una torre di Ferrero Rocher. Ha dato un’occhiata al mio carrello, semivuoto, senza nessun acquisto natalizio, poi ha rialzato lo sguardo senza che smarrimento o tristezza arretrassero di un passo. Ci siamo incrociati e abbiamo proseguito, ognuno per la sua strada.
Ho continuato a fare la spesa e a guardare la gente. C’erano due uomini, ognuno dei quali spingeva un carrello colmo di panettoni, quelli nella scatola di cartone, con una bottiglia di spumante per compagnia e i fuochi d’artificio sulla confezione. Ho contato, erano quaranta scatole. Hanno pagato circa 500 euro, in contanti. Ho dedotto che appartenessero ad un’azienda, una di quelle che invia i regali ai fedelissimi, con i biglietti prestampati, tutti uguali, per augurare buone feste.
Allora mi sono guardata attorno, ho guardato le cose, non le persone. Ho guardato i festoni, i dolci, le confezioni regalo, la frutta secca, i canditi nelle scatole di latta con Gesù bambino il bue e l’asinello, il fiocco argentato sulla casacca dei commessi, i barattoli di nutella di ogni dimensione e colore.
Ho immaginato le stesse persone, nello stesso supermercato l’8 di gennaio. Quando lo spirito delle feste viene svenduto “a prendi tre e paghi due” su banconi senza oro né argento. Quando i Ferrero Rocher smontano a malincuore la loro torre d’avvistamento e si rimettono in fila ordinata e anonima negli scaffali del reparto dolciumi, quando sulle casacche dei commessi rimane appesa soltanto una bustina di plastica con dentro il tesserino e una foto di riconoscimento che sorride in loro vece, sempre, anche a chiusura, quando la stanchezza stronca le caviglie e le voci della gente e la musica rimbombano nel cervello come una droga. Ho immaginato l’uomo anziano ripiegare il suo alter ego e riporre Babbo Natale dentro la busta con la foto stropicciata.
Allora ho capito perché quest’anno non ho tirato fuori gli addobbi, perché mi infastidiscono le luminarie e non ho comprato ancora un solo regalo. E’ perché non sopporto più ciò che non lascia un segno. La sterilità delle cose, perfino di quelle “spirituali” che pure sanno essere sterili e mutare la loro profondità in un pozzo nero di tanfo e veleno. La ciclicità dei doveri mi pare spaventosa. Fosse pure il “dovere” della gioia. Rivendico il diritto ad una festa che trasforma, al passaggio di persone, vicende, storie e occasioni che mutano il paesaggio come lo scirocco le dune di sabbia. Non voglio vestire a festa ciò che resta sotto uguale a se stesso, felice o triste che sia. Preferisco lasciare tutto spoglio. In attesa. Preferisco saltare il turno, rimanere indietro, non tenere il tempo. E semmai arriverà la stagione di una festa che trasforma, allora mi vestirò da Babbo Natale fosse pure in pieno agosto e monterò luminarie d’argento nella luce invincibile dell’estate, farò il panettone con le mie mani abbronzate, comprerò regali in primavera e festeggerò il nuovo anno nel mezzo dell’autunno. Da allora in poi potrò rientrare nei cicli festivi della terra e camminare lietamente tra le torri di cioccolata e canditi, sorriderò agli uomini anziani che abbracciano babbo natale e una bottiglia di vino rosso. Ogni segno porterà la sua metamorfosi e non ci sarà, almeno per me, nessun ritorno alla normalità, si procederà per cambiamenti di fiore in frutto, di frutto in seme, di seme in fiore, di fiore in frutto…..
Nella vita “si deve andare avanti”. Lo si dice quando si è nel dolore, soprattutto. Quando si è disposti a qualunque cosa pur di “andar via”, dalla sofferenza, dal dramma, dal fallimento, dalla malattia. Poco importa se non si sa dove andare, se non si percepisce alcuna direzione: “avanti” è certamente un luogo migliore. Quando si è felici, invece, non ci si vorrebbe spostare, mai. Anzi, tutto quello che sembra poter mutare l’assetto delle cose è percepito come una minaccia: chi è felice vuole restare dov’è. Forse qualche temerario della felicità azzarda un passo nel territorio scosceso della “progettazione”, immaginando il modo di perpetuare nel tempo e nello spazio il proprio giubilo, inutilmente.
