Nuda è la strada

WP_001416Serve. A volte, serve. Riporre in un cassetto la meta, la sua ricerca, la fatica di raggiungerla, indossare il cappotto, i pantoloni di velluto che fuori è freddo, un paio di vecchie scarpe, e uscire.
Senza destinazione o scopo. Uscire. E basta. Volontaria perdita di direzione, complice magari la spossatezza per un sabato sera finito alle tre del mattino, il sonno, il mal di gola per il freddo preso sul motorino, nonostante i 25 Km all’ora. Roma la notte sottrae gente alle strade, se si va dal centro alla periferia. Si resta in pochi. E sotto casa in due, fino a tardi, perchè tanto ormai il freddo s’è già preso tutto, ma le cose da condividere non si esauriscono, mai. Forse è la speranza che l’altro possieda il pezzo mancante per intuire il soggetto del puzzle: pezzi sempre dispari tra le mani. Al freddo, stanchi senza sonno, a ragionar sull’irragionevole terrore che fa la felicità a portata di mano, con la vita e l’età che rincorrono e il fiatone a dar ritmo anomalo ai polmoni, ogni giorno. Camminare per la città, con l’ago della bussola ebbro di vino, che gira impazzito, posseduto dal desiderio di andare, ovunque. Tutte le direzioni possibili, pensando all’amico lontano, e alla sua richiesta di piedi per passeggiare Roma, senza fretta, come nei suoi anni passati. Perchè a Roma si arriva ma da Roma non si riparte mai davvero. Roma ruba pezzi: occhi, cuore, cattura pensieri, trasforma i progetti. E anche se vai via o se resti o anche se poi torni, li ritrovi tutti, i pezzi, parte del paesaggio, tra i mattoni antichi. Così è Roma, cammini, e ritrovi i pensieri in equlibrio precario, funamboli sui fili del tram, occhi fissi, come le colonne diritte dell’impero che svettano ancora dal suolo. Il cuore al tramonto, quando la città si accende,  o fra le rovine antiche, i pensieri, nei cortili dei palazzi a Trastevere. I progetti, nonostante tutto, ancora in piedi, tra le macerie nobili di Torre argentina a render affilate le unghie dei gatti.WP_001406 Roma, ruba pezzi e non li restituisce. Il cielo è terso e le strade son piene di autunno. A Roma l’autunno è invadente. Riveste tutto, alberi, marciapiedi, monumenti. Non c’è scampo. Il buio delle cinque è solo breve passaggio su ponti che si accendono di luce soffusa. Il Tevere nasconde le acque torbide e si veste di riflessi. Inganna. Attende l’inverno, per gonfiarsi minaccioso e imponente d’acqua e di neve lontana. Camminare, senza sapere dove andare e senza smarrimento, ad imboccare viicoli, costeggiare palazzi, girare angoli. Roma è insieme di angoli stretti e piazze immense, è una città priva di misura media, è troppo stretta o troppo ampia, nasconde ed espone, continuamente. Gli addobbi di Natale risvegliano la sua identità pagana e il suono delle campane le ricorda antichi innesti. Roma è tante cose opposte, tutte vive e presenti, è identità multiforme. Pochi passi per attraversare secoli. A volte si cammina con il naso in su, a cercare in alto cupole e terrazze d’edera, altre con occhi bassi a tener il ritmo delle punte dei piedi, passi veloci di fretta perché a Roma si è sempre in ritardo. Altre volte ancora si cammina con sguardo dritto, ad altezza d’uomo, per vedere il mondo venirti contro, facce di luoghi lontani e diversi, davanti, alle spalle, a Roma il mondo circonda, tutto circonda, anche la miseria. Roma è miscuglio d’umanità e cartone di letto umido, è fiato pesante di alcol sul tram, barba dura di sporcizia, stracci e occhi persi chissà dove, chissà quando, accesi di rabbia. Roma è potere e bottega, è politica e bocca di popolo sporca di sugo. Roma si vende, ogni giorno, su bancarelle colorate sotto l’occhio severo di Giordano Bruno, per coprire, oggi come ieri, con  voci di merci e mercanti, le urla di fiamme infami. Umidità sui capelli, gambe stanche, ma camminar così, senza la preoccupazione di sbagliare strada ridà forza, rinsalda i muscoli. WP_001539Ogni strada è quella giusta, è il luogo dove si vuol essere. Roma nasconde passaggi segreti, varchi, come aperture di sepolcri antichi, che evitano km sulle arterie principali, scorciatoie di vene periferiche, esse pure cariche di sangue da portare. Quando si passeggia Roma alle porte dell’inverno a sceglier la fine dei passi sono freddo e stanchezza. Basta voltarsi da qualche parte, allora, per trovare le porte di una chiesa e riposare, porte aperte, senza troppe pretese.  Accoglienza anonima di spirti randagi, fiammelle senza nome, tepore al corpo nudo di chi ha tanto camminato a mendicare incontri. Casa, è sera. Piove. La meta riposta in un angolo scalpita per essere cercata, chiama. Il tram fischia sulle rotaie e nelle orecchie note e parole per accompagnare il fluire lento e costante del ritorno.

È così che accade, ogni tanto, la notte.

(foto di Luca Nizzoli Toetti)

(foto di Luca Nizzoli Toetti)

È così che accade, ogni tanto, la notte.

Di dover andare a dormire, ma di non riuscirvi, di sentire insonnia ribelle muovere guerra al riposo necessario ad alzarsi, domani.

È frammento di caos primordiale, impossibile staccarlo di dosso. Polvere di bing bang ad annodare i capelli, scheggia incastrata, in circolo nelle cellule, che si muove, su e giù, sotto e sopra, tra cascate di sangue in piena, tremar di vene al passaggio.

