Diversità è bellezza.

 

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Diversità è bellezza. Progetto di Educazione al genere” è il resoconto visibile di un’esperienza relazionale molto importante: quella educativa.

Questo video non è il semplice prodotto di uno studio o di una ricerca, è il frutto buono del condividere, nello spazio di un’aula scolastica, il mistero dell’incontro. La capacità cioè di guardarsi, ascoltarsi, accogliersi, capirsi, crescere.

Abbiamo cominciato con la gioia di ritrovarci insieme per un altro anno scolastico, non era certo, infatti, che ci saremmo rivisti, data la precarietà a cui anche le relazioni devono sottomettersi in assenza di una certezza lavorativa. Ho subito chiesto ai ragazzi se avessero avuto voglia di imbarcarsi con me nell’avventura, di provare a smascherare i giudizi ideologici che da più fronti hanno attaccato l’educazione al genere, facendone il più grande nemico della famiglia e dell’amore, senza però mettere in campo il minimo sforzo per conoscerne i contenuti o per mettersi in discussione.

Ognuno di noi ha iniziato questo percorso avendo in se stesso delle convinzioni, delle idee, delle difficoltà a riguardo: abbiamo messo tutto sul piatto. Ciascuno sapeva di poter venir fuori con il proprio pensiero, il proprio disagio, le proprie domande. Ho studiato e ricercato i materiali idonei per poter dare ai ragazzi strumenti autonomi di conoscenza. Prima di tutto: le parole. Non tutte le parole, infatti, sono uguali. È necessario conoscerle e capire cosa contengono e quale significato portano con sé: genere, gender, orientamento sessuale, identità sessuale, identità di genere etc…non sono sinonimi. Questo abbiamo fatto, dunque, prima di tutto: abbiamo studiato le parole. Ma le parole non sono sufficienti. È necessario che esse si facciano esperienza, storia, volti, occhi, vita vissuta. L’esperienza ha il primato su ogni dottrina. È così per tutti, ma lo è ancor di più per loro, per i ragazzi. Abbiamo trascorso ore a scuola a ragionare insieme e da casa su whatsapp, per condividere i dubbi, le idee, lo studio: abbiamo fatto rete. Da qui l’idea di realizzare qualcosa di visibile, qualcosa che potesse mettere insieme teoria e pratica, qualcosa che potesse spostare tutto dal piano puramente razionale a quello esperienziale, appunto.

L’educazione al genere prevede che si parli di corpo, di amore, di famiglia, di sesso, di identità, ma per capire realmente qualcosa è necessario avere a che fare con occhi, mani, sguardi, storie, abbracci. Non volevamo realizzare qualcosa per comunicare a tutti quanto avevamo studiato e capito. Volevamo metterci in ascolto della realtà. E le persone sono la realtà: le persone con le quali passiamo la maggior parte del nostro tempo. A queste persone concrete i ragazzi hanno posto delle domande concrete, pensate nella fase di studio e selezionate da loro stessi, in piena libertà. Raccogliere le testimonianze e le risposte è stata la fase successiva. È stato stupefacente osservare come il pensiero dei ragazzi su ciascuno dei professori andasse mutando: non solo non erano più estranei ma anche acquisivano autorevolezza man mano che il loro vissuto personale veniva fuori. Una volta terminati riprese e montaggio abbiamo insieme visionato il video e, dopo, ci siamo fatti un lungo applauso. Eravamo stati bravi! Anche riconoscere questo è stato un momento di crescita.

