In attesa di verità e giustizia

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Ci sono pomeriggi che entrano nello scorrere del tempo sotto forma di agguato. Attaccano alle spalle il senso della realtà. E lo lasciano stordito, privo di punti di riferimento, gironzolarti nella testa come un ubriaco, incapace di reggersi sulle proprie gambe e di camminar dritto e saldo come fino ad un attimo prima.

Il mio pomeriggio sotto forma di agguato è cominciato con un amico e con la sua maglietta rossa. Un motorino sgangherato sotto casa, come non accadeva dai tempi del liceo, e un vento di scirocco capace di ridestare tutte le parole dei racconti di Tomasi di Lampedusa, pazientemente raccolte e custodite nella mente. E così, mentre sul motorino lo scirocco schiaffeggia, viene naturale esclamare, come in Lighea: “in Sicilia, in estate, nevica fuoco!”.

Palermo è affollata, è una città senza vacanza. Molti negozi storici, sono chiusi ma non per ferie. Ci si riposa di crisi e disperazione, anche a Palermo. Io, e il mio amico con la maglietta rossa, attraversiamo la città, imboccando sensi unici in senso inverso e stando ben attenti a non rispettare le regole del codice stradale. Si guida così il motorino a Palermo, ed è proprio una questione di sopravvivenza.

La prima tappa del nostro viaggio urbano è una tappa difficile, impervia, ci si dovrebbe arrivare con strumenti raffinati e forza nelle braccia, come davanti ad una parete rocciosa da scalare. Noi ci arriviamo, invece, magrolini e confusi, dotati soltanto di ricordi, e di un amore tutto ancora da comprendere per qualcuno che ha cambiato il nostro senso della vita, solo dopo morto. Via D’Amelio. La stradina è quasi deserta. Davanti al palazzo poche macchine, e il portiere seduto su uno dei motorini posteggiati “a pigghiari n’anticchia d’aria ca u cauru si mori!“. Giustamente. Ventun anni. E ancora lo stomaco, dalle viscere, riporta in superficie lacrime amare, alla ricerca di un senso possibile. Sotto l’ulivo di via D’Amelio ci si sente vittime e carnefici. Il senso di disagio è profondo. Lo si sente scorrere dentro alle vene insieme al sangue, anzi no. Al posto del sangue. Perchè il sangue sembra quasi una colpa averlo ancora tutto in vena, qui, dove non è stato versato, qui, dove il sangue è morto bruciato. Mi guardo in giro. Cercando di evitare con cura le domande, che pur qui sarebbero ovvie. Ma da questa strada sono state sfrattate, le domande come le risposte.

Ventun anni. E il palazzo ha ancora addosso le impalcature della ristrutturazione. A Palermo le cose si fanno. Con calma, però. Di guarire dalle ferite non abbiamo alcuna fretta. Se non si vive di ferite qui, di cosa si può vivere? Accanto all’ulivo che fruttifica lettere, cappellini, adesivi, spille, bandiere c’è una lapide. Grigia, grande, forte con su scritti i nomi delle vittime. Sulla lapide le foto dei volti rimasti uguali per sempre. Sotto i volti una scritta: “in attesa di verità e giustizia“. E a me è parso di comprenderla, quella scritta, non come un desiderio legato alla sorte di Paolo Borsellino, della sua scorta, di Palermo, di questa Nazione. Mi è parso che ci fosse dentro un grido, più ampio, che appartiene a tutti. Tutti siamo a turno, in attesa di verità e giustizia. Ogni storia lo è. E via D’Amelio è un avamposto di questa attesa, guida la fila, è rappresentante di tutte le attese. Attesa esagerata la sua. Verità e giustizia sono talmente in ritardo da far sorgere il dubbio di essere a turno dal lato sbagliato della vita. Uno sguardo a Montepellegrino, che da lì appare incredibilmente a strapiombo sulla città, e di nuovo in sella.