Devi dormire, lo sai. Sai che domani l’alba arriverà, risuonare arrogante di sveglia e maledirai il caos, il magma, il fuoco e il sangue, e cercherai tu, disperata-mente, di star bene al mondo. Cercherai quiete, vita, presente per forza.

Eppure, accade, la notte, che assalga il dubbio, di pensare bugiardo il riposo di membra e di ignorare disinvolto il mattino. Nella notte accade pensare che ci sia, altrove, una vita diversa dove ogni cosa è tesa allo sforzo di generare la versione vera di te. Sudore, sangue, squarci di placenta, urla di dolore. Non è guerra, non è miseria né morte. È la vita che si dimena nel desiderio insostenibile di averti. Di avere te, di possedere te e nessun altro al tuo posto.

La vita, che si consuma di desiderio, che geme, solitudine insostenibile la nostra assenza. Non più tu a patire incomprensione, non più tu a smussare angoli senza sosta per riuscire ad entrare dove, credi, tutti ti attendano, fatica, e semina di desideri altrui.

No, non più tu a voltarti ad ogni passo, non più tu a tender l’orecchio, a raffinar l’udito, speranza di sentire corse ansiose, scalate a nude mani su punta di roccia, pur di veder te, e nessun’altro al tuo posto.

La vita, sentinella senza cambio di guardia nè sonno, sguardo teso come freccia a puntar l’orizzonte, pronta a scoccare veloce, a tagliar l’aria, silente e decisa, per passarti accanto, sfiorare.

Occhi furtivi e capriole di ruoli, spiarle in faccia lo sconforto, lo sguardo fisso alle spalle, attesa sfinita del tuo volto. Ma, poi, riconoscere nel suo sconforto la delusione dell’attesa, la tua di lei, sentir fremiti di pietà e voltarti di scatto ad acchiappar l’istante, amore e sorpresa. La vita, sguardo affamato di incontro. Non più tu a correrle dietro, a cercar le tracce del passaggio, non più tu ad attendere ore, moltiplicazioni di giorni, panchine fredde e ruggine su palmi di mano.

Il sonno preme, spinge di spalla, si getta di peso, e invece resisti e speri che il magma non torni a scavare rifugi codardi di tenebre. Resisti e speri che il caos rispacchi la terra, brandelli di fuoco all’intorno, confini come briciole. Andare, ovunque. Nessuna licenza. Poter essere niente, assenza di sforzo nel diventar qualcosa, rinunciando a qualcos’altro. Tutto è tuo e ogni luogo è quello giusto. La vita, non più amputazione d’eccessi, nessun equilibrio. Nessun sentiero diritto, solo cime, solo pendenze.

Siediti composto

(foto di Osamu Yokonami)

(foto di Osamu Yokonami)

Non dovrei affatto star qui a scrivere. Dovrei lavorare alla tesi, stirare, lavare i piatti del pranzo, finire le programmazioni e rifare il letto, magari, così, last minute. Il fatto è che oggi è stata una giornata troppo strana per non raccontarla, una di quelle in cui capita di vedere e ascoltare come dentro ad una visione. Si, una di quelle giornate nelle quali pare di stare al mondo con i cinque sensi spinti al massimo.

Esco di casa e ricordo di aver lasciato sopra il letto la corazza che difende, da tutto, i tappi per le orecchie, il velo sugli occhi.

Corro in macchina, sono in ritardo, accendo la radio, De Gregori è lì e Nino sta ancora imparando a non aver paura di un calcio di rigore. I semafori al mattino sono una metafora perfetta della vita: li vedi verdi, da lontano, accelleri. Ma quando arrivi lì davanti ed è il tuo turno, scatta il rosso, ti fermi. Ad un semaforo pedonale, di quelli che appena il pedone li accarezza con lo sguardo e pensa soltanto di voler premere il pulsante, ti fa piantare i freni sull’asfalto, alzo lo sguardo: da una parte una suora e una mamma con un passeggino, dall’altra una persona anziana e due adolescenti con gli zaini eastpak lenti sulla schiena. Li vedo attraversare ed incrociarsi e mi pare di assistere ad un raffinatissimo gioco di prestigio: la suora al posto degli adoloscenti, l’anziana signora al posto della mamma, scambio di sponda, una di qua, gli altri di là, la suora era giovane, la mamma sarà vecchia, il bambino sul passeggino andrà a scuola, gli adolescenti avranno un bambino. Tutto è veloce, la vita è veloce. Suonano, è verde, riparto.

Arrivo a scuola, posteggio. Ho davanti a me sei lunghissime ore. Io ho sonno, loro hanno sonno. Io non posso dirlo, loro si. Spiego, urlo. Li guardo. Fino alla terza ora rimango salda, tutta d’un pezzo.

Sono adolescenti come lo sono stata anch’io. Oggi, però, siamo su due sponde diverse, , stiamo su due marciapiedi opposti. Mi guardo attorno: nessun semaforo per attuare uno scambio. Interrogo chi era impreparato la scorsa settimana: “Ah prof., ma che sempre a me?”: Mi fermo. Cerco di capire perchè gli sembra assurdo quello che a me appare normale: “Scusa, ma non ti ho detto che dovevi recuperare?”. Silenzio. Poi uno scatto di orgoglio, ci prova: “Lo shabbat ricorda…” – silenzio…silenzio – “ricorda il riposo di Dio dopo la creazione” – silenzio. “Si, giusto, e poi? Cosa fa e cosa non fa un ebreo durante lo shabbat, lo abbiamo spiegato, ricordi? Abbiamo fatto lo schema alla lavagna, ricordi?” – silenzio…silenzio…silenzio. Mi arrendo, interrogo qualcun altro. Un paio di minuti e la vittima dello shabbat mi chiede: “Ah prof, ma quanto ho preso?” – “Eh?” – rispondo io – “Si, perchè?  Non ho risposto?” – dice lui – silenzio…silenzio…silenzio, ed è il mio questa volta.

