MAdRi è un laboratorio creativo sulla maternità. Anzi no, MAdRI è un laboratorio creativo sulla nascita. Anzi no, MAdRi è un laboratorio creativo sulla nascita, sulla maternità e sul valore dell’esperienza.
Ieri pomeriggio MadRI si è svolto a Palermo, presso la sede di Di.A.Ri.A (http://www.diariapalermo.org/), un’associazione d’Arte, Ricerca e Azione in collaborazione con il “Piccolo teatro patafisico” (http://www.piccoloteatropatafisico.it/)
Il laboratorio è stato condotto da Gina Bruno, una giovane donna, molto dolce e molto brava che fin dai primi minuti è riuscita a placare il tumulto degli ultimi dubbi che mi portavo dentro riguardo alla mia presenza lì.
Attorno alla maternità ruotano una costellazione di luoghi comuni, falsi miti, stereotipi e aspettative in parte deluse e in parte, poi, ampiamente superate. La verità è che l’esperienza ad essa legata è un esperienza senza eguali, che non si ripropone simile a se stessa qualora la si vivesse più di una volta, che somiglia a quelle di altre donne solo in piccoli pezzettini di storia e che è strettamente legata a tutta la vita della donna che si trova a farne esperienza, a partire dalla sua propria nascita.
E’ strano trovarsi a riflettere tanto intensamente su un evento che per ciascuno di noi è privo di memoria personale. Tutti veniamo a contatto con la nostra nascita soltanto attraverso una memoria mediata, quella dei genitori, di nonne, di zii o sorelle e fratelli maggiori. Eppure quel che MAdRI permette di scoprire è che gli eventi della propria nascita si portano impressi nel corpo in modo indelebile, una chiave interpretativa per comprendere chi siamo e di cosa è fatto il nostro mondo interiore.
La cosa bella è che non è apparentemente accaduto nulla di particolare per riuscire a capire tutto questo, se non il farci narratrici delle nostre storie. Gina è stata molto brava a creare un’atmosfera serena e di grande libertà, poi, ciascuna con la propria esperienza si è messa prima in ascolto e poi in gioco per condividere con le altre la storia di nascita e maternità. Abbiamo lavorato con le mani, abbiamo scritto, abbiamo cantato, abbiamo raccontato. Le esperienze di parto completamente positive sono poche, ed è bello ascoltarle: sono armoniche, fanno bene al cuore. Poi ci sono quelle che “nonostante tutto è stato una bella esperienza” e poi ci sono quelle drammatiche, da capire, elaborare, accettare. Per tutte esiste però una costante: l’ospedalizzazione della gravidanza lascia dietro di sé piccole o grandi ferite tutte da rimarginare. Certo, l’ospedale ha salvato e salva molte vite, non è questo il punto. Semmai quel che chiedono le donne è che gli ambienti, le condizioni, il personale, la degenza siano adatti ad uno degli eventi più straordinari e delicati della loro vita.
A me ha fatto impressione ascoltare le storie delle donne presenti: i loro racconti e le loro lacrime mi risuonavano nella pancia e nel cuore e mi è parso insostenibile il pensiero che quelle piccole grandi ferite date dal venire “assistite” senza essere spesso realmente guardate, dalla solitudine, dalle luci sparate in faccia, da una posizione innaturale, dalla difficoltà di restare a contatto con il proprio corpo in mezzo a confusione, rumori, tensioni, fossero da moltiplicare per un numero veramente enorme di donne.
E’ stato molto emozionante sentire tutta la fatica nelle loro parole che uscivano a volte fluide e abbondanti come le acque che si rompono al tempo opportuno, a volte lente e sofferte come contrazioni dolorose. Ed è stato emozionante sentire che anche per me era così, lo stesso seppur diverso, ma ugualmente intenso.
La vita e la morte in atto nello stesso momento che rendono il corpo estremo e potente,
i sogni e le aspettative che si incontrano con la realtà e che sono costretti a mutare, spesso bruscamente, per stare a passo con la vita che certe volte capita proprio come vuole, senza riguardo per nessuno.
Le donne possiedono davvero una straordinaria capacità di fare rete, di creare attorno a se stesse e alle altre una sorta di protezione dentro alla quale l’altra può esprimersi con tutta la forza della propria originalità. Ma è una capacità che va riconquistata con piccole ed audaci azioni coraggiose. Si dovrebbe di nuovo uscire dalle proprie case, come in passato, per ritrovare spazi comuni di condivisione delle esperienze, di trasmissione di quella sapienza che il corpo possiede e sa donare, luoghi nei quali si possa mettere in campo la propria vita per quanto sofferta e bizzarra che sia, luoghi nei quali si possa esistere senza l’angoscia di cosa non si può o non si deve essere.
Se potete portare MAdRI nelle vostre città, fatelo. E’ un’esperienza forte e delicata grazie alla quale vengono alla luce molte e fondamentali cose, si gode del conforto che viene dalla comprensione e dall’ascolto e ci si spinge a sognare quel che il corpo sa e desidera molto oltre i modelli che portiamo addosso. MAdRI è come un viaggio, che ha assoluta e piena legittimità d’essere compiuto.
Caro bruciatore di Palme,
Come ti senti? Hai lavato bene le tue mani? O ancora puzzano di fumo e ignoranza? Ha un odore indelebile l’ignoranza, vero? E pure la violenza, sai? Puoi lavarti quanto vuoi, scusa se te lo dico, ma puzzerai a lungo. Pensa che la tua puzza, da Milano, arriva forte e chiaro anche qui, a Palermo, dove le Palme le abbiamo sempre davanti agli occhi e ci piacciono, pure.