Posteggiamo il motorino di fronte al teatro Massimo, confidandoci il desiderio di poter prima o poi entrarvi dentro a godere “della cosa che porta avanti il mondo” – dice l’amico dalla maglietta rossa – “la musica“! Sulla piazza qualche turista, le carrozze, le balate che restituiscono moltiplicato il calore ricevuto durante il giorno. Ci incamminiamo, senza direzione, con il solo desiderio di sentirci inghiottiti dalla città antica, dai quartieri popolari, dalla gente che li abita. Così avviene. Il nostro dialogo è continuamente interrotto da numerosissimi: “Talè!“. Il quartiere del Capo è un susseguirsi irreale di bellezza e degrado. Sotto archi antichi probabilmente quanto i normanni, giacciono cumuli di spazzatura. Davanti alle porte delle case anziani che sembrano venuti fuori da “Nuovo cinema Paradiso”, rigorosamente in canottiera bianca attendono una frescura che non arriverà e ci scrutano con occhio indagatore. “Turisti non sono!“. Nelle nostre parole riconoscono il loro accento. I viicoli si infittiscono e a me pare di essere in Marocco. Neppure il tempo di pensarlo che, girato un angolo, mi ritrovo davanti a quello che doveva essere un garage. Davanti alla porta di metallo dipinta di verde una serie di scarpe, una accanto all’altra, e i tappeti sul pavimento mi fanno comprendere di trovarmi davanti ad una moschea. All’interno alcuni uomini dalla pelle scura pregano. Si voltano verso me e il mio amico. Si rivoltano. Gli estranei, i fuori luogo siamo decisamente noi, soltanto uno, un giovane fa al mio amico un segno cordiale di saluto. Incredibile. Qualche metro più avanti delle donne scambiano parole in un dialetto che è fratello di quegli uomini scuri, poco imparentato con la lingua italiana. Chino lo sguardo, e trovo i miei piedi! E decisamente anche loro hanno un colore molto più simile agli uomini scuri che al resto del popolo a cui appartengo. E, mentre continuo a cammianare, penso a chissà quale faccia araba del XII secolo somigliano i miei piedi. Continuiamo la passeggiata. Ad interrompere le nostre confidenze questa volta sono un gruppo di bambini che trafficano attorno ad un bidone di plastica pieno zeppo di gioccatoli “made in china”. Sono tre. Uno biondo con gli occhi scuri, uno scuro con gli occhi chiari, uno charo con gli occhi chiari: Palermo! Ci avviciniamo per complimentarci del tesoro e il bambino scuro con gli occhi chiari ci spiega: “Ormai sugnu granni, un ci iocu chiù cu sti giocattoli, mi i vinnu, vu vuliti accattari unu“? Fantastico! La vendita di quei giocattoli è il segno del suo ingresso nell’adolescenza! Come non accettare l’offerta? Rovistiamo un po’ fino a quando trovo un elefante di gomma, dignitoso souvenir della sua infanzia. 1 euro! Il mio amico dalla maglietta rossa tira fuori i soldi e l’elefante è mio! Il bambino è felice! Lo sono anch’io. Gli chiediamo di far finta di farci lo scontrino nella speranza che un giorno si ricordi di questa richiesta. “Scontrino?” – ha esclamato – sgranando i suoi occhi, bellissimi.

Tagliamo il quartiere del Capo a metà. Ma siamo noi a sentirci attraversati dalla sua vita così intensa. Con un’espressione simile a quella di Alice nel suo paese delle meraviglia ci fermiamo davanti alla targa che segna il nome della strada: via delle sedie volanti: Palermo! Ed ecco una salita, tra balconi settecenteschi, che sbuca a Piazzetta sett’angeli. Arrivati alla piazza, il mio amico sbalordito non può che esclamare: “Ma..ma questo è il culo della Cattedrale!” Esatto. È che culo! É la parte più antica. La più bella, per me. Disegni geometrici ed absidi che conducono lontano. Mi pareva di essere allo stesso tempo dentro a mille tempi diversi. Mi pareva di avere mille corpi diversi, ma dentro ad un corpo solo.

Raccontare Palermo, definirne il carattere, comprendere gli estremi del popolo che la abita è impresa ad alto rischio di banalità. Questo è solo il resoconto di un pomeriggio divenuto un agguato al senso di realtà di chi a Palermo non vive più, di chi ne sente una nostalgia incapace, spesso, di avere pietà. Perchè, in fondo, siamo tutti, davvero, in attesa, di verità e giustizia.

(Disegno di Silvestro Nicolaci)

(Disegno di Silvestro Nicolaci)

Risvegli

Furia.
Moto ondoso e convulso
Nero mare in tempesta
schiuma violenta,
rifiuta l’ipocrito dire,
nome divino su labbra vane.

Piccoli uomini e donne vestiti da giganti
al timone di coscienze
bava di potere, lupi con manto d’agnello
imparate ad usare il cuore
che tenete prigioniero in stiva.

Rinnega te stesso, t’illudi
tu che sei estraneo al tuo corpo
anima abusiva nella carne di Dio.
Imparate ad avere il corpo!
Che tenete prigioniero in stiva.

Per la vostra anima candida
sgozzate
mani d’artiglio tra le viscere
di creature del giorno sesto,
immagine e somiglianza
in frammenti dispersi.

Furia di cuori ribelli
armati di rabbia subita
sangue d’errore e peccato, noi.
Testimoni, servi di Dio
brama d’umiltà, ghigno malvagio.

Furia di cuori ribelli,
passione, fiato
arti bloccati dal fango
miseria
superbia per risalire,
montagne di disperazione
noi, corpo, desiderio che esplode
follia
noi, eccesso e bestemmia.

Furia di cuori ribelli,
grida
urla dal fuoco,
il Nome, Eserciti e Schiere su labbra violate
dalle vostre parole violente.
Collare da schiavo alla gola di Dio.

Pietà
a riempire lo squarcio
dannati ma umani,
nascosti dall’ombra
di voi fantasmi
involucri vuoti.
Noi, raggiunti
da sangue e salvezza.
Voi, angeli dalle piume morte.
Pietà.

