“S”, nella tavola periodica indica lo zolfo. Sulfur in latino, Sufra in arabo, in siciliano Surfaro. U surfaro per la Sicilia è odore forte che protegge le viti, che colora le foglie e custodisce l’uva buona. Ma è anche sfruttamento e violenza, il dolore di chi lavorava tra i cunicoli delle miniere ad esplorare l’inferno. Al buio, nudi e mezzi morti, eppure tanto disperati e forti da portare sopra le spalle il peso dello zolfo e di una vita senza futuro. Uomini fin da 7, 10, 12 anni.
(archivio edison)
L’esperienza lo dice, la letteratura lo racconta, la tradizione lo insegna: con la morte si convive cantando. E così i minatori sotto terra, i contadini sotto il sole, cantano, compongono melodie, a sostegno della vita, per corteggiare il destino e sopportare il sudore e i sopprusi dei padroni.
Sembra la descrizione di un tempo lontano, di vicende passate, oggi, qui, adesso, dove la terra si coltiva giocando su facebook e le miniere fanno sentire solo l’eco lontana della loro presenza. Tutto questo, invece, ci appartiene, ancora, quella fatica, quel destino, il sudore e le melodie che sostengono la vita. Si può scegliere: sganciarsi dalla storia o mettersi a scavare, a mani nude, per ritrovar le radici e fare nuovi innesti e desiderare nuovi frutti.
È la decisione presa dai Pupi di Surfaro, band di San Cataldo, composta da giovani musicisti. Dal 2006 i Pupi di Surfaro si son messi alla ricerca della tradizione a cui sanno di appartenere.e qualche giorno fa ho incontrato Salvatore Nocera, voce dei Pupi di Surfaro e autore delle musiche e dei testi e ho deciso di consegnare questo incontro alle pagine accoglienti di Eufemia.
Dalle radici, da lì abbiamo iniziato. Metafora abusata, forse, ma, se usata in assenza di retorica, immagine ancora capace di descrivere con potenza la realtà. La composizione dei testi e delle musiche dei Pupi di Surfaro prende vita attraverso tre fasi di un unico processo: ricerca, studio, elaborazione personale.
La ricerca nasce dalla curiosità, dal desiderio, dalla consapevolezza di non poter essere realmente se non attraverso la conoscenza di ciò che sta dietro di noi, sotto di noi, ciò che ci sostiene, il terreno dal quale siamo emersi, germogliati, nel quale cresciamo. Ma questa curiosità ha bisogno di studio, della lenta assimilazione del patrimonio della cultura siciliana e di tutto sud.
“Ho cominciato ad interessarmi di musica popolare, tradizionale, facendola e facendola malissimo e, dunque, rendendomi conto della necessità di studiare, di lavorare, diapprofondire vari livelli e vari ambiti dello stesso settore. Così, piano piano, i Pupi di Surfaro sono cresciuti“. La terza fase è l’elaborazione, quel momento nel quale ciò che si è studiato, ricercato, desiderato, assimilato deve venir fuori, trasformato e nuovo: “L‘impegno artistico proiettato verso il futuro non decolla se non si conosce cosa ci ha preceduto, cosaabbiamo dietro” – spiega Salvatore Nocera.
“Un albero – continua – se ha radici forti cresce folto. Potandolo, curandolo, lo si può indirizzare verso mille direzioni, ma non si può tagliare il tronco e portare la chioma da un’altra parte, perchè l’albero muore e non porta frutto“.
L’ispirazione, croce e delizia di ogni artista, non è, dunque, esclusivamente qualcosa che ti viene a cercare, quel sentimento, quell’emozione, quel pensiero che, in quanto artista, appunto, si è in grado di riconoscere e di decodificare perchè tutti ne possano godere. L’isperazione vuole spesso essere cercata, scovata: “Scegliere l’argomento, individuare una storia e costruire un percorso drammaturgico. Musica e parole devono nascere insieme, la musica e l’interpretazione camminano di pari passo con la storia che si vuole raccontare“.