Poi, invece, c’è chi non è né felice né triste, perché ha disimparato la strada delle ambivalenze, degli opposti che si attraggono o delle forze che si respingono. Chi, magari, ha scoperto che ad andare sempre avanti per fuggire dal dolore ci si perde e a voler ingabbiare la felicità lo sguardo si restringe, sempre di piú, sempre di piú, fino alla cecità e all’egoismo piú bieco.
Accadono cose nella vita che costringono a tornare indietro, a fare la strada a ritroso fino a ricongiungersi con la parte di sé che si era persa, chissà quando, chissà dove o come. Magari proprio per l’ansia di futuro o per la brama di dettar legge alla vita. Oppure con la parte si stessi che non si è mai compresa o guardata a fondo o amata, accolta, accettata.
Accadono cose, s’incontrano persone. E all’improvviso comprendiamo che andare verso noi stessi è la sola strada possibile. È un percorso accidentato, pieno di macerie, di zone d’ombra, di vuoti d’aria. Si passa per strade che si preferirebbe dimenticare, che si vorrebbe non aver mai imboccato. E pur ripercorrendo a ritroso la vita, le cose imparate fino a quel momento non servono a nulla. Non ci sono criteri conosciuti che si possano applicare, nessuna esperienza è abilitata per la riuscita del cammino, non c’è giudizio che sappia aprire varchi nel buio, non ci sono imperativi esterni a noi stessi che sappiano appianare le salite, segnalare i burroni, evitare i tornanti. La fiducia in se stessi è tutto il coraggio di cui si può disporre, prendersi sul serio l’unico atto di eroismo possibile. Tutto ciò che sapevamo si ribalta, si ribella e scappa mentre del nuovo non riusciamo a scorgere che frammenti, luccichii ed echi lontani.
La speranza è che una volta intrapresa la strada ci si possa ri-conoscere, alla fine, che esista realmente la possibilità di ri-congiungersi con se stessi, di ri-trovarsi, di ri-scoprirsi e che la vita, la nostra, le persone, le relazioni abbiano ancora desiderio d’accadere, con noi.
Appena entrata in classe mi hanno detto che avevano una cosa da raccontarmi. Son pochi e di stare seduti ai loro posti non ne vogliono sapere. L’orologio segna quasi le tre del pomeriggio, hanno ragione, porca miseria. Stanno lì dentro dalle otto del mattino! Dovrebbero costituirsi parte civile contro uno Stato che tollera di far scuola in ambienti così, come se fossimo tutti polli da allevamento. Li lascio liberi di stare in piedi o seduti sui banchi o vicino a me, alla cattedra, che qualche animo gentile esiste ancora.
E’ di droga che mi vogliono parlare. Per un servizio che hanno visto in tv. Una storia terribile, ma a lieto fine. Fanno a gara per decidere chi deve raccontarmi meglio, per stabilire a chi spetta mettermi a parte di tutti i particolari. Io della storia, in verità, non ci capisco un granché, ma leggo sui loro volti il sollievo, molto vicino alla gioia, per un ragazzo come loro che era perduto, morto e che, invece, ce l’ha fatta.
Cerco allora di capire cosa ne sanno questi ragazzi sedicenni di droga. Beh, ne sanno un sacco. Sanno di droga e di spacciatori e sanno che “certe volte si spaccia per poter mangiare prof”. Dicono che loro non la toccano la droga, che a tutti, nessuno escluso, è stata proposta, con insistenza, e sentono il bisogno di specificare che “non si trattava di spinelli”. Io decido che mi stanno guardando troppo e a lungo negli occhi e che la vittoria della luce e dell’aria d’autunno sullo squallore dell’aula è troppo grande per potermi mentire.
Quando chiedo perché secondo loro un ragazzo comincia a drogarsi, la risposta è unanime: “Per paura”.
“Per paura di che?” – controbatto io. “Per paura di non essere abbastanza prof., per paura di non essere accettati, per paura di essere messi da parte e restare soli, per paura di non farcela, per sentirsi forti”.
Amen.