Ruoli e relazioni. La mia “risposta” a papa Francesco

 

via @ilpost

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Lo scorso 8 maggio, in occasione dellAssemblea plenaria dell’unione internazionale delle superiore generali, papa Francesco ha tenuto un breve discorso, subito amplificato dai mezzi di comunicazione per la frase rivolta alle religiose: siate madri non zitellehttp://attualita.vatican.va/sala-stampa/bollettino/2013/05/08/news/30952.html

A dire la verità, nonostante il plauso dei mass media e delle stesse religiose presenti, credo ci sia poco da stare allegri. Da donna, battezzata e studiosa di Sacra Scrittura, infatti, l’affermazione di papa Francesco e tutto il suo breve discorso mi hanno suscitato diverse riflessione e non poche perplessità. Ecco le sue parole

E poi la castità come carisma prezioso, che allarga la libertà del dono a Dio e agli altri, con la tenerezza, la misericordia, la vicinanza di Cristo. La castità per il Regno dei Cieli mostra come l’affettività ha il suo posto nella libertà matura e diventa un segno del mondo futuro, per far risplendere sempre il primato di Dio. Ma, per favore, una castità feconda, una castità che genera figli spirituali nella Chiesa. La consacrata è madre, deve essere madre e non zitella! Scusatemi se parlo così, ma è importante questa maternità della vita consacrata, questa fecondità! Questa gioia della fecondità spirituale animi la vostra esistenza; siate madri, come figura di Maria Madre e della Chiesa Madre. Non si può capire Maria senza la sua maternità, non si può capire la Chiesa senza la sua maternità e voi siete icona di Maria e della Chiesa”.

Viene naturale chiedersi il perchè di tale risonanza mediatica. Forse perchè è inusuale che un pontefice si esprima con un linguaggio tanto comune e comprensibile? Comune e comprensibile, appunto. Tutti hanno recepito il messaggio, perchè? Perchè il papa usa due dei clichè più comuni per identificare una donna. Per giorni i giornali hanno riportato la notizia. Non è forse un segno allarmante del riconoscimento unanime e immediato, non riflesso cioè, della donna e dei ruoli sociali che le sono stati attribuiti, o meglio, imposti e dai quali ancora stenta a liberarsi? È palese che se il discorso fosse stato rivolto a dei religiosi uomini il linguaggio sarebbe stato differente, fosse solo perchè la lingua italiana corrente non possiede il maschile di “zitella” (Alcuni vocabolari riportano “zitello” e ne specificano l’uso desueto. Altri, invece, non lo riportano affatto e indicano l’uso di “scapolo”, ma privo del senso dispregiativo).

Certo, il Pontefice è assolutamente in linea con secoli di Tradizione, come negarlo? Ma scorrendo le pagine della Bibbia (prima Fonte alla quale la vita della Chiesa deve attingere, dopo aver imparato ad averne sete) mi pare di non trovare ovvio questo legame tra maternità e femminilità, tra “castità feconda” e primato di Dio e costruzione del Regno. A cominciare dalla maternità “naturale”. Le madri nominate nei vangeli non hanno proprio un rapporto roseo con Gesù: la madre di Giacomo e Giovanni viene rimproverata per la pretesa che i figli siedano alla destra e alla sinistra di Gesù (Cfr. Mt 20,20-23). E Gesù sulla via che lo porta al Golgota non ha parole tenere per le madri che piangono su di lui: “Lo seguiva una gran folla di popolo e di donne che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui. Ma Gesù, voltandosi verso le donne disse: figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete sui vostri figli. Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: Beate le sterili e i grembi che non hanno generato e le mammelle che non hanno allatato (Lc 23,27-29). A proposito di mammelle e di latte materno, Gesù non risparmia neppure sua madre: “In quel tempo, mentre Gesù parlava, una donna dalla folla alzò la voce e gli disse: Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato! Ma egli disse: Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!.

 

La maternità, dunque, non è via privilegiata di vita con Dio, neppure per la vergine Maria. Ciò “senza cui non è possibile capire Maria di Nazareth” non è in primis la sua maternità ma l’ascolto della Parola di Dio: “Mentre egli parlava ancora alla folla, sua madre e i suoi fratelli, stando fuori in disparte, cercavano di parlargli. Qualcuno gli disse: Ecco di fuori tua madre e i tuoi fratelli che vogliono parlarti. Ed egli, rispondendo a chi lo informava, disse: Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre“. Ciò che dona a Maria la possibilità di generare il Figlio di Dio è il suo assenso alla Parola: “mi accada secondo la tua parola (Cfr. Lc 1,38) risponde all’arcangelo Gabriele che le porta l’annuncio. Nè la “maternità di sangue” né quella cosiddetta “spirituale” possono essere considerate vie privilegiate di sequela. La maternità è seconda alla relazione con la Parola.

 

Relazione. Parola chiave per comprendere molte cose nella Bibbia, fra queste anche la presenza delle donne nella vita del Rabbì di Nazareth. Ma chi sono le donne che seguono Gesù? Fiumi di inchiostro e studi magistrali esistono sull’argomento. La mia riflessione si ferma semplicemente ai dati forniti dalla Scrittura. Maria di Magdala, Marta e Maria, Giovanna, Susanna, Maria di Clèofa. Di alcune conosciamo il nome, di poche il nome e la storia, altre compaiono per il breve tempo dell’incontro con Gesù. Le donne raccontate nei vangeli non sono certo esempi di “castità”: la donna che bagna di lacrime i piedi di Gesù e li asciuga con i suoi capelli è una prostituta (Cfr. Lc 7,36-50), da Maria di Magdala il Messia Figlio di Davide scaccia via ben “sette demòni” (Cfr. Lc 8,2), e poi c’è un’ adultera colta in flagranza di reato (Cfr. Gv 8,1ss), una donna resa impura, secondo la cultura del tempo, dalle sue continue emorragie, che crede di poter guarire toccando anche solo un lembo del mantello di Gesù (cfr.9,20-22); c’è la samaritana con la sua vita disastrata, che ella stessa riesce a comprendere soltanto alla luce del dialogo con lui (cfr. Gv 4,1ss).