Ignazio Buttitta, Rosa Balistreri, Giuseppe Pitrè, Pino Veneziano, sono solo alcuni tra gli artisti siciliani ai quali i Pupi di Surfaro si ispirano. Leggendo alcuni dei testi di questi autori, ripercorrendo la loro biografia, non si può fare a meno di notare come la loro vita artistica sia strettamente legata all’impegno politico e sociale. Forse è la Sicilia che lo richiede, più di altre terre, più di altri popoli: “Per me questa unità è imprescindibile. Io quando recito, quando scrivo, quando canto sono sempre io, Salvatore Nocera, parlo di me, di quello che vedo e sento, di quello che vorrei…non lo so. Non sono un politico. Certo l’artista interpretando la realtà non può far a meno di esprimere un giudizio e il giudizio esprime già un desiderio. La volontà di incidere sulla realtà è implicita nella descrizione che della realtà stessasi fa. Mi rendo spesso conto di quanto le mie proposte siano folli. E però, mipiace pensare che proprio la mia follia possa essere concreta ed efficace“.
Sutta terra è il nuovo album dei Pupi di Surfaro. In questo disco che rappresenta la volontà di “fare sul serio” sono coinvolte diverse realtà importanti: Libera, Addio pizzo, No Muos, Musica contro le mafie. Lo sottolinea più volte Salvatore Nocera: “La cosa importante è mettere insieme la gente, collaborare, fare rete, essere uniti. I Pupi di Surfaro combattono i vincoli, i legami, le gabbie, le costrizioni mafiose, suonando e cantando, mettendoci la faccia“.
Ed è una faccia che piace al pubblico la loro. La musica dei Pupi di Surfaro coinvolge interamente chi ascolta, ne muove il corpo avvolgendolo con la musica e ne attira l’attenzione con le parole. Le canzoni sono vere e proprie storie e non ci si può e non ci si vuole distrarre, fino alla fine. Si balla e si pensa, si ascolta e ci si interroga. Daniele Grasso lo ha capito, e ha deciso di promuoevere attraverso la Dcave records il lavoro dei Pupi di Surfaro adesso che il loro frutto comincia a maturare.
Pupi di Surfaro
Salvatore Nocera ed io diamo forma al nostro incontro utilizzando domande e risposte, parole, silenzio, riflessioni e dubbi. Ci interroghiamo, inevitabilmente, sull’identità dell’artista: “L’artista ha un ruolo fondamentale nella società. Messo all’angolo dai poteri forti cerca di far scricchiolare le certezze. La nostra società si fonda su certezze, su sicurezze finte. Finte, semplicemente perchè le certezze non esistono. E allora perchè continuare a ricercarle? Perchè continuare a basare la nostra vita su di esse? Il compito dell’artista è insinuare dubbi. Scava, l’artista, cerca di andare in profondità e si accorge che la realtà, profonda, non corrisponde quasi mai alla realtà visibile, quella alla quale tutti cercano di aggrapparsi. Questa incongruenza crea già un certo senso di disadattamento“.
Che l’artista sia, in qualche modo, un “disadattato”, lo dicono in molti. Tuttavia sono numerosi coloro che rifiutano etichette, definizioni. Eppure quando è l’esperienza ad essere condivisa, realtà e luogo comune si fondono, al di là di ogni ribellione e volontà: “L‘artista è un disadattato perchè manda a fanculo il mondo ogni giorno e però si rende conto che di quel mondo ha bisogno. É sempre quello che fa fatica ad accettare l’altro, ma, allo stesso tempo, dell’altro, non può farne a meno. Io sul palco ho scoperto e ritrovato il mio spazio. Se non avessi fatto l’artista sarei diventato eremita o vagabando o carcerato, cioè non sarei riuscito a stare in mezzo alla gente in modo normale. L’arte, il palcoscenico, lo spettacolo mi permette di istaurare una relazione con gli altri che non avviene a livello razionale, intellettivo, ma emozionale. Artista è coluiche non riesce ad istaurare un rapporto affettivo vero se non attraverso la propria arte. E fa, paradossalmente davanti a centinaia di persone, con centinaia di persone, quello che non riesce a vivere nella vita quotidiana“.