Suona la campanella. E’ ricreazione. La ricreazione è il fronte. Venti contro uno. Li vedo alzarsi e sfoderare le armi: merendine, pizze rosse, pizze bianche. Vengono verso di me, tutti, compatti, un corpo solo, e ad una sola voce esclamano: “Ah prof., posso anda’ in bagno? E’ urgente!”. Organizzo i turni. Devo guardare tutto, stare attenta a tutto, non devono cadere, non devono farsi male, non si devono strozzare, non devono infilzarsi con le forbici, non devono usare i cellulari, non devono infilarsi i tappi delle penne dentro al naso. Niente pugni, niente calci.

Risuona la campana. Mi aspetta una classe “difficile”. Terza media, ma qualcuno di loro ha la barba. Dovrebbero stare al liceo. E invece sono lì, alla scuola dell’obbligo. “Che espressione triste” – penso. Si sentono obbligati, infatti, si sentono scoppiare. Comincia il mio rosario: “siediti, calmati, fermati, apri il libro, apri il quaderno, siediti composto”. Siediti composto…ho lasciato la mia armatura sul letto e i cinque sensi sono tutti spinti al massimo. Sie-di-ti com-pos-to… La frase mi muore sulle labbra mentre penso a come pranzo e ceno, io. Sul divano, con le gambe incrociate o a terra, con le spalle poggiate al divano. Li guardo. Ripenso alla mia stanza alla loro età. I libri per terra, i vestiti sulla scrivania, le scarpe nell’armadio. La necessità di dare un posto tutto mio alle cose, di cambiare l’ordine dei fattori convinta com’ero che il prodotto sarebbe cambiato. “Siediti composto…”.

Sono in pochi nella mia classe difficile. Circondano la cattedra. Parliamo. Tra un calcio, un cazzotto, un insulto, il più gettonato di sempre: “Tua madre!”. Li convinco: le madri e le sorelle restano fuori dal ring. Prendono in giro il ragazzo rumeno. Sono spietati. Chirurghi dello sfottimento. Con occhio clinico individuano il punto debole e lì affondono la lama, tagliente, amputano ogni forma di dialogo, la possibilità di conoscersi davvero. Infieriscono sulla debolezza altrui per non sentir ringhiare la propria. Li rimetto seduti. Li guardo. Li guardo e penso che non devo dimenticare mai più la mia corazza sul letto. Provo a far parlare loro. Parlano. Parliamo di rabbia. Chiedo cosa li fa arrabbiare, come fanno a smaltirla, loro, la rabbia. “Quanno è morto mi nonno, ho dato un pugno ar finestrino de na macchina. S’è rotto, me so rotto anch’io. Me uscito tutto er sangue, ma non me so fatto male prof., non sentivo dolore, solo la rabbia”. Silenzio…silenzio. “Ah prof., quanno è morta mi madre io nun ce so andato ai funerali. So andato a scola. Sette anni c’avevo ma me la ricordo pure ora, era dentro a bara, era tutta bianca prof., me so arrabbiato io, so andato a scola”. Silenzio.

Quando sono arrabbiati, devono “mena’ quarcuno” – mi dicono. “Se uno me insulta io gli meno a prof., e che devo fa?”. Le mie orecchie ascoltano, i miei occhi vedono. “Ah prof., ma a casa s’arrabiano con noi, mo’ basta che sbatti na porta e stanno tutti a strilla’! L’altra vorta mi padre mi ha detto: aò, sarvanno to madre sei proprio un figlio de na mignotta”. La realtà allarga le sue maglie, io socchiudo gli occhi, guardo attraverso, li vedo. “Ah prof., ma uno se deve sfoga’. Mi padre ad esempio, quanno va o stadio, se porta e bandiere, e poi però ce leva a bandiera e se mette sotto braccio er bastone! Ah prof., a o stadio ce  stanno e guardie, mica pe niente, è per precauzione”.

Succede, quando si dorme poco

(mokwanggesturefortourist)

(mokwanggesturefortourist)

– Drriin, Drrriiin
– Pronto?
– Si, pronto.
– Scusi chi parla?
– Ciao sono io.
– Io? Io, chi?
– Io, sono il tuo IO.
– Ah.
– Si, volevo dirti…
– Cosa?
– Niente.
– E no, se mi hai chiamato…
– Giusto.
– Allora?
– Che fai sta sera?
– Studio?
– Studi? Di venerdì sera?
– Che fa, non si può?
– Si, certo, per carità.
– Ah, mi pareva. Mi dici che vuoi?
– Niente…mi hanno detto cose…
– Cosa? Chi?
– Mi hanno detto che ti vedi con un altro IO, uno nuovo che mi somiglia un po’, ma è diverso.
– Si, è vero, ci frequentiamo.
– Ah. E…ti ci trovi bene.
– Ma…si. Ci conosciamo poco ancora.
– Capisco. Pensavo andasse bene tra noi.
– Pensavi male. Mi hai creato un sacco di problemi.
– Ah. Non me ne ero accorto.
– Appunto.
– Ma non ti manco, neppure un pochino?
– Beh, a volte si, quando non capisco bene l’altro, mi sento strana, ti penso.
– Posso sperare di tornare con te?
– No, non farti illusioni. L’altro non lo conosco ancora bene, si, ma mi piace.
– A me sembra pallido, troppo debole.
– Si, è mingherlino, ma diventarà robusto, piano piano.
– Ti vedo coinvolta.
– Lo sono.
– Ma hai un’aria stanca.
– Si, è faticoso stargli dietro: si nasconde, fa il prezioso. Non si fa sentire per giorni. Ma poi, quando ci troviamo, è bello.
– Capisco. Allora…niente.
– Niente…
– Ci si vede.
– Si, magari, capiterà.
– Ok. Magari…
– Ciao.
– Ciao.