L’ora di Religione, si sa, è circondata, a volte oppressa, da moltissimi pre-giudizi. Per me era importante che i ragazzi si rendessero conto di una verità che, purtroppo, viene fatta a pezzi dall’analfabetismo religioso, presente in modo capillare, nonostante proprio questa fede sia quella che diciamo di professare. Il cristianesimo nasce “plurale”: ben quattro sono i vangeli che vengono conservati per narrare ai posteri la storia di Gesù di Nazareth. Quattro testi diversi, scritti da autori diversi, indirizzati a comunità differenti. Si, la diversità è bellezza! Essere credenti non vuol dire non pensare con la propria testa o lasciare a terzi la monopolizzazione, l’autorità sulle nostre coscienze. I tempi, questi nostri tempi non permettono più che si riduca a questo la fede cristiana. Non esiste argomento, esperienza, conoscenza che non valga la pena osservare, valutare, capire. Nulla che debba essere escluso a priori, senza sapere neppure di cosa si stia veramente parlando. Se l’insegnamento della Religione non crea spazi di libertà, diversità e dialogo non è più insegnamento della Religione e, soprattutto, non è Religione “cattolica” cioè “universale”, segno di inclusione e convivenza tra diversi, ma diventa il perpetuarsi di strutture di potere che sono inconciliabili con la vita, quella vera delle persone vere: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore” (Gaudium et Spes 1).

Guarda il video Progetto di Educazione al genere: “Diversità è bellezza”.

Se la storia non insegna, la memoria ci condanna.

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25 aprile 2016

Fotosintesi

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Fotosintesidal greco  φώτο- [foto-], “luce”, e σύνθεσις [synthesis], “costruzione, assemblaggio”. Esiste una fotosintesi “umana”. L’ho scoperto ieri, durante una passeggiata post scuola al foro italico.

Che Palermo sia una città di eccessi in continua contraddizione, si sa. Lo sa chi la visita, da turista, per pochi giorni. I turisti lo capiscono con più chiarezza degli abitanti stanziali, perché l’essere di passaggio apre lo sguardo ad una sapienza intensa, si é tutti protesi a conoscere e capire nel minor tempo possibile e con la massima intensità.

Gli occhi di chi vive a Palermo si abituano fin dall’infanzia e reggere gli sbalzi repentini tra le tenebre e la luce. La luce negli occhi e il buio nel cuore.

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Al foro italico la luce abbaglia. C’è il mare. C’è il vento. Ci sono gli aquiloni che tremano tesi e bimbi che sgambettano instabili su gambe vergini di passi. Ci sono gli innamorati sull’erba e i podisti di ogni età alla ricerca di muscoli e salute. Ci sono gli adolescenti che sui motorini truccati della Kalsa vengono a fumare all’aria aperta, sperando che la vita sia meno tossica in riva al mare. Ci sono le donne extracomunitarie con gli abiti colorati e uomini dalla pelle scura che vendono i flaconcini per le bolle di sapone.

A passare in mezzo alla gente, con lo sguardo fisso alle gru dei cantieri navali, si raccolgono parole, come una mietitura.  E mentre un giovane che sembra Gesù, avvolto nel foulard della sua ragazza per proteggersi dal vento arpeggia un giro di Do, ogni frammento di conversazione sembra possedere un senso compiuto.

E’ un tacito scambio, un prendere, dare e trasformare. Come in una fotosintesi la luce innesca i processi, perché è la luce la più grande risorsa di questa città che sopravvive incredibilmente, di giorno in giorno, sotto il torchio costante di tenebre fitte fitte.

Così, le ultime parole ascoltate, come titoli di coda, pronunciate da un’adolescente dai capelli rossi, sembrano con precisione chirurgica andare a fondo nella ferita: “No, tu un c’ha cririri mai a chiddu ca ti diciunu l’autri. Tu, c’hai a esseri tu, cu l’occhi toi, tu”.

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Donne

Maria Maddalena vicina al Sepolcro, di Gian Girolamo Savoldo (XVI secolo)

Maria di Magdala, Gian Girolamo Savoldo, XVI sec. d. C

“Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti….” (Lc 24,22)

Christos anesti, amiche, amici!

 

Non perdere il mondo

 

© 2015 Stephania Dapolla

© 2015 Stephania Dapolla

 

Ci vuole un alambicco
per passare
da amore ad amore,
per cambiare colore
e non perdere il mondo,
ripetere passaggi
d’anima, morire
di trasformazione.

– Antonella Kubler

P.S: Grazie Alberto.