Dovevano essere in ventuno, ma oggi erano in sette. Certo, avrei potuto fare la mia lezione ugualmente, anche perché me l’ero preparata con cura…avrei potuto, appunto. Ma non l’ho fatto. Che ho fatto? Sono andata alla rierca di territori sconosciuti. Ho provato a capire chi avessi davanti, ho cercato di cogliere qualcosa della loro vita, quella che a scuola non si vede, quella che resta sommersa sotto gli zaini posizionati sui banchi tipo muro di Berlino. Ho scoperto cose, oh… che Cristoforo Colombo oggi mi pare uno che si è affittato il pedalò per fare il giro della piscina. G. ha 17 anni, ma è ancora al secondo anno, vive al CEP e per venire a scuola al mattino si sveglia alle 6.00. Il primo autobus passa alle 6.45. Forse. Perché può essere pure che passi dopo mezz’ora o che non passi affatto, facendo saltare il resto delle coincidenze. Quando questo succede arriva in ritardo. “Minchia lo vede prof. quando mi dicono gli altri prof. che arrivo in ritardo perché l’autobùs un passò e loro mi rispondono: Ti alzi prima! E manco mi talianu na facci! Minchia prof. io divento nervoso, perché mi posso susiri puru ai quattru, ma l’autobùs dal CEP prima delle 6.45 non passa!”.
Cosa fanno i ragazzi della mia scuola quando non sono scuola? Giocano a calcetto. Quasi tutti. E durante la lezione è questo che guardano sui cellulari, guardano le scarpette Nike con i tacchetti buoni per la terra battuta. Si allenano tre volte a settimana. E la cosa forte degli allenamenti e che ti stanchi fino allo sfinimento, che butti via tutta la rabbia per come sei e non vorresti, per come è la tua famiglia e non vorresti e per quella che ti piace e ti saluta un giorno si e uno no a saltare però, che manda all’aria pure la regolarità dell’attesa. E poi ci sono gli spogliatoi dove ci si ricarica con le urla, gli scherzi, con il rutto libero e pisciando un po’ dove capita, senza regole. Ovviamente non manca la playstation, anche se la musica è la padrona assoluta del loro tempo fuori scuola. G. ascolta musica rap che si divide in due gruppi però, il rap duro e quello da musica commerciale. Cosa piace del rap? Piacciono le storie, le storie che parlano delle cose che loro vedono e sentono e sanno e desiderano.
A questo punto la mia esplorazione vuole andare fino in fondo e allora chiedo a G. di farmi ascoltare la sua canzone rep preferita. E lui decide per “Lettera dall’inferno” di un certo Emis Killa. La canzone è un monologo di un giovane che però è pure, forse, una preghiera e che ad un certo punto dice così:
“Nella mia vita non sei stato quel che dovresti
Il diavolo è stato più bravo, per certi versi
Il credo dalla fede, ognuno c’ha la sua
Mia madre in chiesa piange sangue, più della tua
Non so con quale scusa ti possa difendere
La gente scrive preghiere ma forse non ami leggere”.
Ascolto tutta la canzone in silenzio e poi senza pensare dico sussurrando: “Sono parole forti”. Prontamente G. mi risponde in un modo tanto potente da poter scoperchiare il tetto della scuola: “Prof. nella mia vita o le cose sono forti oppure non le voglio”. Lo guardo, volendogli molto bene per quello che ha detto ed avendo insieme molta paura per lui”. Anche lui mi guarda e aggiunge: “Prof. per me questa è la canzone più bella perché questo ragazzo a Dio gli dice tutto il suo dolore, perché minchia prof. certe volte pare che la sofferenza è troppo grande. Io non credo prof. non ho nessuno a cui credere, però secondo me se esistesse Dio, dovrebbe leggerle le nostre lettere dall’inferno. Picchì a mia prof. sto Dio che dice la chiesa, ma non mi convince proprio. Anzi, pi mmia la chiesa proprio putissi spariri picchì cu u Signuri un ci trasi nienti. Io certe volte li sento parlare tutti chisti ca criunu, puru u papa ca s’affaccia ra finestra e pensu na me tiesta: ma che mi rappresenta? Boh”.
Io di nuovo lo guardo e penso e dico: “lo sai che nella Bibbia esistono pagine che sono simili alla canzone che ti piace?”. E lui: “Io questo non lo so, a me mai nessuno me l’insgnò a capire zoccu c’è scritto na Bibbia”.