Anche noi diamo fuoco agli alberi, non ti credere, in modo criminale, ma meno ideologico del tuo. La nostra è la disperazione che viene dall’ignoranza profonda e dalla povertà culturale e morale. Tu, invece, hai bruciato la Palma perché non puoi bruciare le persone, quelle che consideri inferiori a te, quelle che vuoi rimandare “a casa”, quelle da cui ti senti minacciato. Io vorrei tanto dirti una cosa: mi fai pena. Mi fanno pena le tue mani che hanno appiccato il fuoco, mi fa pena il tuo cuore e mi fa pena il tuo cervello, mangiato dai tarli dell’odio.
Per la verità mi faresti pure rabbia. Ma la rabbia non è un buon sentimento da alimentare, corrode la vita, offusca il giudizio e crea tensione nei muscoli. La rabbia non è desiderio di giustizia, è un modo per sfogare le proprie frustrazioni per tutti quei fallimenti che non si riescono ad accettare.
Ecco cosa sei per me, bruciatore di Palme, sei un fallito. Non è che io abbia qualcosa contro i fallimenti, chi è che non fallisce, mancando l’obiettivo una, dieci, cento, mille volte nella vita! Però, se invece di dire: “Ho fallito e fa malissimo”, dico che la colpa è degli altri, che le responsabilità sono fuori di me, che il nemico sta altrove, ovunque, perfino in una Palma, allora oltre che falliti si è pure codardi. E la paura crea fantasmi mostruosi. Hai agito nel buio, ti sei mosso in modo anonimo, senza prenderti la responsabilità dell’odio che porti addosso. Cosa volevi dimostrare? Sei “contro” che cosa? Odi esattamente chi? Te lo dico io, tu odi te stesso. Ed è una brutta, bruttissima cosa.
Bruciatore di Palme, ti do un consiglio: impara a volerti bene. Te lo scrivo, perché se fossimo di presenza, uno di fronte all’altra, tu non ascolteresti una sola parola di quanto vorrei dirti, no. Piuttosto mi insulteresti, spostando il focus del discorso su un altro piano. Mi prenderesti in giro perché sono o troppo alta, o troppo magra, o troppo bassa, o vestita di rosso invece che di blu. Oppure faresti un commento sessista, volgare, inutile. Non è così che funziona? E io potrei venire da te e dagli amici tuoi che manifestano in piazza Duomo o dai giornalisti criminali che nutrono la vostra perversione, mostrandoti dati alla mano che non esiste nessuna invasione straniera, che l’emergenza è prima di ogni cosa umanitaria e poi politica. Potrei raccontarti le singole storie di cui sono a conoscenza e, da cristiana, potrei pure parlarti di quanta mitezza può esserci nell’islàm. Ma a te non importa la realtà dei fatti e la forza delle esperienze, a te importa gestire in qualche modo le tue paure e le tue frustrazioni, avere un nemico, covare rancore, trovare consenso fra i tuoi simili.
Sai quanto è dura non ripagarti con la stessa moneta?
Anche se oggi mi viene un po’ difficile ammetterlo, io e te apparteniamo alla stessa razza umana, dunque vuol dire che devo stare attenta e vigilare su me stessa, perché potenzialmente potrei trasformarmi anch’io, un giorno, in un bruciatore di Palme. E siccome – non restarci male – io proprio non voglio essere come te, invece di augurarti di prendere tu fuoco la prossima volta, ti auguro che nella vita ti accada qualcosa di talmente ma talmente vero, da disintegrare tutta la menzogna di cui ti nutri. Sarà terribile in quel momento vederti “nudo”, sentirti consapevole di tutta la ferocia intrinseca al tuo gesto e di tutta la volgarità della tua ideologia, ammesso che tu ne abbia una di ideologia. Spero che la vita ti scoppi attorno e dentro così copiosa che il pensiero di aver bruciato una creatura vivente incapace di autodifesa possa tormentarti il sonno ogni notte.
Ah, comunque, per concludere, quella che hai bruciato si chiama Trachicarpus excelsa ed è l’unica palma che resiste al freddo; è presente nei giardini storici di Milano e la zona dei tuoi laghi ne è piena fino alla Svizzera, di tropicale quella pianta non ha nulla, cretino.
Venerdì 10 febbraio resterà per me una data da ricordare.
Importante perché ho visto e sperimentato in prima persona il circolo virtuoso che passione, amicizia, studio, consapevolezza riescono a creare.
Il mio personale e crescente interesse per il Medio Oriente e il mondo arabo mi ha fatto incontrare tempo fa una donna, Marta Bellingreri, che di quella porzione di mondo si occupa con grande impegno e passione. Marta mi ha invitata alla presentazione di un libro, “Rivoluzioni violate”, io ho letto il libro e, a mia volta, ho invitato altri amici che insieme a me hanno partecipato all’evento, acquistando il testo, e con i quali è continuato lo scambio di impressioni, idee, emozioni.
Con le persone che ho lì conosciuto si sono creati nuovi contatti in vista di possibili incontri di formazione e informazione da realizzare a scuola: è la speranza che questa rete di conoscenza, passione e solidarietà possa avere lunga vita attraverso i ragazzi. Per questo motivo affido oggi le pagine di Eufemia alla voce di una delle persone che con me da un po’ di tempo condivide interesse, tensione e preoccupazione per quelle rivoluzioni del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale che interpellano da vicino la nostra coscienza di cittadini liberi e nelle quali tutti dovremmo aver contezza d’essere personalmente coinvolti.
E’ il punto di vista di chi, pur appartenendo ad una generazione diversa dalla mia, forse più disincantata, ma più consapevole, resta però sempre lucidamente in ascolto, curioso, disposto a partecipare ai processi di cambiamento necessari al compimento della giustizia.