 

Donne, con le loro storie. Sono storie aperte, che mutano, che cambiano nel corso del loro incontro/legame con Gesù. Il vangelo ci narra di percorsi, di situazioni che si trasformano grazie alla relazione con lui, ad un riconoscimento che è reciproco e che coinvolge il corpo, il cuore, la vita. Le donne lo cercano, lo toccano, lo guardano, gli parlano, lo sfiorano, gli tengono spesso testa, non si lasciano sedurre così facilmente da lui, lo interrogano, lo afferrano, lo sfidano, provocano in lui un cambiamento come accade durante le nozze a Cana di Galilea. Maria esprime a Gesù la sua preoccupazione: “Non hanno più vino”, Gesù risponde: “Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora”, la madre non si lascia scoraggiare e ordina ai servi: “Fate quello che vi dirà”. L’acqua viene cambiata in vino ed è anticipato per Gesù l’inizio dei “segni” (Cfr. Gv 2,1-12). Anche la donna siro-fenicia che con fermezza chiede la guarigione della figlia permette a Gesù di compiere un passo avanti nella consapevolezza della sua missione: “Partito di là, Gesù si diresse verso le parti di Tiro e Sidone. Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quelle regioni, si mise a gridare: Pietà di me, Signore, figlio di Davide. Mia figlia è crudelmente tormentata da un demonio. Ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i discepoli gli si accostarono implorando: Esaudiscila, vedi come ci grida dietro. Ma egli rispose: Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa di Israele. Ma quella venne e si prostrò dinanzi a lui dicendo: Signore, aiutami! Ed egli rispose: Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini. È vero, Signore, disse la donna, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni. Allora Gesù le replicò: Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri. E da quell’istante sua figlia fu guarita” (Mt 15,22-28).

 

 

Il papa nel suo discorso alle religiose afferma: “È Cristo che vi ha chiamate a seguirlo nella vita consacrata e questo significa compiere continuamente un ‘esodo’ da voi stesse per centrare la vostra esistenza su Cristo e sul suo Vangelo, sulla volontà di Dio, spogliandovi dei vostri progetti ”. Quello che Gesù fa con le persone che incontra è praticamente il contrario, almeno in un primo momento. Ogni incontro si gioca sulla scoperta della reciproca identità: “Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia? ” (cfr. Gv 4,29); “Ed ecco una donna, che soffriva d’emorragia da dodici anni, gli si accostò alle spalle e toccò il lembo del suo mantello. Pensava infatti: Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita. Gesù, voltatosi, la vide e disse: Coraggio, figliola, la tua fede ti ha guarita». E in quell’istante la donna guarì” (Cfr. Mt 9,20-22); “Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù. Le disse Gesù: Donna, perché piangi? Chi cerchi?. Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo. Gesù le disse: Maria!. Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: Rabbunì!, che significa: Maestro!” (cfr. Gv 20,14-16). Gesù svela a noi stessi la nostra identità, ed è grazie a tale rivelazione, dentro al processo di questo svelamento, lento, sofferto, personalissimo che noi lo riconosciamo come Signore della nostra vita. Riconoscimento reciproco, nella relazione.

 

Il decentramento da sé, la rinuncia al progetto personale, “lobbedienza allo Spirito autenticata dalla Chiesa attraverso mediazione umana”, come afferma il papa nel medesimo discorso, forse sono dottrine che devono essere ripensate. Per costruire certo, non per distruggere.

 

Per spogliarsi di sé non è necessario capire prima chi si è? E forse la vita dei credenti non è stata in qualche modo privata, nei secoli, di questo passaggio fondamentale dando origine a storpiature e perversioni del vangelo? Non si è fatto abuso dell’insegnamento sul “rinnegamento di sé”?, della “mediazione umana soggetta all’obbedienza” (il termine “obbedienza” è presente soltanto due volte nei vangeli. Gesù la chiede agli elementi naturali e ai demòni. Agli uomini richiede “ascolto” della Parola) a scapito di una coscienza di sé consapevole che, invece, è sempre più smarrita? E che per reazione si irrigidisce su posizioni estreme?