Poi è suonata la campana. I ragazzi sono usciti di corsa verso la fermata del bus. E io sono rimasta cinque minuti, in silenzio, nell’aula deserta. Deserta.
Ti bacio di rosso e d’autunno
d’arancio su labbra di loto,
ti bacio di vino e di lava
a vela su passi di strada.
Oh, saprò aspettare il momento giusto.
Custodirò la tempesta,
fino alla sua esplosione resterò in silenzio.
Il respiro sarà lieve fino a che non sarà colma la furia.
Poi sarà uno scroscio d’acqua senza riparo,
sarà burrasca in ogni anfratto del mondo.
La terrà secca tornerà a partorire germogli,
e l’aridità non scamperà alla vendetta.
Il deserto arretrerà con il terrore negli occhi
e l’umidità esploderà in un canto di tuoni.
Ovunque arriverà la frescura,
ogni spigolo si ricoprirà di muschio.
La piena delle acque nuove sconvolgerà ogni cosa
e nulla resterà al suo posto.
Il vento spargerà sementi ovunque
e non troverà alcun rifugio la desolazione.
Sarò quel che sono fino all’ultima goccia di rugiada
e tutta la fatica cupa dell’attesa si muterà in festa.
Così dovrebbe essere la vita
se soffia il maestrale a settembre:
priva di mura attorno
e con orizzonti che l’occhio non tiene,
dovrebbe essere a piedi scalzi a schiacciar uva
e fisarmoniche in festa,
dovrebbe essere ebbra di speranze audaci
e fuoco acceso
e membra stanche di lavoro buono.
Dovrebbe sapere di pane caldo e di legna,
di pace all’imbrunire
e tra il vento la voce amata
e acini morbidi di succo,
dovrebbe esser un sorriso lieve
che si apre
e la cesura di molte ferite.
L’autunno porta il miglior mare, ma le creature di gamba doppia a terra non lo sanno. Scambiano il calore del sole con il tempo propizio del mare e s’ingannano. Hanno paura del freddo che sferza ad una ad una le gocce d’acqua e sale sulla pelle nuda e così, in autunno, il tempo propizio del mare, si rintanano fra le mura di casa e gli voltano le spalle.
Lo vedessero adesso, così, come lo vedo io, lo vedessero ingrigire a poco a poco, gonfiarsi come ventre gravido, arricciarsi di bianco e spuma sulla costa. Gridano, parlano, cantano, si guardano, si cercano, sulle spiagge, in estate, e trattano il mare come uno stagno di frescura. Fossero adesso qui, invece, reggessero un po’ meglio il silenzio, avessero udito per ascoltare il rintoccare dei ciottoli che il mare vuole portare a fondo con sé, onda dopo onda. E’ il tintinnio del corteggiamento, della resistenza, della resa. Avessero occhi per vedere i granelli di sabbia compattarsi al ritiro delle acque e separarsi uno dall’altro al sopraggiungere dell’onda, saprebbero vivere e comprendersi con più saggezza.
Quando sulle spiagge deserte vengo in autunno a cercar tracce di amori perduti, trovo resti di parole non dette, fanciullezza abbandonata sul bagnasciuga come pelle di serpente, infanzia ilare e vecchiaia portata sulle spalle; guardo alla terra ferma come al guscio duro di una tartaruga. Poveri uomini e povere donne! Quanta fatica fate nell’illusione di poter ammorbidire e far breccia nel vostro stesso guscio, in un tempo opportuno che non sopraggiunge mai. Creature terrestri d’incomprensibile cecità. Avete occhi che non resistono al sale e polmoni d’aria incompatibili alle profondità. Siete creature di superficie che si proteggono da tutto.
Noi sirene, invece, su questa superficie strisciamo, a colpi forti di braccia trasciniamo la nostra parte estranea di corpo, per raggiungere gli scogli pungenti sulla riva, per poter vedere anche noi il mare di fuori. Eppure, con un solo tuffo torniamo all’acqua fredda degli abissi, scompariamo a colpi di coda, giù, giù, sempre più a fondo. Le nostre “squame di madreperla” si riempiono della luce del sole e una volta tornate alle profondità, portiamo luce nelle tenebre e gli odori di mille superfici lontane, trascinati dal vento, li uniamo al profumo del mare in una pozione che inebria gli dei.