Giulia Lo Porto
Da sinistra: Cecilia Dalla Negra, Fouad Roueiha e Debora Del Pistoia.
Rivoluzioni Violate è il titolo del libro presentato ieri al circolo Arci Porco Rosso a Palermo, nel cuore del centro storico, in un locale che per dimensioni e arredamento ricorda luoghi movimentisti degli anni settanta e ottanta, ma rispetto a quelli (e a quel periodo) con una differenza notevole di frequentazione: per varietà delle fasce di età rappresentate e per varietà di provenienza etnica e culturale e di colore della pelle.
Gli interventi di tre degli autori dei diversi saggi contenuti, sono stati centrati intanto sulla scelta del titolo: come fa una rivoluzione ad essere “violata”? Che significa? La domanda viene ovviamente dalla considerazione che tutti i paesi del nord-africa e gran parte del medio oriente sono sono stati attraversati quasi contemporaneamente da movimenti popolari e studenteschi centrati sulle stesse istanze: diritti civili ,rispetto delle minoranze, diritti della donna, libertà intellettuale. Praticamente dappertutto assistiamo oggi ad una marcia indietro rispetto alle aperture e ai cambiamenti che questi movimenti erano stati capaci di provocare, con conseguenze assai drammatiche culminanti con la situazione della Siria.
I tre, Cecilia Dalla Negra, Debora Del Pistoia e Fouad Roueiha, hanno esposto la situazione delle aree di rispettivo interesse: Palestina, Tunisia, Siria. Non voglio qui riportare quanto detto, produrrei solamente una insignificante sintesi, invito eventualmente a comprare il libro, ne vale la pena. Voglio dire invece quali sono state le mie impressioni.
Grande competenza ed esperienza da parte dei relatori, i quali, usando una lingua italiana assai corretta ed elegante, scansando la tentazione del forbito e del dotto, hanno esposto con precisione l’esperienza compiuta in quei paesi e i pensieri e le deduzioni cui erano giunti. Mi ha colpito questa modalità comunicativa e credo di non essere stato il solo, dal momento che l’incontro ha sforato le due ore conservando intatti l’attenzione e l’interesse di tutti pur trovandoci in un luogo dove a quelle sopraggiunte ore il costume dei presenti è usualmente “da pub”.
Ho capito poi che la complessità delle situazioni sul campo, quella siriana in testa, sono così complesse da rendere veramente difficile dire di “avere le idee chiare” , figuriamoci di poter prevedere qualche sviluppo sia pure in tempi brevi. Ho compreso infine, ma questo già lo sospettavo e farei meglio quindi a dire “ho avuto la conferma” della inadeguatezza dei mezzi di informazione sia a video che a stampa nel descrivere i vari accadimenti: succede che la pratica professionale del giornalismo, quella stessa almeno in parte responsabile dell’affermarsi della cosiddetta “post-verità”, ha costantemente semplificato sino alla banalizzazione la descrizione dei diversi accadimenti e processi, preferendo “pompare” su Isis e la cosiddetta “Guerra Mondiale” tra i paesi a cultura occidentale e quelli a cultura islamica. Preferendo, ancora, adottare tecniche di marketing basate su richiami pseudopornografici piuttosto che rischiare di perdere un lettore non disponibile alla complessità e preferendo posizionarsi ideologicamente su un terreno politicamente neutro e sicuro in quanto realmente lontano e indifferente agli attori veri sul campo. Scelta a dir poco irresponsabile e vigliacca.
Rilancio, per concludere, quanto detto da Fouad Roueiha: “Non è tanto importante quanto vi potrò raccontare io oggi, meglio sarebbe che ognuno di noi si facesse raccontare le storie personali e familiari da i diversi rifugiati che incontriamo nelle nostre città”.
Ha per capelli fili di seta.
Quando ride di cuore porta la testa indietro ed apre la bocca. E la sua bocca canta una musica che non è suonata altrove nel mondo. Gliela si vede pure negli occhi, appena chiusi, che scintillano come riflessi di sole su un lago di montagna.
In estate diventa scura al primo sole, come me. E come la sua mamma. In acqua sembra sorella dei pesci piccoli e d’argento e nuota senza paura nel mare aperto. E’ temeraria con impeto di donna, è curiosa ed è testarda ben oltre i limiti consentiti ai suoi nove anni.
Ho saputo che stava arrivando il giorno del mio compleanno ed ho vissuto da allora un tempo gravido di attesa, guardando mia sorella gonfiarsi come vela lungo mille giorni di vento. E’ nata al primo giorno del mese corto, appena dopo l’ora più buia della notte. Aveva in testa una selva scura, i capelli dritti e sottili come le betulle dei boschi fitti e nel volto i tratti del padre.
A placarle il pianto riusciva solo una vecchia serenata cantata nel dialetto antico e intonata da me. Ed è cresciuta così, sentendo su di lei parole d’amore e versi di giovinezza e promesse di primavera. E’ rimasta muta il tempo minimo consentito, cominciando con voce di infante a chiedere ragione delle assenze e della morte.
Non ha misure di mezzo: vuole tutto, chiede tutto e, secondo me, patisce tutto, anche quando sembra non rispettare i confini e disubbidisce con la rabbia dell’adolescente che sarà. Ma la notte torna la bambina che ancora è, nove anni, tutte le dita tranne un mignolo, ancora per poco la sua legittima assenza di pienezza.