Donne = Madri; Non madri = zitelle. Certo, è un pregiudizio che, ahimè, non appartiene soltanto alla cultura cattolica. Forse sarebbe stato più bello, più forte e vero se il papa avesse detto: “Siate donne, non zitelle”. Sarebbe stato più bello se invece di parlare alle religiose come esponenti di una categoria avesse parlato loro come rappresentanti di una realtà, quella femminile, così ricca e bisognosa di essere riconosciuta nella sua identità, una identità non fatta di ruoli, ma di vita vissuta, di storie, di relazioni, di incontri. Non esiste un modo di essere suore, un modo di essere madri, un modo di essere mogli, un modo di essere donne. Esistono le persone con le loro storie, e se dei tratti comuni ci sono, questi vanno conosciuti per comprendersi, per comprendere, non per leggere la realtà a senso unico. Nel vangelo secondo Matteo, al capitolo 25, si parla delle dieci vergini. Fra queste cinque si comportano da sagge e cinque da stolte. Al di là del linguaggio metaforico, uno stesso status mostra la possibilità di comportamenti diversi,ciò che fa la differenza è la relazione delle singole con lo “Sposo”.

La mia riflessione non vuole essere una critica al Papa né un attentato alla vita religiosa così come la Chiesa da secoli la vive e la custodisce. La mia è semplicemente una riflessione, basata su quanto mi pare di capire dallo studio delle Scritture, e sul desiderio di partecipare in modo consapevole e responsabile alla vita della comunità dei credenti in Gesù. La riflessione teologica sulla vita religiosa è viva, va avanti, si nutre di pensieri nuovi e diversi che piano piano la rinnovano. Ma quello che mi sembrava essere in gioco nell’affermazione del papa supera i confini della vita consacrata. La necessità di ripensare la dimensione femminile nella cultura, nella società, nella vita ecclesiale è tragicamente urgente. E se non lo faremo noi, lo farà la storia, anche senza di noi. Grazie a Dio. Si, lo Spirito soffia dove vuole (Cfr. Gv 3,8).

 

 


 

 

 

 

Colori nell’ombra

Chiaroscuro. Penombra. Sempre ho immaginato così lo spazio interiore nel quale prendono vita le nostre domande. Un gioco di luci ed ombre. Le domande nascono da intuizioni. Da qualcosa che comprendiamo ma non del tutto, frammenti di verità a cui vorremmo dar forma, spesso senza riuscirvi. Sono domande grandi, domande che molti rinunciano a farsi: la vita, la morte, il dolore, il perchè delle cose che siamo, il perchè di ciò che desideriamo, il perchè di quanto non comprendiamo. Di questi tempi poi…la crisi riduce gli orizzonti, dicono. I bisogni primari non sono soddisfatti. Si ha fame. E la fame del corpo divora i bisogni dell’animo. Dicono. Ma per i bambini forse non è così, non ancora. Il loro spazio di penombra è ampio. I bisogni sono tutti primari. Riempire la pancia e sapere perchè sei nato bambino e non cane, sono entrambi istinti in cerca di risposta. Meraviglia. Ho affidato ai miei alunni di prima media uno spazio di silenzio. Una porzione di tempo durante il quale andare a scovare e tirar fuori le domanade alle quali vorrebero abbinare una risposta, quelle che magari hanno timore di fare ai “grandi”. Ho detto loro che potevano chiedere tutto. E mi sono premurata di chiarire loro che non sarei stata in grado di rispondere. Soltanto mi sarei impegnata ad accogliere. Il risultato di questo piccolo esperimento dentro ad una piccola aula di una piccola scuola mi è sembrato avere proporzioni universali, ascoltare, una dopo l’altra le loro domande mi ha dato l’impressione di assistere ad una esplosione di colori che ha del tutto mutato il mio immaginario di chiaroscuro . Le domande sono colori nell’ombra.

Federica: Perchè io sono io?

Martina: C’è il paradiso dopo la morte oppure rimarremo polvere senza anima?

Tommaso: Perchè esiste la natura?

Luca: Perchè non possiamo rispondere alle domande?

Federico: Perchè esiste il mondo?

Leonardo: Perchè dopo aver raggiunto degli obiettivi non si sa più qual è il senso della vita?

Carlotta: Perchè certe volte sembra che Dio non ci assista?

Benedetta: Perchè si vive se poi bisogna morire?

Leyla: Perchè non possiamo vivere senza acqua e cibo?

Chiara: Perchè si sogna?

Davide: Perchè l’universo è infinito?

Leonardo: Perchè tanti uomini si fanno male da soli?

Francesca: Perchè sono nata e certi bambini no?

Lorenzo: Perchè Dio ha creato il mondo e noi?

Jonathan: Perchè non nasciamo tutti intelligenti?

Eleonora: Quando moriamo tutti, cosa succederà?

Filippo: Perchè il destino mi ha fatto fare certe cose?

Camilla: Esiste una vita dopo la morte?

Cristian: Quando moriamo cosa succederà?

Beatrice: Perchè esistono le malattie?

Giulia: Perchè sono uomo e non un animale?

Giacomo: Perchè si muore?

Marco: Perchè esiste la vita?

Simone: Perchè l’uomo cerca sempre la perfezione?

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Fame di parole

In questi giorni è apparso su palermo.repubblica.it un articolo sul nuovo boom di analfabati tra i giovani siciliani http://palermo.repubblica.it/cronaca/2013/05/05/news/il_boom_dei_nuovi_analfabeti_un_ragazzo_su_tre_non_sa_leggere-58085888/ Prendiamo spunto da questa nuova indagine per riproporvi l’ascolto di un racconto/denuncia sulla fame di parole di cui muoiono i bambini di uno dei quartieri più poveri di Palermo: l’Albergheria e su quanti si adoperano per placare questa fame e le sue conseguenze http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/programmi/puntata/ContentItem-813ef6a3-d1b3-47d0-8387-511724bc05c2.html?refresh_ce

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Presenza, silenzio. Omaggio ad Agnese Borsellino.