I Pupi di Surfaro sono uno tra i numerosi buoni frutti che il rinnovato fermento culturale dell’isola sta producendo. In modo costante e silenzioso la Sicilia continua ad esercitare sul mondo un forte potere di attrazione: affascina, innamora, sa strordire e distruggere, ma anche custodire ed esaltare. La fiducia è un sentimento che i siciliani nutrono con pudore. Eppure quasta vita artistica che nel grembo della Sicilia si muove e la mantiene viva, nonostante tutto, alla fiducia mi costringe perchè è anche la mia vita di scrittrice ad essere in gioco: “La forza degli artisti siciliani sta nella loro capacità di innestarsi alle radici della tradizione dando vita però, a qualcosa di nuovo, di inedito. Ciò che ci manca, ancora, è la capacità di incanalare la nostra energia su strade che conducono ad obiettivi importanti“.
I Pupi di Surfaro hanno vinto l’edizione 2013 di Musica contro le mafie con il brano “Cantu d’amuri”: una serenata alla Sicilia, ispirata alle parole e all’esperienza di Peppino Impastato.
Con le parole di Cantu d’amuri si è concluso il mio incontro con Salvatore Nocera; sono parole che ben descrivono l’amore e la rabbia, la dignità e l’identità di chi si ostina a voler esercitare l’arte, a far l’artigiano utilizzando musica e parole, la propria storia e la terra.
Vogghiu cantari no pi fari scrusciu, chiù nun s’abballa e nun si fa baccanu! Unni c’è scuri vogghiu fari lustru, sulu cantannu mi senti omu!
Oggi ho accompagnato una classe alla visione del film “La mafia uccide solo d’estate”. E fino a qui, niente di speciale. Se non il fatto di aver passato una mattina fuori dalle mura della scuola. Il sole era pallido, ma pur sempre sole. E le loro facce, al sole, forse, non le avevo mai viste. Fuori dalle mura di scuola mi son sembrati più piccoli. Come se la città enorme, attorno, restituisse loro la giusta misura. Le spalle libere dagli zaini enormi, pesanti. Solo una borsetta, meglio na’ borza, come dicono loro. Appena il peso lieve di qualche panino avvolto nella carta stagnola.
La visione di questo film è stata preceduta da due lezioni. Due lezioni inventate, da me. Ho utilizzato ingredienti mai mischiati prima e non sapevo davvero cosa ne sarebbe venuto fuori. Volevo mettere insieme giustizia, mafia e vita. E magari, detto così, sembra che tutto questo poco c’entri con il fatto che io insegno Religione. Eppure, per me, la connessione esiste e neppure troppo nascosta.
Nella prima fase di preparazione mi sono scoraggiata. Lo confesso. Prendevo appunti sulle cose che avrei voluto dire, ma tutto mi sembrava sterile, teorico. Mi pareva che quanto avevo da comunicare gli arrivasse come nozione tra le nozioni, come una notizia fra le notizie. E non volevo che fosse così. Allora ho capito che peccare di superbia questa volta mi sarebbe servito. Non dovevo concentrarmi per preparare UNA lezione, dovevo impegnarmi a preparare LA lezione. Così ho pensato di utilizzare il solo talento che, forse, possiedo cioè quello di raccontare storie.
Mafia e giustizia…in astratto non avrebbe funzionato. Poteva funzionare solo se avessi trovato il modo di raccontare la mafia e la giustizia mescolate alla mia storia personale. E non certo perchè la mia storia abbia qualcosa di particolare o speciale, ma semplicemente perchè l’esperienza ha sempre la meglio sulla dottrina. Anche in un caso come questo.