Per lei, bambina di un’età tutta imperfetta e acerba, vorrei di contro la perfezione del mondo e la mitezza del cuore degli uomini. Invece è feroce la vita che l’attende. Che per lei non sia come è oggi per il mondo e che nessuno le costruisca attorno muri oltre i quali non dover andare, che mai debba imparare il suono di sirene di guerra o conoscere la ferocia della fame. Che non si abitui a veder il male e che da nessuna delle persone che ama debba mai udire parole di censura per quel che è, per quel che desidera, per quel che cerca.
E con quegli occhi di fata che la natura le ha dato in dono, un po’ simili alla madre, un po’ capolavoro inedito, chieda e ottenga soltanto il bene. Che siano un dono da condividere lietamente e mai un’arma che possa addolorare.
Che insieme alla sofferenza inevitabile che la vita riserva possa trovare sollievo, conforto e difesa da tutti i mali che devastano il giardino più segreto del cuore.
Che sia felice d’esser femmina anche in tutto quel che di complesso ci è toccato in sorte, ma che sia fiera fino alla superbia contro ogni sottomissione; abbia rispetto dei giusti e disprezzo per il potere violento delle gerarchie e che non conosca pena o gioia altrui che non senta come pena o gioia propria.
Che lasci libero l’amore d’essere imperfetto e si conceda mille imperdonabili errori, che resti sempre acerba una parte della sua pienezza perché da oggi a sempre possa attendere l’estate e aver fame di frutti nuovi.
Racconta di essere nata durante una bufera di neve, il 30 dicembre 1946 al North Side di Chicago e di aver visto la luce già pronta a richiudere gli occhi per sempre, a causa di una broncopolmonite e di un corpicino troppo magro e fragile. La salvò il padre, tenendola sospesa su una tinozza fumante. Nacque due volte, Patti Smith.
Oggi, 30 dicembre 2016, compie 70 anni, uno in più di mia madre, nata 355 giorni dopo, dove la neve in Sicilia cadeva ancora copiosa, allora.
Mi impressiona questa vicinanza di età e di neve fra Patti e mia madre, anche se le loro vite si sono svolte in modo assai diverso. Credo che dipenda dal riconoscere a Patti Smith un ruolo ri-generante per me, uno di quei parti misteriosi che solo l’arte può compiere fra persone lontane per generazione, ubicazione o secoli di distanza.
Brani come Because The Night o People Have The Power si impara a riconoscerli naturalmente, così come accade con Jiingle Bells o l’Inno nazionale. Poi, crescendo e avendo accesso allo sconfinato mondo del web, ho cominciato ad imbattermi in Patti Smith sempre più spesso. Ero incuriosita dai suoi capelli bianchi, gli occhi luccicanti e il più totale distacco da ogni modello estetico femminile, sempre diverso, ma continuamente imposto lungo i decenni che ha attraversato.
Ho cominciato ad ascoltare le sue canzoni, a tradurle e a cercarmi fra le righe o ad utilizzare le sue parole come tracce di vita buona per orientarmi nella comprensione del mondo.
Ma il vero incontro è avvenuto nella narrazione che fa di se stessa nelle pagine di Just Kids, un libro che, per me almeno, è una miscela esplosiva fatta di racconti e ricordi, musica, arte, relazioni, Brooklyn, amori ed anni ’70.
Patti Smith
Patti Smith capì di voler essere un’artista quando era ancora molto piccola, sulle sponde del fiume Prairie, lo capì osservando un cigno alzarsi in volo:
La vista del cigno generò in me un’urgenza per la quale non conoscevo parole; un desiderio di parlare del cigno, di dire il suo biancore, dell’esplosività dei suoi movimenti e del suo lento battere d’ali. Il cigno divenne tutt’uno col cielo. Mi sforzai di trovare una parola capace di descrivere la mia percezione dell’animale. Cigno, ripetei, non del tutto soddisfatta, e avvertii una fitta, un singolare struggimento impercettibile ai passanti, a mia madre, agli alberi oppure alle nuvole.
Crescendo non cercò di distrarsi da quell’urgenza per la quale non trovava parole né ignorò la fitta e lo struggimento impercettibile, non disse a stessa di provare qualcosa che non aveva importanza e non si rassegnò a fare la maestra e a sposare un brav’uomo di provincia, così come tutti si aspettavano facesse.
Patti Smith ha una scrittura sobria, senza orpelli e parole di troppo. Utilizza un linguaggio semplice, asciutto. Va dritta al punto e il punto era vivere la vita a modo suo.
Rimase incinta a sedici anni. Ebbe paura, ma fu sapiente e coraggiosa. Decise di aver cura di sé e della sua salute e di star bene per quella bambina che, una volta nata, avrebbe affidato ad una famiglia in grado di occuparsene.
Patti Smith
Col pancione insieme alla sua amica ascoltava Bob Dylan, cantava e frugava nei negozi di abiti usati per cercare cappotti simili a quelli di Oscar Wild. Quattro anni prima, al museo di Philadelphia, la visione del cigno aveva assunto un senso più compiuto nei disegni di Salvator Dalì e nei quadri di Picasso:
Mentre marciavamo giù dalla grande scalinata sono sicura di aver dato l’impressione di essere la stessa di sempre, un’anima in pena di dodici anni tutta braccia e gambe; in segreto però, sentivo d’essermi trasformata, commossa dalla rivelazione che gli esseri umani creano l’arte, che essere un artista voleva dire vedere ciò che gli altri non potevano vedere. Non avevo prove di possedere la stoffa dell’artista, ma bramai di esserlo con tutta me stessa.
Partorì la sua bambina, rimandando al tempo opportuno di attraversare lo strazio per quella separazione e partì alla direzione di New York. Non sapeva dove andare e cosa fare esattamente, sapeva soltanto di dover provare ad essere ciò che voleva essere.