Ciao Agnese. Scrivere, riflettere, adesso, condividere a poche ore dalla tua morte, è l’idea peggiore che potessi avere. Di parole ne verrano, moltissime, alcune, la maggior parte, sincere e tanto tanto più autorevoli delle mie, alcune di circostanza, di quelle che da viva hai cercato di farti scivolare addosso rendendoti imperbeabile con la vernice lucida e trasparente del silenzio e della discrezione.

La notizia della tua morte ha destato in me profondo senso di solitudine misto a quel sollievo che accompagna l’animo quando le cose si rimettono a posto. Adesso accanto all’uomo che hai amato in vita e che questa vita ha strappato via da te e dai tuoi figli, sei nuovamente a casa. L’ingiustizia, l’assenza violenta di chi amiamo, è ciò che rende l’uomo clandestino in vita, rifugiato, senza patria .

Io non ho nessuna autorità nè competenza per scriverti. L’unica cosa che mi accomuna a te è il sangue. Sangue misto il nostro. Sangue mescolato tra popoli, si sa. Sangue versato. Il sangue nostro, mischiato a quello appiccicato alla strada, quello che macchia l’asfalto e resta lì. Fino a quando non costruiscono una lapide a perpetuo oblio. Sangue misto di vittime e di mafia. Che la prima antimafia noi siciliani la viviamo tra cervello e coscienza, lì dove si annidono le uova velenose di una cultura malata.

Agnese, quando hanno ucciso Paolo io avevo 12 anni. L’indomani mi aspettava un viaggio in macchina verso la casa al mare, le vacanze, i giochi. Mi sono preparata per quel viaggio come si preparano i bambini, ma sono arrivata alla meta del viaggio lasciando a casa l’infanzia, lì davanti alle immagini di Via d’Amelio. Quando è morto Paolo io non lo sapevo chi fosse il giudice Borsellino. Avevo conosciuto da poco Giovanni Falcone, lo avevo conosciuto attraverso le lamiere contorte della sua auto e polvere di tritolo e autostrada. Paolo Borsellino è entrato nella mia storia quel 19 luglio, quando un boato ci portò in balcone e una colonna di fumo non troppo lontana tese i lineamenti sul volto dei grandi. Aspettammo davanti alla televisione la notizia che già le nostre orecchie e i nostri occhi avevano compreso, ma non accetato. Davanti a quella diretta surreale, smarrimento. Io cosa fosse successo fino in fondo non lo avevo capito. Quello che potevo capire, però, erano gli occhi rossi di papà e quella frase a bassa voce uscita da labbra immobili per il dolore: “matri mia, ma in guerra semu!“. L’immagine di lui ai miei occhi il forte per eccellenza, così costernato, addolorato, impaurito mi fecero diventare grande in fretta, capii che da una vicenda come quella non poteva difendermi nessuno, neppure lui. Di mafia potevo morire anche io, potevamo morire tutti.

Di quei giorni non riesco a scordare il silenzio. I miei stavano in silenzio. Arrivata al mare mi sembrò che anche la spiaggia stesse in silenzio. Si leggevano i giornali. E si stava in silenzio. Al ritorno dalle vacanze, quando i miei uscivano da casa io piangevo, di nascosto. Avevo paura che scoppiasse una bomba, avevo paura che sarebbero morti, che non avrebbero fatto ritorno. Fatti a pezzi, dalla mafia. Quando uscivo con mamma per fare la spesa passavo accanto ai carri armati inviati dallo Stato, e guardando quei giovani soldati con i fucili in mano, sicura io, con tutto il rispetto per lo Stato, non mi sentivo per niente.

Tante volte ho pensato a te e ai tuoi figli. Tante volte, crescendo, davanti ai miei occhi quella colonna di fumo e quel silenzio sono tornati a trovarmi. No io non ho niente in comune con te e con la tua famiglia, non vanto nessuna lotta alla mafia, nessuno impegno civile pubblico. Io neppure vivo più a Palermo! Sono andata via per cercare lavoro, per provare a trovare me stessa. Ma da Palermo ti puoi allontanare geograficamente non certo interiormente. Palermo abita le persone non sono le persone ad abitare Palermo.

La solitudine, la rabbia che ha abitato la vostra vita io come faccio ad immaginarla, io che ne so? Cosa ne so di quanto difficili da allora sono stati i vostri giorni, come sono passati i compleanni dei ragazzi, i vostri anniversari, le cene di Natale. Io che ne so. Cosa può essere stata la tua vita dopo quel boato e quella colonna di fumo nero non lo so, non possiamo saperlo e non dobbiamo fare finta di poterlo comprendere. Perchè la finta comprensione del dolore è assai più feroce dell’indifferenza.