Ho iniziato a raccontare ai ragazzi di quando da bambina credevo che la mafia fosse un virus. Si, una malattia: “Bisogna stare attenti alla mafia, in quel quartiere c’è la mafia, non bisogna avvicinarsi ai mafiosi etc etc.” A Palermo la parola “mafia”, come giustamente sottolinea Pif nel suo film, si impara presto, è una tra le prime parole che entrano a far parte del vocabolario di un bambino. Anche se non la pronuncia, anche se non ne conosce il significato, un bambino palermitano sa che con quel termine bisogna familiarizzare, e in fretta, per poter decidere poi, crescendo, se tale familiarità sarà utile ad evitarla, la mafia, a combatterla o a sceglierla.
Son partita da lontano. Cercando di tracciare delle linee che potessero spiegare come si è passati dalla legge del taglione (di per sè passo notevolissimo di equità) alla “legge uguale per tutti”. Alla fine di questo tracciato, che in molti punti si presenta come un elettrocardiogramma impazzito, ho detto loro: “Mafia è ciò che costringe a chiedere come favore ciò che invece spetta di diritto”. Vero. “Ma a nuddu canusci? Ma a nuddu putemu dumannari?”. Conoscere, chiedere. E non per avere una poltrona in regione alle prossime elezioni, ma per poter fare una radiografia in ospedale, per esempio.
Mentre io crescevo, a Palermo, negli anni ottanta, l’asfalto della città di sangue ne ha bevuto fino a perder conoscenza. Come fanno gli ubriachi che ad un certo punto crollano. E dormono. Cadendo in un sonno profondissimo difficile da svegliare: “Per svegliarli ci vogliono le bombe”, si dice. E infatti. Per svegliare Palermo, di bombe ce ne sono volute almeno tre: una per Chinnici, una per Falcone e una per Borsellino.
Durante queste lezioni, in alcuni momenti, mi son messa paura. E si, perchè mentre io stavo lì a raccontare di queste cose mi sono accorta di avere addosso tutti gli occhi dei ragazzi. Oh, mi stavano ascoltando! Con gli occhi soprattutto. E non gridavo mica, no. Ho pensato, però, che non dovevo lasciarmi intimorire da quegli occhi che ascoltavano. Ormai la storia andava raccontata. Tutta. Fino in fondo.
Così ho continuato a parlare e a mostrare spezzoni d’interviste, immagni di macchine sventrate e corpi rosso sangue. E mentre parlavo e mostravo, erano i pezzi della mia storia personale che si mettevano a fuoco, svelandomi aspetti e connessioni presenti in me e ancora non riflessi. Frammenti di materiale grezzo tutto da lavorare.
Io faccio il compleanno a giugno. Così posso dire di aver avuto un’età per la strage di Capaci e un’altra età per la strage di via D’Amelio. Il computo degli anni si fa in stragi e morti ammazzati se sei nato a Palermo. Anche se la mafia, diciamo così, non ti ha mai privato, direttamente, di relazioni e persone importanti. Io chi fosse Giovanni Falcone non lo sapevo quando Fabrizio Frizzi e Milly Carlucci hanno dato l’annuncio della sua morte, interrompendo per qualche minuto la loro trasmissione: “Scommettiamo che…”. Ricordo però che la signora Carlucci disse una frase in inglese: “The show must go on”. Solo dopo capii che la mentalità dello spettacolo da continuare a tutti i costi aveva lasciato sprofondare l’Italia nel baratro del niente.