Rivugghiu d’acqua

M’assettu nta la rina a taliari l’unni di lu mari:
rivugghiu d’acqua che cu lu ventu fa all’ammuri.
Mi grapissi lu pettu pi ghiccarici lu cori
dintra sta raggia d’acqua e sali.
Cori marturiato comu lu mari
di ventu arriminatu,
fatti ammuttari
fatti annacari comu un nutrico
fatti ncuietari mezzu la spuma.
E poi, quannu scura,
quannu u lustru n’abbanduna
torna dintra lu me pettu,
ammucciati dintra li me carni
e r’accussi u duluri
firriannu intunnu un t’attrova
e ni lassa n’anticchia respirari
l’aria nostra, di ventu, di sali.

Cappotto di feltro verde

(foto di Luis Fabini)

(foto di Luis Fabini)

Entrare in una chiesa, vicino alla stazione, in qualunque città ci si trovi, è compiere un viaggio, dalla superficie alle profondità. Sopratutto se, la domenica, si sceglie o capita, di recarsi all’ultima messa. Poco importa se sia l’ultima della mattina o l’ultima del pomeriggio. Basta che sia l’ultima. E per capire meglio la geografia di questo viaggio bisogna arrivare qualche minuto in anticipo. Giusto il tempo di assistere alla fine della celebrazione precedente. Giusto il tempo di osservare le facce giocose dei fedeli, si, quelli della messa “di punta”.

Ogni parrocchia ha la sua messa di punta. In un orario che oscilla dalle 10 alle 11.30. La messa, quella “animata”, quella con i bambini del catechismo, i giovani con le chitarre, le famiglie, i gruppi ecclesiali. La messa, quella con il prete più “moderno”, capace di tenere desta l’attenzione di grandi e piccini. E quando, disgraziatamente, la parrocchia è sfornita di preti all’avanguardia, allora si punta sul coro o sui paramenti o sull’arredo sacro. La messa di punta è quella della comunità. La messa alla quale arrivano numerosi i collaboratori del parroco, per sistemare sedie e foglietti, per accordare le chitarre, per assegnare le letture. La messa di punta, quella dove, alla fine, ci si trattiene in cortile a salutarsi, mentre i bambini scorazzano e sudano e alle bambine scivolano i primi collant che con gesto poco elegante, ancora, si riportano su, fin sopra il limite delle ascelle. La messa di punta. Quella con il canto finale, accompagnato dal battito di mani, che tira fuori l’allegria anche dai partecipanti più tristi. È la festa.

È così perfino nella chiesa vicino alla stazione. Però, di solito, per partecipare a questa messa devi appartenere a qualcuno ed essere “qualcosa” se non vuoi sentirti fuori posto: catechismo, gruppo giovani, scout, gruppo famiglie, azione cattolica. Cresimando, cresimato, post cresima. Gruppo lectio divina, gruppo liturgico. Gruppo, insomma.

L’altra messa, invece, quella di scorta, è quella per chi non ha trovato o ha già perso il proprio posto nel mondo. È la messa dei cristiani “non impegnati”. Quelli che alla domenica mattina si ricordano o decidono di andare, ma all’ultimo momento. Oggi alla messa di scorta, vicino alla stazione, eravamo in pochi. E ci siamo dovuti accontentare dell’aroma d’incenso andato in fumo copioso per chi ci aveva preceduto. Ci serva di monito per la settimana successiva: se si vuole l’incenso vero bisogna arrivare in tempo! Alla messa di scorta, vicino alla stazione, si è talmente sparuti e singoli e sperduti che ci si distribuisce tra i banchi con ordine rigoroso, in modo tale che nessuno sia troppo vicino a nessuno. Di solito è un’assemblea meticcia, miscuglio di razze e di vita. Man mano che la gente arriva a me pare di assistere ad un raduno di “incipit”. Ognuno dei presenti sembra il personaggio ideale per l’inizio di un romanzo, ciascuno di loro pare esistere grazie alle prime parole di una storia senza seguito. A pochi banchi da me un signore, cinquant’anni circa. Dalla testa ai piedi vestito in modo da passare dal grigio fumo, delle scarpe, al beige chiaro, del giubbino. Sembra uscito da una lavatrice che gli ha sequestrato i colori e che, con violenza, li tiene in ostaggio. Il suo sguardo spaventato attraversa, su e giù, tutto il perimetro della chiesa e per tutto il tempo della celebrazione non smette di borbottare qualcosa. Troppo piano per distinguerne le parole, troppo forte per non sentirne il lamento. Un secondo, neppure per un secondo ha smesso la sua cantilena dolorosa. Eroico tentativo di mantenere in vita il dialogo, di restare saldo nel dire, anche se l’interlocutore gli ha, evidentemente, voltato le spalle.

Le chiese vicine alla stazione sono contenitori senza tempo. Una signora davanti a me porta con disinvoltura jeans e giubbotto jeans e polacchine marroni, scamosciate. Come se la sua messa fosse iniziata negli anni ottanta e si fosse prolungata così a lungo da non aver avuto il tempo, negli ultimi trent’anni, di tornare a casa a cambiarsi. E poi, poi l’anziano in carrozzina, spinto dalla badante straniera con i capelli di un rosso fuori natura. Una coppia di giovani latinos, una donna sempre con gli occhiali da sole sul naso. E le signore anziane, quelle che hanno i capelli corti nè lisci nè ricci, senza un filo fuori posto. Perfettamente ondulati, come lo sono le vaschette di gelato quando si strappa via la pellicola. E ancora, la donna di mezz’età, con cinque/sei centimetri di ricrescita bianca sui capelli scuri, come un bambino che preme troppo il pennerallo sul foglio facendolo asciugare, prima di aver riempito la sagoma del disegno. L’uomo tatuato, il barbone, un professore che puzza di sigaro. La ragazza madre, la vedova, un anziano con la stampella. E me.