Dormì a Central Park, vicino alla statua del cappellaio matto, ebbe fame, freddo e molti pidocchi, divenne amica dei barboni e di misteriose anime notturne che la presero a cuore dividendo con lei mozziconi di pane e un’infinità di racconti. Mai venne attraversata dal pensiero che quelle condizioni di vita le mostrassero la necessità di abbandonare il suo proposito o di rinnegare la sua intuizione. Stavano per cominciare gli anni’70, tutto sarebbe stato possibile.
Patti Smith
Trovò lavoro come commessa e un giorno, in quel negozio, entrò un ragazzo: “Aveva lampi di luce negli occhi”. Il ragazzo comprò la collanina che lei amava molto e lasciando di stucco se stessa gli disse: “Non darla a nessun’ altra che a me”. Lui sorrise, annuì e rispose: “Non lo farò”. S’incontrarono di nuovo, una notte, per caso, nel parco; aiutò Patti a venir fuori da una brutta situazione e non si separarono mai più. Quel ragazzo era Robert Mapplethorpe.
La vita prende direzioni impensabili grazie agli incontri che facciamo, si potrebbe costruire una mappa dell’esistenza basata sulle deviazioni che gli incontri provocano. Si vedrebbero vie tortuose e grandi rettilinei, scalate impervie di costoni rocciosi e lunghe navigazioni su mari a volte sereni e muti altre burrascosi e cupi.
Patti e Robert divennero intimi senza sforzo e senza bisogno d’esser prudenti. Appena ebbero soldi a sufficienza presero in affitto un appartamento “su un viale alberato, girato l’angolo da Myrtle El e dal quale si poteva raggiungere il Pratt a piedi”. Non aveva importanza che le pareti fossero incrostate di sangue e scarabocchi psicotici e neppure che il forno fosse pieno di rifiuti e siringhe usate. Ripulirono tutto e appesero al muro i loro disegni: malinconici, quelli di Patti, inquieti e deliranti quelli di Robert:
Certi giorni, grigi giorni di pioggia le strade di Brooklyn meritano una fotografia. Radunavamo le nostre matite colorate e disegnavamo come ossessi, figli ferali della notte finché esausti, non ci lasciavamo crollare a letto. Giacevamo l’uno nelle braccia dell’altra, ancora impacciati ma felici, a scambiarci baci mozzafiato durante il sonno. Il ragazzo che avevo conosciuto era schivo, incapace di esprimersi. Adorava essere guidato, essere preso per mano e varcare la soglia di un altro mondo a cuore aperto. Era virile e protettivo, anche se femminile e remissivo. Meticoloso nel modo di vestire e di comportarsi, era capace di un disordine terrificante all’interno delle sue opere. I suoi erano mondi solitari e pericolosi, preannunciavano libertà, estasi e liberazione.
Patti Smith e Sam Shepard al Chelsea Hotel
Si trasferirono al Chelsea Hotel, situato al 222 West della ventitreesima strada, Manhattan, tra la Seven e l’Eight Avenue. Lì oltre agli artisti vicini ad Andy Warhol, soggiornavano Leonard Cohen, Janis Joplin, Bob Dylan e molti altri. Era importante riuscire a mantenere una camera al Chelsea e i due fecero di tutto per riuscirvi.
Patti Smith e Bob Dylan
Patti rimaneva vicina a Robert anche quando piangeva e stava male e agitava le mani contro i demoni e urlava di inquietudine e dolore. Robert incoraggiava Patti a scrivere poesie, le regalò una copia di Ariel di Sylvia Plath e le insegnò ad amare le sue smagliature, segni feroci di una gravidanza precoce, cicatrici indelebili di una innaturale separazione. Seppero allontanarsi ogni volta che stare insieme non costituiva un bene per loro o per la loro arte e seppero tornare insieme, vicini, fratelli, dopo aver attraversato qualunque distanza. Erano necessari l’uno all’altra, senza che vi fosse perversa dipendenza:
L’opera di Robert mi attraeva perché il suo vocabolario visivo era affine al mio vocabolario poetico, nonostante potessimo dare l’impressione di muoverci in direzioni differenti. Robert mi ripeteva sempre: “Nulla è finito finché non lo vedi tu”.
Patti Smith e Robert Mapplethorpe
Si amarono moltissimo, anche quando Robert comprese di essere omosessuale. Si trasformava continuamente, lui, senza mai smettere di essere il ragazzo con il quale andare a Coney Island a far fotografie e a scambiarsi baci di sale e umidità. Patti era sempre contenta di andare, amava il pensiero di poter raggiungere l’oceano con la metropolitana.
L’Oceano. L’ho visto anch’io. Dalla costa opposta a quella di Patti e Robert. Era estate, era un viaggio importante, era l’uomo che mi vuol bene, una Fiesta Diesel grigia e 2000 Km tra Spagna e Portogallo. Fu durante quel viaggio che lessi Just Kids, fu durante quel viaggio che Patti Smith diventò compagna e maestra della mia vita da adulta, quella in cui io sono io, senza che vi sia più a questo alcuna alternativa possibile. Lo sapevo da sempre che prima o poi l’avrei incontrato, l’Oceano. Lo sapevo da quando ho studiato Cristoforo Colombo e letto Moby Dick, da quando sogno di visitare gli Stati Uniti d’America e da quando “il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce”, Sostiene Pereira. Così è proprio lì che gli ho dato appuntamento, sulla costa delle grandi partenze verso il nuovo mondo, sulle spiagge dove Antonio Tabucchi ha immaginato un uomo diventare finalmente se stesso.