Io oggi voglio solo ringraziarti per esserci stata. Ringraziati per la capacità di comprendere quando tacere e quando parlare, ti voglio ringraziare per aver cresciuto i tuoi figli, per esserti sottratta al gioco ambiguo di certa stampa, delle celebrazioni di massa. Ringraziarti per le domeniche pomeriggio passate a combattere solitudine e nostalgia, rabbia e dolore. E ti chiedo scusa, scusa per chi tace la verità sulla morte di tuo marito, ti chiedo scusa per tutte le volte che penso Palermo, i palermitani, la Sicilia, il Sud come luoghi dell’inevitabile, luoghi di una cultura perversa e irreversibile, luoghi malati di un cancro inguaribile. Ti chiedo scusa per quando davanti a questo mostro fatto di economia iniqua, politica corrotta, società sfaldata, mi siedo pensando che quello che sono e quello che voglio non è abbastanza forte per sostenere la battaglia.

Nella lettera che hai scritto a Paolo per il ventesimo anniversario della sua morte ricordi le sue parole ai giovani, parole di lotta, di speranza, di fedeltà. Ricordi che la fine imminente lucidamente attesa non gli ha impedito di compiere fino alla fine il suo dovere, dovere che era per lui una sola cosa con il suo volere, a dimostrazione che la morte è davvero fatto marginale nella storia degli uomini realmente viventi. In quella stessa lettera dici di esserti sentita madre di molti, di coloro che si sanno riuniti da Nord a Sud nel ricordo di Paolo. Io ti prometto Agnese di non deporre le armi. Di cercare dentro ad ogni cosa che farò e che sarò la forza, la voglia di rimanere fedele al bene e alla giustizia.

Riposa in pace. Sostenuta insieme al tuo Paolo, prima di tutto dall’amore dei tuoi figli e poi anche dal nostro, così debole e zoppo, piccolo e impaurito. Adesso che da dove ti trovi conosci la verità e riconosci il senso del tuo patire, sostienici in questa vita, con il tuo silenzio, con la tua presenza.

Ciao Agnese.

Giulia                                                                                                               http://www.youtube.com/watch?v=daJG-BiNPZI

FRATTURE

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(foto di Sara Montali)

PRIMO MAGGIO

REPUBBLICA Da “res” e “pubblica” = cosa pubblica. Forma di governo nel quale la sovranità risiede nel popolo, che la esercita direttamente o indirettamente per mezzo di rappresentanti scelti liberamente.

FONDATA da “fundus” = fondo. Scavare fino al sodo, per riempire la fossa di muratura e quindi porre i fondamenti, le basi. Appoggiarsi, porre ferma speranza.

SUL LAVORO dal latino “labor” = fatica, da cui “laborare” cioè operar faticando, dalla radice LABH che esprime l’idea di “afferrare” e quello figurato di “volgere il desiderio, la volontà, l’intento, l’opera a qualcosa”.

“Roma è avida di passi” (Resoconto dei miei primi due anni a Roma)

Una valigia per due mesi. Sembrava dover essere un soggiorno breve e intenso. Corsi per il Dottorato, piccola esperienza in Rai. Dopo, ancora Sud. Per terminare la mia tesi, velocemente e bene. Come avevo sempre fatto. Oggi 30 aprile festeggio il mio secondo anno di vita a Roma. Quei due mesi si sono dilatati, la valigia è diventata stanza in affitto in una, due, tre case differenti. La tesi è ricoperta da centimetri di polvere. In Rai mi hanno aperto un numero di matricola (evento definito giustamente “miracoloso”), ma, di fatto, senza che sia colpa di nessuno, la mia matricola si è atrofizzata dentro a qualche archivio di viale Mazzini. Le hanno sicuramente detto di mettersi in un angolo, al sicuro dalla crisi economica, in attesa di essere richiamata in servizio. Povera! Soffrirà di malinconia, non certo di solitudine. Però un lavoro ce l’ho e pure uno stipendio. Giuro. Precario, ovviamente. Il fatto è che proprio non riesco a farmelo piacere. Il lavoro dico, non lo stipendio, ovviamente.

Due anni. Due anni come due minuti dentro ad un frullatore. Tutto spezzato e trasformato. Tutto diverso. Tra la prima valigia e lo stipendio di oggi ci stanno ventidue mesi e molte cose. Tra la prima valigia e il mio presente c’è una città, una città affollata di gente, di eventi, di robe da piazza, di viicoli stretti, di palazzi, di chiese e monumenti, di manifestazioni, di politica e potere, di spaghetti cacio e pepe, di librerie, di tramonti mozzafiato, di cupolone, di fiorai, di derby, di turisti in canottiera e di bus affolati. Roma. Le persone, le cose, le parole, gli incontri. Ad uno sguardo di insieme, distante, distratto sembra confusione, traffico, caos. Ma a guardare con più attenzione Roma è gente venuta a portare qualcosa nella mia vita: una parola, una possibilità. Gente venuta ad aprire porte chiuse da tempo, o che si accosta, con andatura determinata e costante per dirmi qualcosa di me che ancora non so.