Da quel 23 maggio 1992 il nome di Giovanni Falcone mi divenne familiare. Conosciuto. Divenne per me il volto di un uomo con i baffi e la sigaretta in bocca, che quando sorrideva germogliavano le viole dalla terra secca. Giovanni Falcone aveva un sorriso da benedire la vita! Ma, nella mia di vita, c’era ancora spazio per altri baffi e altre sigarette. E così dell’esistenza di un certo Paolo Borsellino sono venuta a conoscenza 57 giorni dopo, quando il rumore di una forte esplosione e una colonna di fumo nero si intrufolarono a forza nella valigia che stavo preparando per recarmi al mare, a San Vito Lo Capo, il giorno dopo. Di quelle vacanze ricordo il silenzio. In spiaggia, l’indomani, c’era il mare, la gente e il silenzio. Silenzio e tanti giornali. E visi seri. Non erano visi da vacanza al mare quelli, erano volti impauriti, paura mischiata al peso della sconfitta e a quello, ancora più amaro, di una rabbia priva di interlocutori che ne fossero all’altezza. Avevo un’età prima del 23 maggio e ne ho avuta un’altra dopo il 19 luglio del 1992. E non solo perchè in mezzo ci stava giugno e il mio compleanno, ma soprattutto perchè ho capito di non poter essere più una bambina. Avevo visto mio papà piangere davanti alle prime immagini dell’attentato. E quella colonna di fumo che saliva dalla città sembrava dirmi chiaramente: “Ehi, signorina, vedi che… non ti difendenderà nessuno, da ora in poi”. I balconi sbriciolati, le finestre sventrate, i lenzuoli a coprire pezzi di corpo, le facce sconvolte dei primi soccorritori. Tutti spaventati e sdegnati. E, da allora, tutti coinvolti. La mafia è entrata così ufficialmente nella mia vita ed io ho capito di essere nata a Palermo.
Ho cercato di comunicare ai ragazzi cosa fossero diventati nel tempo Falcone e Borsellino. Ho cercato di spiegare loro quanto la vita di quei giudici fosse presente dentro di me, come una casa tutta da esplorare della quale non possiedo ancora le chiavi. Guardo dalla finestra, aspettando d’esser capace di aprire la serratura e prendere così possesso di ciò che all’interno vi è custodito.
E mentre sullo schermo della lavagna interattiva apparivano i primi secondi della famosa intervista di Falcone sulla paura e il coraggio, due ragazzini si sono avvicinati al mio orecchio e con un filo di voce mi hanno chiesto: “Ah, prof., ma che davero è lui FaRcone?” – “FaLcone! Si, è lui” – “Ah prof., ma che lei o sa che la faccia sua nun la conoscevo?”. Mi è preso un colpo. Ho pensato: sono stata io.
Sono stata io a mostrare a quei ragazzi, per la prima volta, i vostri volti, miei cari giudici. Compresi di baffi e sigarette. Ero stata io. Mi è parso d’aver fatto una cosa così importante da pensare di poter davvero cambiare mestiere, adesso. Si, come fanno i campioni quando vincono l’oro alle olimpiadi e nel pieno delle potenzialità, si ritirano, perchè in fondo sanno d’aver raggiunto l’obiettivo. Ho fatto esistere i vostri volti e le vostre storie nei volti e nelle storie di un gruppetto di adolescenti romani. Adolescenti di un quartiere di periferia, ragazzini che sanno, da sempre, cosa voglia dire droga e sfruttamento. Ragazzi che, spesso, hanno almeno un membro della famiglia “in gabbia”, come dicono loro; ragazzini abituati a vedere nelle forze dell’ordine (“le guardie”, le chiamano) quasi una minaccia. Adesso questi ragazzini camminano per la strade della vita e sanno di voi. E così, in forza di quella superbia che mi ha portato a concludere oggi questo percorso, posso davvero prendere in considerazione l’idea di rimettere le mie cose in valigia e ripartire. Quello che dovevo fare qui, l’ho fatto. E la cosa incredibile è che non sapevo di doverlo fare…fino a quando non l’ho fatto.