– Vila Nova de Gaia, distretto della città di Porto, Portogallo
Indossavo pantaloni lunghi, una maglietta a righe e la felpa. Ma i ragazzi portoghesi, i pochi rimasti sul far della sera, avevano addosso solo il costume e il calore di abbracci e promesse sussurrate al tramonto del sole.
Mi tolsi le scarpe: la sabbia era di granuli grossi e ruvidi e molto, molto fredda appena sotto la superficie. Le onde lunghe mi raggiungevano, sempre, nonostante corressi veloce da una parte all’altra con una strana gioia nel cuore. L’acqua dell’Oceano è gelata e l’odore di alghe, fortissimo. E’ un’acqua scura e profonda e misteriosa. Mi spaventava, ma senza paura, come una magia.
E’ stato un viaggio nel viaggio, quello della lettura e quello alla scoperta dell’estremo occidente d’Europa. Per entrambi stupore e tenerezza, entusiasmo e grande partecipazione. Riempivo il libro di sorrisi disegnati con la matita accanto alle parole che più mi rallegravano il cuore, tra le pagine disegnavo alberi o punti esclamativi e facevo cadere come neve di dicembre a New York, briciole di pane portoghese, mangiato tra una tappa e l’altra, fra molti discorsi, carezze e baci rubati a 130 km/h.
Patti Smith
Da Patti Smith ho imparato la fiducia nelle proprie intuizioni e la disponibilità ad aprirsi alla vita con le sue rotte inattese. Mai avrebbe pensato di diventare una rock star, lo è diventata, ma non per questo ha rinunciato a scrivere poesie, a disegnare, a fotografare “a sentire in corpo la nascita di nuovi progetti”. E’ rimasta disponibile ad intraprendere ogni strada possibile e ad accogliere quel suo mondo interiore “metà garage e metà reame da fiaba”. Ha amato così come il cuore le suggeriva di fare e si è sposata, con un uomo che fu la sua gioia e che la seppe amare, accogliere e capire a sua volta; ha dato alla luce due bambini senza cedere allo stereotipo inverso, quello che vede incompatibile la vita artistica e la vita “normale”. Quando Robert la vide con in braccio sua figlia, la guardò e le disse: “Patti, lei è perfetta”. Si riferiva al piccolo, a lei, a quello che aveva scelto e a quanto Patti aveva fatto.
Patti Smith e Fred “Sonic” Smith
– Patti Smith, seduta al Cafè’ Ino di New York
Non ha potuto fare a meno d’essere se stessa e oggi, a settant’anni, sogna ancora di aprire un caffè sulla spiaggia e ripercorre coraggiosa le vie dei ricordi e degli incontri, seduta al Cafè’ Ino di New York, appartata in un angolo con i suoi quaderni d’appunti, la sua malinconia e la Polaroid. Ha visto morire la maggior parte dei suoi amici, di AIDS, di overdose e di troppa, esagerata vita, impossibile da imparare a vivere tutta, ma rimane dritta davanti al dolore, oggi come allora, guardandolo per quello che è: una realtà misteriosa, terribile e necessaria in modo inspiegabile alla vita:
Patti Smith e Robert Mapplethorpe
Robert morì il 9 marzo 1989 […] Fui sopraffatta da un senso di agitazione e frenesia, quasi che, per via dell’intimità che avevo vissuto con Robert, dovessi condividere la sua nuova avventura, il miracolo della sua morte. Quella sensazione indomabile rimase con me per qualche giorno. Ero sicura di non averla lasciata trasparire, ma forse il mio dolore era più evidente di quanto non credessi, perché mio marito ci mise tutti in macchina; ci dirigemmo a sud. Trovammo un motel sul mare e ci restammo per le festività di Pasqua. Su e giù per la spiaggia deserta, camminavo nel giaccone nero. Tra le sue pieghe grandi e asimmetriche mi sentivo come una principessa o una monaca. Sono sicura che Robert avrebbe apprezzato questa immagine: un cielo bianco, il mare grigio e questo singolare impermeabile nero. Finalmente, al cospetto del mare, dove Dio è dappertutto, riuscii a calmarmi.
Secondo me Patti Smith è bellissima, ora molto più di prima. La sua bellezza si fa beffa di ogni cliché, ma risuona nella sua voce ancora sicura e nello sguardo sempre luminoso.
Si muove con la grazia di chi è passata in mezzo al fuoco, disposta a bruciare pur di non rinunciare alla fedeltà verso se stessa.
Patti Smith
Se potessi prendermi un caffé con lei, le chiederei di raccontarmi dei disegni sui tovaglioli dei bar, della morte del marito, Fred, dei suoi gatti e di quel primo reading di poesie con la voce tremante, che cambiò il suo destino e l’idea che aveva di se stessa. Io le racconterei del mio viaggio, dell’Oceano, della malattia, delle ferite e di tutte le resurrezioni conquistate attimo, dopo attimo, dopo attimo. Con lei vorrei parlare di Dio, di quando decise di non pregare più con le parole che la madre le aveva insegnato, di quando cominciò a comporre lunghe missive a Dio, piene di domande, desiderose di conforto e di confronto. Patti prega per strada, davanti ai sepolcri dei poeti, per la vita disgraziata dei poveri e per le esistenze spezzate dei suoi amici di sempre.
Le racconterei delle soste forzate nel traffico di questa città decadente in mezzo al mare, di April Fool cantata a squarciagola o di Gloria a tutto volume, mentre guardo le travi di legno sdraiata sul letto a pancia in su e penso a quanta fatica costa la fedeltà a se stessi e a quanta misericordia ci vuole per non soccombere.