A celebrare le messe di scorta sono quasi sempre i preti stranieri, quelli con l’italiano inquilino abusivo sulla lingua. L’assemblea dell’ultima messa è la loro scuola. E s’ impegnano, difatti. Scandiscono le parole con cura. Cadono sulle doppie, ma si rialzano, orgogliosi, facendo leva sull’intonazione, per dare forza alle parole prive di chiarezza. Alla messa di scorta non c’è il coro, ma un “tutto fare”. Prepara l’offertorio, proclama le letture, cerca con cura fra i presenti le facce rassicuranti per affidar loro i cestini delle offerte. Conosce a memoria il numero dei canti nel libretto. E, nella chiesa quasi deserta, canta con impegno godendosi un momento di gloria impensabile da realizzare alla messa di punta.

Nessuno conosce nessuno. E, quasi sempre si è troppo lontani per scambiarsi il segno della pace. Ma, a volte, accade di sbagliare il calcolo della distanza. E quando capita si sente, sotto le dita, la pelle della messa di scorta. È ruvida e callosa. È sudicia e tremante. Verso la fine, rileggo con lo sguardo tutti i personaggi. E capisco di avere addosso ancora troppo forte il profumo d’incenso delle mie passate messe di punta, troppo per condividere una storia senza seguito.

Alla messa di scorta si attua una strana mescolanza tra miseria e poesia, tra solitudine, fallimento e forza. Però, proprio mentre l’anziana dal cappotto di feltro verde trascina le sue buste sporche e ne tira fuori una rosa, omaggio alla statua immacolata della Vergine, allora, viene da pensare che quel canto senza musica, intonato malamente all’inizio, con le vocali aperte e le note in disordine, possieda davvero una segreta speranza, anche per l’ultima messa: “…tutta la storia Ti darà onore e vittoria”.

Nelle mani di tutti (riflessione sull’intervista a papa Francesco)

Arno Rafael, 1989

Arno Rafael, 1989

Ho appena finito di leggere la versione integrale dell’intervista che ieri Papa Francesco ha rilasciato al gesuita Antonio Spadaro. Ho cercato di leggere con attenzione, visto che, secondo i quotidiani di ieri e di oggi, questa intervista rappresenta la svolta progressista della Chiesa Cattolica.

Se qualcuno fosse stato spettatore della mia lettura, si sarebbe davvero confuso. Il mio volto, infatti, ha cambiato espressione centinaia di volte: ho sorriso, ho crucciato le sopracciglia, ho spalancato gli occhi, mi sono messa le mani nei capelli, ho sentito salire dalla pancia agli occhi una massiccia dose di tenerezza.

Le parole di papa Francesco sono soprattutto….le parole di papa Francesco. Voglio dire che, mi pare, prima d’ogni cosa, si evinca qualcosa di lui, della sua storia, della sua vita, delle cose che ama, di ciò che pensa e desidera. E, forse (ma questo non l’ho ancora capito), l’intenzione dell’intervista era proprio questa: far conoscere meglio papa Bergoglio (è così che inizia il dialogo: Chi è Jorge Mario Bergoglio?”). Parole, sentite, affidate, da gesuita a gesuita, certamente consapevoli, entrambi, che ad ascoltare sarebbero stati davvero in tanti. Tanti ad ascoltare. Ma ancora più numerosi coloro che, per mestiere, per dovere o per piacere, avrebbero non solo interpretato, ma inevitabilmente manipolato, le sue parole.

Il papa parla di molte cose, dunque. Dalle sue opere letterarie e musicali preferite si passa a questioni strettamente legate alla vita della Chiesa: il rapporto fra la Chiesa e l’uomo, l’annuncio del vangelo, la misericordia di Dio, le questioni scottanti come la famiglia, i divorziati, l’aborto, l’ecumenismo. Tante cose, troppe, forse, per considerare queste parole un “insegnamento” preciso su ciascuna di esse.

Nessua novità, infatti. Almeno dal punto di vista dottrinale l’intervista resta dentro ai binari percorsi da tempo. Quello che, pare mutare, è il modo di comunicare tale contenuto dottrinale. Potrei definire questa modalità: “occhi negli occhi”. Proprio così. Bergoglio confida al suo interlocutore la difficoltà che prova davanti alle masse, il disagio che gli provoca una comunicazione/relazione che non può essere diretta: “Io riesco a guardare le singole persone, una alla volta, a entrare in contatto in maniera personale con chi ho davanti. Non sono abituato alle masse“. E questo suo tentativo lo si percepisce chiaramente: le risposte personali alle lettere ricevute, le telefonate, il famoso “buongiorno/buon appetito”. Un linguaggio, una modalità di relazione che arriva a tutti, proprio perchè utilizzata da tutti, ogni giorno, all’interno del nostro rapportarci con il mondo che ci è prossimo.

Leggo con attenzione i passaggi dell’intervista che cercano di delineare l’identità del pontefice. Il percorso fatto, le figure che per lui sono state importanti, le letture, la formazione, i diversi compiti svolti all’interno della Compagnia di Gesù, gli errori fatti e le cose imparate dagli errori commessi. La sua storia. Le tappe che lo hanno portato lì dove è adesso. E mi piace la definizione del discernimento come il “sentire le cose di Dio dal suo punto di vista“: “Questo discernimento richiede tempo. Molti, ad esempio, pensano che i cambiamenti e le riforme possano avvenire in breve tempo. Io credo che ci sia sempre bisogno di tempo per porre le basi di un cambiamento vero, efficace. E questo è il tempo del discernimento […]. Il discernimento si realizza sempre alla presenza del Signore, guardando i segni, ascoltando le cose che accadono, il sentire della gente, specialmente i poveri. Le mie scelte, anche quelle legate alla normalità della vita, come l’usare una macchina modesta, sono legate a un discernimento spirituale che risponde a una esigenza che nasce dalle cose, dalla gente, dalla lettura dei segni dei tempi. […] La sapienza del discernimento riscatta la necessaria ambiguità della vita e fa trovare i mezzi più opportuni, che non sempre si identificano con ciò che sembra grande o forte “. Ho voluto riportare questo passaggio perchè, a mio parere, contiene una chiave di interpretazione importante.