(Relazione tenuta il 4 gennaio 2014. Convegno “Padre nostro che sei in terra”, organizzato dall’Associazione Ore Undici)
La prima cosa è la coscienza dello spazio, sapere che lontano, da un’altra parte, altrove, sta accadendo qualcosa. Anzi, fuori dalle mura di casa tutto sta accadendo in giro per il paese, però occorre sapere dove. E la seconda cosa è il tempo, in quel posto bisogna arrivare in tempo, perché quella cosa accada a noi e non soltanto immaginare che accada. Se lo spazio è anche ampio e distante è necessario differire il tempo dell’azione dal tempo del desiderio, perché partire quando desidereremmo essere già lì è una vana corsa verso una sala vuota. Possedere questa consapevolezza è una qualità che può contribuire a rendere la vita arte dell’incontro. Le anime si incontrano per caso, per curiosità, per determinazione. In tutti i casi l’incontro ha sempre del miracolo. Nella coincidenza la componente magica è più evidente, ma decidere, partire, muoversi a tempo fino a trovarsi nel luogo dove la cosa sta accadendo è miracoloso come la costruzione di tutte le cose immaginate.
Coscienza dello spazio, tempo, luogo, azione, desiderio, coincidenze, incontro. Tutti elementi presenti nei vangeli e tutti elementi che vengono fuori, che ci vengono “incontro”, appunto, nel tentativo di comprendere cosa sia la preghiera.
Vorrei partire dal brano del vangelo secondo Luca: Signore insegnaci a pregare (Lc 11,1). Il cap. 11 inizia con la descrizione dell’ambiente nel quale la scena sta per svolgersi: Gesù si trova in un luogo a pregare. A differenza delle altre volte in cui si parla di Gesù in preghiera, pare che, questa volta, Gesù non sia solo o in un luogo deserto, ma sotto lo sguardo dei discepoli: Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: Signore insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli. Il verbo παύω non si trova negli altri vangeli e in Lc e At non è utilizzato molte volte.
Nel vangelo l’atto di cessare da qualche cosa è legato ad un avvento, ad una novità che sta per accadere: in 5,4 Gesù dopo aver “cessato” di ammaestrare la folla dalla barca ordina a Pietro di prendere il largo e di gettare le reti per la pesca; in 8,24 i venti obbediscono a Gesù e cessano di soffiare; subito dopo Gesù interroga i discepoli riguardo alla loro fede. In 11,1, invece, Gesù conclude la sua preghiera e viene interpellato dal discepolo: Signore insegnaci a pregare! La domanda del discepolo segue immediatamente la preghiera di Gesù. I discepoli lo osservano e, probabilmente, ne restano affascinati. Questa particolare situazione, genera la domanda. La dinamica domanda/risposta è, infatti, strettamente legata alla preghiera. La richiesta del discepolo resta, però, “superficiale”: insegnaci a pregare come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli. Vi è come un doppio livello: da una parte i discepoli osservano Gesù che prega e desiderano imparare da lui, d’altra parte, la loro richiesta è strutturata sul già conosciuto, non riescono a pensare che quanto visto possa condurli verso qualcosa di nuovo. Gesù risponde condividendo con i discepoli la relazione che lo lega al Padre suo. Quando pregate dite: Padre, sia santificato il tuo nome! La relazione padre/figlio non è una relazione sporadica, superficiale, ma quotidiana, di dipendenza anche se non di subordinazione. All’interno di questa relazione si riconosce una situazione di bisogno che esprime una mancanza, insieme alla certezza, però, d’esser esauditi, insieme alla fiducia che la mancanza verrà colmata. La relazione padre/figlio verrà ripresa altrove nei vangeli, in Lc sempre al cap. 11, qualche versetto più avanti, il domandare del figlio al Padre non prevede la possibilità di non essere esauditi: Se dunque voi che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono (Lc 11,13). E, un po’ prima, in Lc 11,8, troviamo un altro verbo che aiuta a comprendere il senso di questo testo e ad approfondire il significato della preghiera: Χρῄζω. Il verbo significa “avere bisogno, essere senza”. E lo stesso verbo utilizzato da Lc in 12, 30 e in Mt 6,32 nel discorso della “Provvidenza”: Il Padre sa che ne avete bisogno. I vestiti, il cibo: il Padre riconosce il bisogno, vede che i figli sono “senza”. Ciononostante Gesù invita a cercare il regno di Dio e la sua giustizia per avere tutte queste cose “in aggiunta”. Quello che è necessario viene dato, ma nel capovolgimento dell’ordine delle necessità. Per chi cerca il regno di Dio il necessario diventa “aggiunta”.