Le direi che i suoi libri, le sue parole, le sue canzoni sono intrecciate alla mia storia d’amore e le chiederei di recitare per me una delle sue preghiere perché nulla finisca, prima che sia compiuto.
Questa, di seguito, è As the night goes by, Nel trascorrere della notte.
E’ bellissima. Ascoltatela sul far della sera, quando sarete molto innamorati o molto ubriachi, ascoltatela quando sentirete di essere poeti, umani e perduti o santi. Oppure ascoltatela di fronte all’Oceano, il giorno in cui andrete ad incontrarlo.
Pensavo fosse un fotomontaggio all’inizio. Poi ho verificato la notizia, ed era vera: ha nevicato nel deserto del Sahara. Mi è sembrata una cosa bellissima, non solo esteticamente, per l’arancio della sabbia ricoperta di neve bianca e gelata, ma per la rappresentazione plastica di opposti che si conciliano, di cose assai lontane fra loro, eppure insieme.
In fondo, tutti, prima o poi, cerchiamo di mettere assieme, appunto, cose, situazioni, relazioni, sogni che sembrano non poter coesistere. La maggior parte delle volte non ci si riesce, ma quasi mai è un fallimento poiché quel che s’impara lungo il tragitto diviene spesso più prezioso dell’intento ultimo che si portava in cuore.
Portiamo dentro svariate possibilità. Ma quasi mai, ammettiamolo, la realtà si piega a quel che vorremmo. Facciamo sogni, immaginiamo progetti, forziamo noi stessi, cerchiamo di portar gli altri dove vogliamo noi, con i migliori sentimenti possibili, per il raggiungimento di un bene che realmente crediamo la cosa migliore che si possa vivere.
A volte accade di realizzare la visione, molto spesso al prezzo di trasformazioni e compromessi che la rendono diversa dall’archetipo, ma comunque bellissima e molto vera. Altre volte, invece, si diventa rigidi, tanto che ogni cosa si distrugge sotto il peso di tale durezza, sotto il torchio di una ostinazione che inghiotte gli orizzonti e sacrifica l’ossigeno.
Bisogna perdere per vincere in alcuni momenti della vita, pare.
La vita.
In questi giorni mi hanno dato un buon consiglio, mi hanno detto che il miglior modo di realizzare un sogno è preparare le condizioni della sua realizzazione. Dentro di noi, in primo luogo e attorno a noi, anche. E aspettare.
Mi piace questo consiglio, anche se spesso è difficile mettersi in attesa, affidarsi alla vita, fidarsi dell’amore e accettare di non legare se stessi ad un sogno unico, ad un obiettivo solo, ad un sentire specifico che mette gli altri in secondo piano.
Bisogna piantare semi in abbondanza, ovunque, e crescere come i cespugli o come i rami degli alberi, allargarsi, cercar spazio, intersecarsi ad altre piante, creare un giardino.
E non chiudere mai il cuore alla possibilità che accada come ad Ain Sefra, in Algeria.
Forse dentro ciascuno di noi esiste un deserto che aspetta la neve. E ora lo so, può succedere.
Ho rivisto uguali i posti. Ho guardato gli stessi luoghi con occhi nuovi. L’amore rinnova gli organi di tessuti vergini e modifica gli sguardi come fanciulli.
Roma puzza di piscio e povertà davanti ai portoni delle chiese del centro. All’interno bruciano le candale e si consuma l’attesa, la speranza di un esito. L’amore trasforma l’attesa, l’amore partorisce desideri di radici antiche e rami morbidi di germoglio.
A Roma i barboni dormono negli angoli e tormentano la prospettiva, le palpebre si chiudono sulle panchine vegliate dai cani. A Roma s’intrecciano le braccia degli amici, le risa liete nell’umidità della sera, le voci dei bambini. L’amore mescola i drammi e accende la notte di fiato e di segreti.
A Roma piovono ricordi sulle foglie dei platani rossi. Tremano le ombre al perdurar dei sentimenti tutti trasformati, adulti e soli. L’amore fermenta il mosto di antiche raccolte e placa la sete della festa.
A Roma suonano campane di antichi annunci, si accendono le strade di passi novelli. L’amore scioglie i grumi al dolore ed è fertile di semi la terra strappata al pianto.
Per tutto il mese di novembre, a giorni alterni, Eufemia vi terrà compagnia con una piccola personale recensione/narrazione di personaggi, luoghi, canzoni, films, eventi, foto, libri…
In nome della sua passione per la raccolta paziente di “frammenti”, condividerà con i suoi amici e lettori un percorso di passi senza una meta precisa e senza un significato particolare. Solo la partecipazione di quanto, giorno dopo giorno, oltre e al di là dei grandi eventi, fa la nostra storia.
Ogni esperienza può essere raccontata da punti di vista differenti. Eufemia sceglie di raccontarsi attraverso le piccole incursioni che l’arte, nelle sue molteplici forme, fa nel nostro quotidiano plasmando i nostri gusti, i pensieri, le emozioni, la creatività, l’immaginazione.
Vogliamo che la gente conosca la lotta del popolo siriano in modo diverso
Queens of Syriaè un film documentario di Yasmin Fedda. Narra la storia di un gruppo di donne siriana rifugiate in Giordania, coinvolte in progetto teatrale volto a mettere in scena le “Troiane” di Euripide e a raccontare, attraverso la tragedia greca, il dramma contemporaneo della Siria e della sua gente.
Queens of Syria è la narrazione di un’esperienza molto forte, capace di raccontare la guerra di Siria dall’interno, senza far sconti alla drammaticità degli eventi, ma caricandoli di quella speranza che la perseveranza della vita porta con sé. Le parole di Euripide sembrano le più adatte ad esprimere il dolore che abita il cuore dei rifugiati siriani.