Il tempo e il discernimento. Ecco di cosa, molti di noi, i mezzi di comunicazione, l’opinione pubblica sta privando papa Francesco: del tempo e del discernimento. Guardo con diffidenza il fenomeno mediatico che lo sta travolgendo. Non fa bene a lui, non fa bene alla Chiesa, non fa bene a chi cerca la verità. Mi chiedo quanti, tra i fedeli si siano seduti a leggere la lunga intervista del pontefice, non basando il loro consenso sugli spezzoni riportati dai giornali o, peggio, dai telegiornali. Mi chiedo quanti tra coloro che gridano alla svolta conoscano i documenti ufficiali sulle questioni affrontate nell’intervista. Il papa parla della Chiesa come popolo e cita la Lumen gentium. Ma quanti dei giornalisti che utilizzano le parole del papa sanno cosa sia e cosa contenga la Lumen gentium?

Non voglio dire che solo i teologi o i religiosi, o i preti hanno il diritto di esprimere la propria opinione sulle parole del pontefice. Dico soltanto che bisognerebbe avercela davvero un’opinione. Perchè? Perchè l’accoglienza delle donne che hanno abortito, dei divorziati, degli omosessuali, la faticosa fiducia nella “persona”, chiunque essa sia e qualunque cosa abbia fatto, la vicinanza, la pietà, la misericordia nel nome di Gesù esistono nella Chiesa da prima che arrivasse papa Bergoglio, da 2000 anni, circa, più o meno da quando un certo rabbi di Nazareth ha evitato la lapidazione di un’adultera e non ha sottratto i suoi piedi alle lacrime di una prostituta. E tutto questo esiste non solo tra i “religiosi”, ma anche, anzi sopratutto, tra la gente comune. Tra i credenti di “periferia”, per utilizzare proprio un’espressione cara al papa.

Quanti cristiani si sono trovati a dover discernere tra la dottrina ufficiale, recinto a volte troppo stretto per la Parola di Dio e per la vita, e la propria coscienza! Quanti hanno pagato e stanno pagando con la solitudine, la sofferenza, l’amarezza dell’incomprensione, la fatica e la coerenza dei propri studi teologici e delle convinzioni che ne scaturiscono? Quanti credenti, preti, religiosi e laici hanno curato le ferite e, sopratutto, testimoniato e insegnato, ascoltato, lottato, passato notti insonni perchè le ferite potessero anche non accadare, venissero evitate quando possibile?

Forse la Chiesa, quella che non finisce sui giornali, quella che non sempre riesce a scalfire il sentito dire, le cose che “si sono fatte sempre così”, l’assenza di senso critico, forse quella Chiesa ascolta e accoglie le parole del pontefice ma si basa e si costruisce e si nutre soprattutto di altre Parole. Oggi abbiamo la grazia di avere come papa il cardinale Bergoglio. E se domani venisse eletto un papa conservatore, reazionario, poco sensibile ad alcuni temi importanti, come in passato è accaduto, allora cosa succederebbe? Si tornerebbe tutti indietro in massa?

Chissà se papa Bergoglio sarebbe contento di sapere che molti fedeli la domenica, sono costretti ad ascoltare omelie fatte di parole sulle sue parole. Io credo che ne sarebbe mortificato. E anche io mi sento mortificata. E se invece concentrassimo ed indirizzassimo le nostre energie per restituire ai fedeli la Parola del loro Signore? Per dare ai credenti gli strumenti necessari alla comprensione della Scrittura? Ridimensionando le mediazioni? È pericoloso mettere in mano a tutti la Bibbia? Forse. Ma la Rivelazione, la volontà del Padre di farsi conoscere, di farsi vicino all’uomo attraverso Gesù non è una consegna che il Signore fa di se stesso nelle mani di tutti?

Mi auguro che papa Francesco possa continuare a guidare la Chiesa. Mi auguro che continui a farsi “prossimo”, a cercare in mezzo alla folla occhi da incontrare. Ma mi auguro anche che metta mano alla penna e che scriva, che si metta davvero in ascolto del popolo, di quel popolo che ama Gesù pur senza averlo visto (cfr. 1Pt 1,7-8) e che per questo cerca di capirlo, di conoscerlo di seguirlo. Mi auguro che scriva dopo aver ascoltato e pregato e fatto quel discernimento che lo caratterizza producendo non solo “opinione”, ma anche un Magistero capace di cambiare a lungo termine le cose, un Magistero che curi le ferite, anche quelle che esso stesso nel corso della storia ha inflitto. Mi auguro possa piano piano dar vita ad una prassi che nasca dalla comprensione della Scrittura e (finalmente) del Concilio Vaticano II. Un amico, persona a me davvero cara, teologo moralista, oggi mi ha detto che siamo tutti così impegnati a capire come riuscire a fare i maestri che abbiamo dimenticato d’essere, tutti, discepoli. “Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi“. (Gv 8,31-32)

Pane, e polvere di deserto tra i piedi

Ciao Abuna Paolo.

Eccomi qui, mentre mi appresto a fare la cosa più inutile che posso, quella che meno può servire alla tua vita e al paese che hai scelto come tuo: scrivere una lettera.

Parole inabili. Incapaci. Parole senza braccia per venirti a liberare, senza gambe per aiutare i bambini a scappare dalle bombe, che nell’attesa che arrivino ti frantumano dentro e che, quando atterrano, ti frantumano il corpo.

Parole.

Ma porta pazienza, ti prego, perchè solo parole mi pare di possedere, e di tenermele tutte scomposte dentro al cuore, non ho più forza e pazienza.