Lasciate sulla sabbia le impronte invisibili del vostro tormento, voi che sempre volete essere altrove, voi che vi portate appresso il vostro corpo come un castigo. I granelli che non si possono contare, piccoli, privi di consistenza hanno la forza per sopportare il peso delle vostre felicità mancate e il terrore che vi attraversa quando la felicità vissuta vi pare fragile e minacciata e vi irrigidite e vi spaventate e stringete i pugni per trattenere quello che non potete, per far vostro ciò che non vi appartiene. Se foste in grado di reggere il mare d’autunno, il mare, paziente e generoso, vi restituirebbe ogni cosa. Ma gli uomini sono sempre alla ricerca delle “belle giornate” che rubano al mare il silenzio e ai ciottoli il tintinnio della resa.
Noi ci mostriamo di rado, solo agli uomini afflitti, a quelli che non vogliono più convincere nessuno della loro superiorità ma che piuttosto l’hanno vista infrangersi sugli scogli aguzzi della vita. A loro ci mostriamo, a coloro che non hanno più bisogno d’esser creduti e sanno restare, tutti interi, ad abitare le cose che accadono, oggi, ora. Non si domandono se sono matti o ubriachi, ma ci guardano e sorridono, ci tendono la mano per salire sulle loro barche di legno e fatica e così, adagiate sul fondo restiamo ore a regalare sguardi. Alcuni s’innamrano di noi e noi di loro e l’amore non è un pericolo, nel mare, d’autunno, l’amore si prende e si da, al ritmo delle barche sull’acqua. Ci guardano e pensano alle loro donne, a quelle che hanno perduto, a quelle che hanno lasciato andare, a quelle che hanno tradito o a quelle che li hanno feriti, riducendo il loro cuore in miseria. S’avvicinano con desiderio, senza bramosia, questa l’hanno perduta a suon di drammi e malanni. Con una mano toccano le squame, e con il viso si tuffano dentro ai nostri capelli. Non parlano, respirano. Giocano ad acchiappar la vita con il naso, giocano a rincorrere i tonni, ad occhi chiusi e labbra aperte appena, cercano sulla nostra bocca la morbidezza dei molluschi e il sapore dolce del pescato appena tratto dal mare. Cercano un nutrimento senza caccia.
Qualcuno di loro sa anche piangere e noi dal loro viso lecchiamo le lacrime con la nostra lingua minuta, una ad una, restituiamo le lacrime al mare. E il mare le riconosce come l’unica traccia di sé, rimasta clandestina dentro al corpo degli umani e allora canta, il mare, canta la nostalgia per gli uomini e le donne coi piedi immobili a terra.
Quale maledizione la parola, quale assordante rumore se spiega gli sguardi, quale massacro se squarta il bene voluto come un pesce da taglio cercando i pezzi migliori da vendere al più ricco offerente. Quale maledizione la parola che mette a tacere l’attesa di abbracci da compiere muti, che piega le carezze al merito e giustifica gli slanci del cuore, che s’impiglia come pesce nelle reti crudeli dei pescatori notturni.
L’autunno possiede il mare migliore. Il luogo dove non si dovrebbe stare, la permanenza fuori stagione, l’amore fuori luogo, il corpo mai del tutto compiuto, le conchiglie vuote, le spine dei ricci, la vaghezza delle acque durante la burrasca, l’attesa d’improbabili ritorni: fuggite uomini la luce accecante della ragione, il ventre sterile del buon senso, la ragione non bacia le sirene.
Di palme a Palermo ce n’erano a migliaia. Poi è arrivato il punteruolo rosso, un coleottero feroce che le ha sterminate cambiando per sempre il volto della città. Nel cuore di Palermo, però, nel quartiere arabo della Kalsa, alcune palme partigiane resistono e rivendicano il diritto di svettare ancora a lungo verso il cielo, è il Giardino dei giusti.
Io ci sono entrata per la prima volta ieri sera, una delle sere più calde di questa estate del sud, sono andata per partecipare alla manifestazione Giardino in circolo che segna la riapertura delle attivita Arci di Palermo.