Rasha, Suad, Maha, Hanan, Hedaya, e tutte le altre donne coinvolte nel progetto portano in cuore e nel corpo una grande pena: il dolore per i parenti uccisi e seppelliti nelle fosse comuni, lo strazio per la distruzione delle proprie case, lo sgretolarsi della vita quotidiana, l’allontanamento dalla propria terra. Nelle lacrime delle troiane, nel canto del loro dolore, man mano che lo spettacolo viene allestito, preparato, provato, le donne siriane ritrovano se stesse. Nei loro gesti all’inizio maldestri e scomposti e alla fine unanimi e pieni di pathos, lo spettatore osserva la forza che viene fuori dalla condivisione di un progetto comune e dalla complicità che ne segue.
I canali ufficiali, i giornali e i Tg, raccontano la guerra di Siria a partire dagli equilibri politici e dalle strategie di potere messe in campo da Stati Uniti, Russia, Turchia e dallo stesso Bashar Al- Assad. Anche il fenomeno delle migrazioni viene raccontato quasi sempre dando voce alle difficoltà di chi accoglie. Ma la guerra così come i viaggi dei migranti verso l’Europa devono poter essere raccontati dai protagonisti, da chi si ostina nella ricerca della vita fino a rischiarla del tutto. Il teatro, la danza, la narrativa forse non risolvono le guerre e non decidono i confini e le alternanze politiche, forse non fermano le bombe e non danno pane a chi ha fame, eppure il linguaggio dell’arte è l’unico capace di trovare parole diverse e punti di vista realistici strettamente legati al sentire delle persone coinvolte.
Attraverso la musica, la street art, il teatro, la poesia, la rivoluzione del popolo siriano continua a perseverare nella ricerca della libertà. Sono infinite le contraddizioni che caratterizzano questa rivoluzione, molte le sue degenerazioni, ma negli occhi di queste donne impegnate nella realizzazione di uno spettacolo teatrale, divise tra i figli, la paura del regime, il desiderio di riscatto, la gestione del dolore, il desiderio di autodeterminazione si scorge una forma di resistenza che riempie di fiducia: Hanno visto la morte, ma continuano a desiderare l’amore, hanno perso tutto ma continuano a immaginare un futuro, hanno visto violenza e distruzione, ma l’una con l’altra sistemano gli abiti e truccano gli occhi prima di andare in scena. Nella loro gestualità quotidiana e nella disponibilità ad imparare un nuovo linguaggio, quello del teatro, si esprime una forza tenace che tiene in piedi un intero popolo e, forse, anche tutti noi.
Oggi ho ascoltato il giornale radio mentre rientravo a casa. Hanno detto che Holland è andato a visitare il campo di Calais, quello che ospita 10.000 persone e che viene chiamato “Giungla” perché è una prigione di melma e fango, senza servizi igienici, dove impunemente avvengono stupri e ronde xenofobe. Ma…non è vero che Holland “ha visitato Calais”, come titolano i giornali. Ha visitato la città, non il campo ed ha promesso agli abitanti che la “giungla” sarà sgombrata, del tutto, per sempre. Come, però, non lo ha specificato. Ha specificato, di contro, di aver chiesto l’aiuto del Regno Unito: che paghino anche loro per riportare a Calais la civiltà! Ma il Regno Unito non vuole pagare, perché è già totalmente a sue spese la costruzione del muro che impedirà del tutto e per sempre, il passaggio dei migranti.
Poi, sempre al giornale radio, hanno parlato della Siria. Hanno detto che erano “brutte le notizie”, come se sulla Siria avessimo ascoltato altro se non cattive notizie dal 2011 ad oggi. I negoziati tra Russia e Stati Uniti per la ricerca di un accordo, di un cessate il fuoco e di una transizione politica sono compromessi – dicono i russi – “a causa del tono inaccettabile”, usato dagli Stati Uniti nei loro confronti. Ci sono uomini sensibili al Cremlino. E misurano le forze, come fanno le bestie, che segnano il territorio con urina ed escrementi per decidere chi nel branco è il più forte, il capo. E che importa se intanto 2 milioni di persone ad Aleppo sono senza elettricità e senza acqua e se i bambini bevono dalle pozzanghere per porre fine al tormento della sete.
Ancora, è stata data la notizia del dibattito diretto fra Donald Trump e Hilary Clinton. Pare che il confronto avrà un numero di spettatori superiore al Super bowl, ah, gli americani… Trump oggi ha annunciato che farà di Gerusalemme la capitale indivisa di Israele e che la sua sicurezza sarà per gli USA una priorità. E chi aveva dubbi su questo: ingraziarsi i forti e calpestare i deboli, è lo sport più praticato dell’ultimo secolo.
Ah, poi hanno pure detto che il film-documentario di Gianfranco Rosi, “Fuocoammare”, interamente girato a Lampedusa sul tema dei migranti, è il film italiano scelto per concorrere all’Oscar.
Già.
E’ una bella notizia, certo! Però io, che pure in matematica non sono stata mai brava, mi rendo conto che i conti non tornano.
“Fuocoammare” agli Oscar e 10.000 profughi in mezzo al fango di Calais?
Forse il legame tra cultura e società civile è veramente oramai irrimediabilmente compromesso e l’arte, il cinema, la letteratura sono tutte nobili cose, ma ininfluenti, slegate dalla realtà, poiché incapaci di mutare il pensiero, interrogare le coscienze, innescare un cambiamento.
Ma che siamo tutti ottimi attori, è fuor di dubbio. Basta sorridere a favor di camera.
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