La prima volta che ti ho sentito parlare ero in RAI. Le domande sapienti di Gabriella Caramore ti hanno reso agile, con la sola forza della voce, dire chi sei. La radio l’amo per questo, perchè fra i cinque sensi l’udito regna. In radio quello che dici è davvero più importante di come appari. (http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/programmi/puntata/ContentItem-f86e393a-2749-4a48-be17-7809f1b8802d.html)

Ti ho ascoltato. E mentre ti ascoltavo mi pareva si agitasse in me il mostro multiforme dell’inquetudine. Quello che si odia perchè rende zoppo il trascorrere quotidiano dei giorni, quello che non si riesce a domare, perchè costringe la vita ad occhi aperti e insonni.

In poche battute hai raccontato di te e del tuo cammino, da Roma all’oriente, dal centro del cattolicesimo all’islam, dal dogma alla vita, esperienza di relazioni meticce. L’ossessione della religione pura: pericolosa, viscida tentazione. Ordine contro il disordine di mense condivise, definizioni e teorie contro bambini musulmani e cristiani che giocano la domenica, alle porte del monastero di Mar Musa. E mentre a colpi di dottrina Roma tentava di mettere i puntini sopra le “i” della fede in forma teorica, in Siria, insieme ai tuoi, mangiavi il pane dei credenti in Allah.

Pane, e polvere di deserto tra i piedi.

Abuna Paolo, dicono che fra qualche giorno bombarderanno la Siria. Ed io ti chiedo scusa. Il fallimento politico pesa come pietra dura sullo specchio fragile della nostra democrazia. Quasi un milione di morti è costata la nostra attesa. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha preso tempo per verificare l’utilizzo di armi chimiche da parte dell’esercito di Assad. Abbiamo preso il tempo e ne abbiamo esasperato la relatività. Un minuto è per l’ONU un tempo pressochè inutile. In Siria, in un minuto, muoiono più di 300 persone. La somma dei minuti presi dall’ONU per “valutare” non ha condotto a soluzione alcuna. La somma degli stessi minuti ha fatto 90mila morti in terra di Siria.
Il potere economico di Cina e Russia tiene in ostaggio la comunità internazionale.

In questi giorni guardo spesso in giro per casa, credo che la maggior parte delle cose che possiedo siano made in China. E mi pare che ogni oggetto corrisponda a uno di quei cadaveri avvolti fra le lenzuola, in fila, a turno, verso una vita migliore.

Ti chiedo scusa. Per quello che non ho potuto e non so fare. Sono incapace di dare forma allo sdegno, alla rabbia, a quel poco di senso di giustizia fuggito all’anestetico di cui, volente o nolente, mi nutro ogni giorno. Per sopravivere, per passare cioè sopra la superficie della vita, scivolarci sopra senza passarci dentro, perchè se alla vita ci passi dentro non sai se ne esci vivo.

E così ti abbiamo nutrito di solitudine e tu sei diventato un gigante.

L’ho sentito con le mie orecchie. Ti criticano in molti e chissà da quanto tempo. Hai fatto un gravissimo errore, quello che sempre meno viene perdonato: ti sei schierato. Hai detto a tutti, gridandolo, da che parte stavi! Ma è mai possibile che nessuno ti abbia detto che schierarsi uccide? A schierarsi si resta nudi e si diventa bersagli. Tutti saranno pronti a mostrarti la follia della tua scelta, l’imprudenza, la non ragionevolezza. E poi è fin troppo facile dimostrare il tuo errore. Nel fitto groviglio della situazione Siriana, nel delicato gioco di equilibri di un paese in guerra, tu ti sei schierato. A fianco di amici, di gente che sono il volto della tua vita quotidiana, ma che per noi sono una massa poco definita di ribelli. Un miscuglio di estremismo e di pericolo, fondo torbido e opaco di quel pozzo nero che noi chiamiamo Islam. Hai scelto di stare con coloro che noi consideriamo assasini, mercenari, estremisti, mine pronte a scoppiare sotto il culo dell’occidente.

Io mica lo so se tu hai ragione. Perchè da qualunque parte della vita ti fermi a guardare la realtà ti dicono sempre che è la parte sbagliata. Ci sono cose che non sai, ci sono cose che non vedi, sfumature che guardate da altra angolazione permettono di avere la visione opposta.

Sempre, ti ritrovi sempre dalla parte sbagliata. E così tutto è vero e falso allo stesso tempo e non ti resta che arrenderti alle ragioni del più forte.

“I cristiani vogliono Assad” – dicono. Hai sempre affermato che non è così.

Ti abbiamo nutrito di solitudine e sei diventato un gigante.

Tu dici di te stesso che se fossi rimasto a fare il gesuita in Italia saresti scoppiato. E infatti per rimanere fedele a quanto avevi percepito vero, dai gesuiti te ne sei andato. E poi sei tornato. O ti hanno riammesso. Dipende da quale parte ti metti a guardare, appunto.

Sei strano – dicono – inquieto. Un po’ matto. Sei uno che se ne frega delle cose così come dovrebbero essere. E, infatti, ti sei incamminato tra sentieri di guerra. Sei tornato da dove ti avevano espulso per provare a far dialogare chi è incapace di comunicare se non a colpi di arma da fuoco. Hai fatto quello che non spettava a te, secondo quella distinzione di ruoli e responsabilità che ci rende tutti colpevoli e tutti innocenti. Un’invasione di campo, la tua.

Ti abbiamo nutrito di solitudine e sei diventato un gigante.

E la politica, che di pane e di polvere tra i piedi non se ne intende, adesso aggiungerà sangue a sangue. Un’addizione che non aumenta, ma sottrae vite alla vita. Anche la nostra democrazia non conosce che il rombo cupo delle armi per curare l’anemia di dialogo.