 

Scusa, Malala

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Malala, la conoscono tutti. Non è neppure necessario specificarne il cognome. La conoscono i capi di stato, le autorità religiose di tutto il mondo, la conoscono gli economisti, gli stilisti, i talebani e gli equilibristi, tutti. Tranne i miei alunni.
Questa è stata la prima amara scoperta di una mattina trascorsa al cinema con un centinaio di ragazzi fra i 14 e i 16 anni, più o meno. Fra questi, ne sono certa, vi era certamente qualcuno a conoscenza della storia di Malala. Così come, non ho dubbi, nella massa ci sarà stato qualcuno interessato e attento alla visione del documentario che riguardava la giovane pakistana, premio nobel per la pace.

La massa. Si. Oggi ho avuto proprio la lucida consapevolezza di come, nella “massa”, si nascondano molte delle radici velenose del nostro tempo. E’ bastato che si abbassassero le luci in sala per dare il via all’improvviso e impunemente ad una specie di delirio che mai e poi mai si sarebbe potuto scatenare in piena luce, a viso scoperto: urla, fischi, versi di animali e rutti, perché senza rutto, si sa, il delirio mancherebbe proprio di carattere.

In realtà, in sala, buio buio non si è fatto mai. Gli schermi dei cellulari non hanno smesso, a cicli alterni, di illuminare i volti distratti. “Li riporranno via” – pensavo io – mettendo mano alle scorte di ingenuità che ancora, evidentemente, conservo, ahimè, da qualche parte. Ma quando mai! Così, se alzavo lo sguardo vedevo sul grande schermo la sala operatoria nella quale una ragazza a cui avevano sparato in testa perché voleva andare a scuola, lottava tra la vita e la morte e se, invece, abbassavo lo sguardo vedevo decine di piccoli schermi in mano a ragazzi che a scuola ci vengono per forza e che le vite le conquistano, si, ma  per superare i livelli di Crash saga.

C’è da dire che a giocare coi cellulari sono molto abili, comunque. Ogni tanto, infatti, lo sguardo lo alzavano, senza perdere la partita, giusto il tempo per fare qualche battuta sui talebani e sulle donne pakistane con il capo coperto dall’hijab. Così, tanto per sfoggiare il repertorio di luoghi comuni che evidentemente ascoltano e imparano guardando la tv.

Dall’intervallo sono rientrati con bidoni di 50 lt, pieni di cibo. Si è scatenato l’inferno, ovviamente. Neppure il sangue di Malala sul furgone della scuola e sull’asfalto ha attutito il lancio di pop corn e l’urlo di vittoria per aver centrato il compagno. Ma l’apice è stato raggiunto quando, passeggiando per la sala e cercando di capire perché fossi costretta a comportarmi da carabiniere pur essendo un’insegnante, ho sentito un ragazzino dire ad un compagno: “Oh, se non mi dai una patatina ti sparo in testa come a quella”.  Così ha detto: “Ti sparo in testa come a quella”.

Allora, all’improvviso mi sono resa conto di una distinzione fondamentale: nella vita si può lottare per superare le difficoltà oppure, le difficoltà, si possono eludere, fuggire con l’inganno. E ho percepito con tremore e turbamento il pericolo che le scelte educative e di formazione si pieghino, si appiattiscano proprio sull’inganno.

I ragazzi che frequentano la mia scuola di problemi concreti ne hanno moltissimi. Fra loro c’è chi abita in quartieri difficili di periferia, in una città che, pure al centro, di dolore da smaltire ne porta addosso troppo. Spesso i genitori sono disoccupati, il livello di cultura è basso, gli strumenti per capire a fondo il proprio disagio, praticamente nulli. Non conoscono i loro diritti e ciò che gli spetta lo arraffano come un furto non riuscendo così a percepire le responsabilità.

Ma qui, nella parte “fortunata” del mondo, a differenza che in Pakistan o in Siria o in Africa, noi mettiamo i giovani davanti ai programmi Mediaset e compriamo loro gli smartphone. Gli diamo da mangiare, da bere Redbull e insegniamo che a riuscire nella vita sono i furbi. Non è un insegnamento diretto, ma è quello che passa dai fatti, dagli esempi, dai comportamenti e che è tanto tanto tanto più incisivo di una lezione frontale sui diritti umani o della visione di un documentario, non adeguatamente e a lungo preparata, sulla storia di Malala, data così in pasto al mostro dell’incomprensione, della superficialità, della paura nei confronti della diversità, del rifiuto della sofferenza.