Roma ti deruba di forza. Roma è avida di passi. Accade allora di sentire la stanchezza e di non avere voglia di ributtarsi nella mischia. Pensi: Ma dove vado? Ma cosa sto facendo? Ti pare che il tuo volto si confonda con quello degli altri e che nessuno lo riconosca come unico. E, mentre stai seduto sul gradino del marciapiede ed osservi le ginocchia del mondo che ti passa accanto, alzi lo sguardo, pensi di intravedere “qualcuno” tra la folla e ti assale una malinconia che rende quel luogo insopportabile e la fatica per restarci dentro, inutile. Il luogo da dove vieni si trasforma. I ricordi delle cose “normali” diventano sacri e anche il pensiero di un pranzo in famiglia assume i contorni di un racconto mitologico fatto di eroi, di divinità, di vittorie.

La distanza da casa e l’incertezza del futuro, la vita che cambia e non capisci, i desideri che si trasformano e non riconosci, i compromessi che ti rincorrono, la nostalgia di ciò che desideri diventare, le novità che ti sorprendono, le persone che ti travolgono, tutto ti scava dentro uno spazio. Uno spazio inatteso, non previsto, di cui ti accorgi solo dopo, quando già esiste. E ci guardi dentro e ne vedi la profondità e ti chiedi cosa mai potrai metterci lì dentro, come riuscire a riempirlo. Già. Cosa? Capita di pensare, allora, dopo questi due anni per le strade di Roma, che quello per cui sei arrivata fin qui è diventato altro e che bisogna cambiare programma. Capita di pensare che si, magari la tesi di dottorato la finirai pure ma tocca reinventarsi la vita. E anche se ti rabbrividisce il freddo e l’umidità che arriva da quel vuoto che la città con la sua vita ti ha scavato dentro, speri di poter trovare, da qualche parte, pensieri nuovi, speranze durature, sogni diversi o, forse, sogni rinnovati, cambiati di abito, tirati a lucido. Che la vita è bizzarra, dicono. E i sogni vanno tenuti allennati, ben oleati, con la revisione fatta, con il tagliando in regola. Pronti a ripartire, in qualsiasi momento. Perchè Roma non è solo “guerra”, la tua crociata per conquistare e difenderti la vita. Roma è già vittoria. È la pagina che si gira, è l’attesa di sapere come finirà la storia. “…A me pure piace girare per le strade di Roma… soprattutto in estate.. di sera… verso le sette e mezza, otto… e sentire il rumore delle posate che vengono disposte sulla tavola… e pensare alle famiglie che si stanno preparando a cenare… e sentirmi leggero….

Tramonto romano 1° Maggio 2011

Tramonto romano 1° Maggio 2011

Quale categoria, contro quest’uomo?

Studiando il testo greco del processo a Gesù (Vangelo secondo Giovanni capp. 18-19), con mia somma sorpresa ho scoperto un uso anomalo di una parola a noi familiare: categoria.

In Gv 18, 29, infatti, i Giudei conducono Gesù davanti a Pilato, il quale andando verso di loro chiede: “Quale accusa portate contro quest’uomo?”. Ebbene, con “accusa” si traduce il greco categoria (κατηγορία). Dopo qualche minuto di smarrimento, mi sono precipitata, incuriosita e pensierosa, tra le pagine di un amico fedele, odiato e amato fin dall’adolescenza, come nient’altro al mondo, il “Rocci”. Beh, il vocabolario della lingua greca non ha smentito il vangelo. Il primo significato del termine κατηγορία è proprio questo: “accusa, imputazione”. Il sostantivo viene dal verbo kathgore,w, un verbo composto da kata (contro)+ avgoreu,w (parlo in pubblico, annunzio, proclamocioè parlare contro, lanciare accuse, incolpare. Secondo significato del verbo kathgore,wèmostrare, indicare, fare conoscere, affermare”. Sembra che il significato di “accusa” risalga all’uso forense della grecità classica (contrapposto ad apologia “difesa”) e che il secondo significato del sostantivo, “predicato, attributo”, sia da riferire alla filosofia cominciando da Aristotele.

Bisognerebbe comprendere quale sia il cammino semantico che unisce questi due significati del termine, apparentemente così diversi tra loro. Ma sono poi così diversi? In questa sede ciò che si vuole condividere è solo una suggestione: nella filosofia antica, κατηγορία, è determinazione della realtà e forma attraverso la quale tale realtà viene pensata. Forse il collegamento è proprio questo. L’accusa nel processo di Gesù (così come nelle altre due citazioni del NT Prima Lettera a Timoteo 5, 19 e Tito 1,6) non è il tentativo di determinare la realtà che lo riguarda? Il confronto-scontro prima con i Giudei e poi con Pilato non nasce dal tentativo, fallito, di far rientrare il Rabbì di Nazaret all’interno di una realtà da loro conosciuta e quindi dominata? “Quale categoria portate contro quest’uomo?”. Questo termine oggi assume spesso un’accezione negativa: categoria è ambito ristretto del pensiero, è sottoporre a giudizio definito, chiuso, persone, cose, idee. Categorizzare, in fondo, non è spesso accusare di essere in un solo “modo” e di non poter essere altrimenti? È separare. Valutare qualcuno a seconda della categoria a cui appartiene, non è impedire all’altro di mostrare se stesso, accusarlo di non sapere o potere arrivare a noi in modo sorprendente?