La comunità internazionale ha fallito. Ancora, di nuovo. E le comunità cristiane? Forse solo i tuoi compagni di vita sparsi per il mondo si sono messi insieme per capire, conoscere e pregare.

Io non ho sentito di parrocchie senza sonno, a vegliare per implorare la pace in Siria. O semplicemente di comunità che durante la celebrazione dell’Eucarestia pregano, insieme, come “corpo”, consapevolmente, per la Siria e per la pace. Non ho ascoltato di omelie a suscitare pietà dei morti e dei vivi di questa guerra assurda. Leggiamo fiumi di articoli sulle parole e l’operato di Papa Francesco. Sappiamo tutto, cosa porta nella sua borsa personale quando viaggia, sappiamo dove va, cosa fa, cosa mangia, cosa dice, cosa pensa e a chi telefona e perchè. Ci stupiamo della sua “normalità”, ne facciamo notizia, abituati come siamo a pensare che “religioso” voglia dire diverso, speciale, altro. Tutto il contrario di Gesù che è uguale, umano, vicino. E l’ignoranza del popolo di Dio riguardo alla sorte di milioni di persone in Siria, come in Egitto, come in Somalia o come nelle periferie delle nostre città è una ignoranza sempre meno sopportabile. La scissione tra liturgia e vita e destino del mondo attorno a noi è una ferita che rischia di farci morire dissanguati, tutti.

Allora, ti prego, resisti Abuna Paolo, torna. Dobbiamo tutti rimproverarti per la tua imprudenza, per i tuoi schieramenti extramagisteriali e troppo biblici. Torna a prenderti le nostre critiche e a darci in cambio il tuo sorriso, la tua vita esagerata, il tuo modo di essere eccessivo, imbarazzante, inopportuno.

Le nazioni usano le armi. Noi proviamo a riporre la nostra fiducia nel Signore della storia, così, piccoli come siamo, invochiamo pace e dialogo e pietà.

“Sono forse io il custode di mio fratello?” (Gen 4,9). Si Caino, sei proprio tu il custode di tuo fratello.

Incipit (cose che accadano in cinque minuti, nella vita)

Una fine…
Stringeva tra le mani la tazza calda e gialla, e il vapore della camomilla veniva su avvolgendole il viso. Non si accorgeva delle sue dita divenute bianche per la forza di quella stretta. Le scendevano giù le lacrime, senza che sul viso apparisse alcuna smorfia di dolore, nessun segno di sofferenza. Tutto era dentro, negli occhi. Due crateri ed eruzione d’ acqua e sale. Fu la suoneria del cellulare a destarla dal quel silenzio insonne, rimase immobile, solo si voltò, con la testa, verso il telefono, lesse il nome sul display, lo fissò per alcuni minuti, poi si alzò abbandonando sul tavolo della cucina quella melodia allegra. Appoggiò la testa alla finestra. E il fiato del suo sospiro appannò il vetro. Il mare era nero, rigato di bianco all’orizzonte, sembrava, e lo era, di una ostilità invincibile. Lo osservò per un paio di minuti poi posò la tazza, indossò il cappotto grigio, il cappello, i guanti ed uscì. Amava il vento freddo e quel velo di sale che si posa sulle labbra, tanto quanto odiava l’umidità che arriccia i capelli: “Amore e odio non si separano mai, neppure nelle briciole della vita” – pensò, di sfuggita.
Con passo veloce giunse alla panchina amata, sempre scartata, da tutti, per gli scogli troppo alti, ad impedire la vista del mare. Pochi sapevano, però, per  una cronica anemia di pazienza, che nei giorni di tempesta il mare gli si scaglia contro e come una visione fa la sua comparsa in forma di schizzi e schiuma. Si sedette in punta, con le mani sotto le cosce, un po’ piegata in avanti, in modo da poter dondolare, indietro, avanti. Le parole di lui gli pulsavano in testa come fossero loro a dare il ritmo al cuore e al sangue: “
È stato un errore, ho sbagliato, scusa. Non c’è futuro per noi”. Lei non aveva risposto nulla. Come era solita fare. Lo guardò, si voltò e andò via, avendo l’impressione di sfaldarsi ad ogni passo, di lasciare pezzi di sé lungo la strada, di disseminare corpo sull’asfalto, brandelli di carne e sangue, come una scia.

Interactive "Rain Room" Exhibit Allows Visitors To Control Their Environment

Un inizio…
La neve scendeva ch’era un piacere. Mare grigio e bianco dappertutto. Il giorno di Pasqua. Da non credere! Il saluto del cielo al mio primo giorno di disoccupazione fu una nevicata da notizia in prima pagina: 5 Aprile neve sulle coste della Sicilia! Ed io restavo lì, imbambolata ai vetri della finestra, guardando i fiocchi imbiancare le mie prime ore di libertà e ricoprire, fino a seppellire, l’abitudine del passaggio in edicola, giornali e parole fresche che sporcano di nero le dita. Tutti i miei incarichi, in giro per il mondo, inabissati sotto quel morbido tappeto bianco, insieme ad una lettera di dimissioni scritta al volo, uno squarcio di lucidità. Una lettera di cui non ricordavo più una sola parola.
Neppure una. La sensazione si, quella la ricordavo, però. E’ stato come trovarsi in un uno spazio aperto dopo aver vissuto mille vite al chiuso. Senza aria. Sapevo che, in seguito, un seguito non troppo lontano, sarebbero arrivati i dubbi, le incertezze, quel panico sottile e crudele che attraversa i pensieri come un coltello, quando ci si chiede se si è fatta la cosa giusta. Sarebbero arrivati i pensieri cupi, il senso incerto del futuro, sarebbero arrivate le domande incalzanti e preoccupate degli amici e quelle agitate, concitate di mia madre. Ma, in quel momento, un momento da prima pagina, volevo solo restare imbambolata ai vetri a vedere la costa della Sicilia bianca di una neve rubata a cieli lontani.