Una cosa, però, non l’ho proprio capita. Mentre li vedevo ridere, ascoltare i messaggi vocali come se fossero seduti sul divano di casa, parlare ad alta voce come se non esistesse nessun altro, mi dicevo: “Ok, non hanno gli strumenti culturali necessari per comprendere questa storia. Ma…il sangue non è sangue per tutti? La sofferenza, la paura, non sono forse sentimenti comuni tra gli esseri umani? Come si può non lasciarsi “avvicinare”, “toccare”? Fosse solo per il tempo di un film?

Ma poi una collega mi ha detto: “Di cosa ti stupisci, Giulia. Basta leggere i commenti a seguito di articoli che raccontano dei naufragi nei nostri mari, per rendersi conto di quanto siano abbondanti i frutti della resa culturale nel nostro Paese”.

La beffa è che io questo lavoro proprio non lo volevo fare…Ma non posso non interrogarmi spietatamente a riguardo: se la scuola non riesce ad insegnare che il sangue è sangue di tutti e che il dolore così come la gioia di un uomo e di una donna, tutti ci riguarda e tutti ci trasforma, se non siamo in grado di far percepire la realtà, nella sua complessità e ricchezza, se non ci assumiamo l’impegno e la fatica di scelte coraggiose, se pieghiamo la schiena sotto i colpi di riforme della scuola a scopi economico-aziendali, se non sappiamo trasmettere lo sdegno per ogni diritto negato, se non aiutiamo a smascherare le ideologie alla radice, se i ragazzi non ci sentono denunciare ad alta voce le trame di ogni palazzo, ma davvero…che senso ha?! Se non si trova la voglia, il modo di agire su tutto questo, siamo una scuola già morta, senza bisogno dell’irruzione di talebani armati.

Seminare sul cemento armato

Due anni fa ero “giovine”, insegnavo a Roma e avevo i capelli blu. Ma la giornata della memoria allora, come ora, è sempre una lotta contro il cemento armato: Seminare sul cemento armato

Equilibrio

(Alicja Brodowicz)

(Alicja Brodowicz)

RESISTENZA: dal verbo “resistere”, composto della particella RE addietro, che conferisce idea di opposizione e SISTERE fermarsi, formato dall’addoppiamento della radice di STA-RE star fermo, star saldo. Non cedere all’urto, alla spinta di altri corpi.

RESA: dal verbo “arrendersi”, nel senso di “dare in mano”.  Inflettersi agevolmente per ogni verso, senza spezzarsi.

Non il contrario

 

(Opera di Neil Moore)

(Opera di Neil Moore)

A me non piace il capodanno.

“Fine” e “inizio”, son troppo vicini. 

Un solo secondo non è sufficiente a reggere il passaggio.

Forse per questo sentiamo il bisogno di stordirci con botti, musica e champagne. Speriamo che ci aiutino a sopportare lo strappo da quanto non sempre siamo pronti a lasciare, cerchiamo di nascondere lo sgomento per i 365 giorni che si presentano a noi del tutto sconosciuti e imprevedibili.

La malinconia si accentua,  l’allegrezza diventa ubriacatura.

L’altra sera per strada ho visto una mamma ed un bambino  molto piccolo che camminavano tenendosi per mano. Si sono avvicinati ad un signore anziano che aspettava di spalle, per strada. La donna ha toccato appena la spalla dell’anziano signore il quale girandosi e vedendo il bambino ha esultato di gioia! Il suo volto appesantito dall’età e dalla fatica si è trasformato in una festa di luce negli occhi e linee morbide di sorrisi. Poi si è piegato per baciare il bambino. Lo ha ha fatto con sforzo e dolore, giù giù fino al volto del bimbo per dargli un bacio, per fargli una carezza. 

Quello è stato il mio capodanno. 

In quei gesti ho trovato la lentezza del passaggio necessario al cambiamento, la fatica, la gioia. È il vecchio che si piega davanti al nuovo. Non il contrario. È il nuovo che giudica l’antico. Non il contrario.

Esistono processi inarrestabili. Ogni metamorfosi che inizia, giungerà al suo compimento.

Auguri bella gente.