Non è molto grande questo Giardino dei giusti, eppure varcando la sua soglia sono salita su una barca di pescatori nel mare di Tunisia, sono stata a Gaza, sotto le bombe, ho solcato il mare fra le pagine di un libro di stoffa, navigato sulle imbarcazioni costruite con l’argilla da mani d’infanzia, sentito addosso il vento di terre lontane, una forza di bene e passione sulle dita che modellano la terra.
Je suis venu de la mer, de la soif, du cri. Je suis voué au cri comme les vents de la mer (“Sono venuto dal mare, di sete, di grido. Mi sono dedicato a piangere come i venti del mare”). Moncef Ghachem è un poeta tunisino che conosce il mar mediterraneo, i suoi pesci, la sua gente. I popoli che nascono e vivono sul mare sono uno strano tipo di gente, infatti: cresce dentro o vicino ai porti, dove si arriva, da dove si parte, senza sosta. Eppure la solitudine ne bacia le labbra e ne risucchia le parole. Sulle rive del mediteraneo si diventa grandi mentre il sole brucia la pelle e il sale corrode il cuore e insieme ne guarisce le ferite, si cresce con gli occhi pieni d’acqua e una sete invincibile. Moncef Ghachem, ha parlato del mare e dei pesci che non ci sono più, tutti divorati dall’ingordigia di chi s’illude d’imbrogliare il mare. I pescatori come Moncef, invece, sanno che il mare prepara la sua vendetta. Parla della razzia del pesce il poeta, per dire la razzia del potere, l’agguato alla parte fragile del mondo, per dire di bimbi morti sulle spiagge, per annunciare che il tempo è scaduto e che bisogna far tornare i pesci nel mare e la giustizia fra gli uomini. Recita i suoi versi con fermezza e discrezione, in arabo, in francese, con uno strano ritmo che ricorda le onde sulla barca nelle notti silenziose di pesca.
Ramy M Balawi, invece, è un giovane uomo, un maestro elementare di Gaza che nel Giardino dei giusti arriva attraverso le parole di una lettera proclamata a voce alta, mentre il buio scendeva lento sulle palme partigiane. La lettera raccontava del divenir uomo tra i morti, dei boati delle bombe che scuotono il letto, di fratellini che urlano la paura alla luce fioca di una candela. Ramy ha raccontato della guerra, ma anche della scuola, l’unico ponte per raggiungere la speranza di una vita migliore, l’unica arma contro l’ingiustizia subita dalla sua gente, l’unica possibilità di riscatto. La biblioteca dei bambini e dei ragazzi Le Balate, che opera nella trincea del centro storico di Palermo, grazie all’impegno generoso di Daniela Thomas, sta unendo le forze per riuscire a condurlo a Palermo e dargli l’occasione d’essere corpo e voce, narrazione ed esperienza, con noi, per noi.
Su un tappeto colorato un libro aperto di stoffa, opera di Angela Di Blasi, si popola delle sagome dei partecipanti disegnate da ciascuno con cura. Parole di pace da affidare a strisce di cotone bianco che sembrano schiuma sul bagnasciuga. Alla terra ci pensa Alberto Criscione.
A lui e al suo blocco di creta si avvicinano grandi e bambini: nasce un’intera flotta di barchette a vele spiegate e poi palline e cubi e fiori e coccodrilli a moltiplicare la gioia della creazione.
In un angolo le mani dello scultore Salvatore Rizzuti partoriscono un volto di donna. La gente capisce, lo circonda, vuole vederlo lavorare, ma lui è irragiungibile: solo con la terra. Con le dita modella quel blocco di creta informe che guarda senza distrazione, come se stesse aspettando il ritorno di qualcuno.
L’arpa di Romina Copernico strappa via dal cuore i brutti pensieri: la gente ascolta con attenzione, si guarda attorno, si riconosce, si saluta, mangia e beve birra e quando il gruppo di Arci Tavola Tonda mette mano agli strumenti, si balla anche. Perchè la festa, la gioia di ritrovarsi insieme vivi è il modo migliore per sabotare le guerre ed anche il modo più nobile di rendere omaggio alle vittime e alla disperazione dei popoli in fuga. Al ritorno le strade del quartiere deserto si accendono di nostalgia, i lampioni riflettono sulle balate: sembra un mare d’oro.