La preghiera che Gesù insegna è una preghiera poliedrica. La relazione diretta Padre/figlio si dilata, ingoblando anche la dimensione “orizzontale”, la relazione fra fra fratelli. Tale relazione all‘intero della preghiera che Gesù sta insegnando ai suoi è la base sulla quale si costruisce quella dei discepoli con il Padre: perdonaci i peccati (imperativo aoristo), infatti anche noi li rimettiamo/perdoniamo (presente) ai nostri debitori. L’humus, il terreno nel quale il Padre nostro affonda le sue radici è l’esperienza, e Gesù innesta questa esperienza nel suo rapporto particolarissimo con Dio, un rapporto che ci viene partecipato, che è condiviso.
Il Padre conosce ciò di cui abbiamo bisogno, afferma Mt in 6,8, ancora prima che glielo chiediamo; per questo non è necessario “sprecare parole”. Il verbo che utilizza Mt è, in 6,7,: βατταλογέω (apax di tutta la Scrittura) “usare molte parole senza senso, chiacchierare, usare vane ripetizioni”. Elemosina, preghiera, digiuno, le tre opere che Mt invita a compiere nel segreto. Cosa è questo “segreto”? Mi sono interrogata a lungo, e credo non sia di facile e immediata comprensione. Osservando i testi mi sono risposta che questo “segreto” può essere inteso come il luogo figurato in cui la relazione con il Padre nasce e si nutre. Mt lo contrappone alla ricompensa che viene dagli occhi degli uomini: Guardatevi dal compiere queste cose in questo modo per essere visti dagli uomini! (cfr. Mt 6,1ss). Leggendo le parole del cap. 6 viene in mente un altro capitolo del vangelo secondo Mt, l’incipit del capitolo 23:
1 Allora Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: 2 «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. 3 Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. 4 Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. 5 Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filattèri e allungano le frange; 6 amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe 7 e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare “rabbì” dalla gente. 8 Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. 9 E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. 10 E non fatevi chiamare “maestri”, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo.
La dimensione del segreto, la relazione, il rapporto padre/figlio e la preghiera sono per l’evangelista un tutt’uno inscindibile. “Il segreto” è luogo teologico d’incontro. Incontro di chi, incontro con chi? Il segreto è il luogo nel quale l’uomo si incontra con se stesso e con il Signore. Il segreto è luogo di relazione intima. Si è davanti a se stessi, si è davanti a Dio. Ogni persona possiede il proprio “segreto”. Il “segreto” è per ciascuno come un abito cucito su misura, che non può essere indossato da nessun altro. Il segreto è il luogo nel quale tacciano le parole, quelle inutili e nascono le parole, quelle sane, nutrienti, le parole intonate. Il “segreto” è l’officina nella quale si costruiscono ponti solidi per raggiungere Dio, se stessi, i fratelli, attraverso preghiera, elemosina e digiuno. È nel segreto che si costruisce la nostra faccia, πρόσωπον (cfr. Mt 6,17), davanti agli altri.
Preghiera come relazione e incontro. Entrambe queste dimensioni, nei vangeli, sono legate alla presenza, alla vita, al corpo di Gesù di Nazareth. E che la preghiera sia una realtà dinamica lo si comprende analizzando alcuni verbi che mettono in relazione Gesù e la gente:
Venire presso (ἔρχομαι + πρός) Leggendo ed analizzando le diverse presenze del verbo, sia nei Sinottici sia in Gv si nota immediatamente come il movimento di “andare presso” sia un movimento reciproco: si va verso Gesù e Gesù va verso qualcuno. E, solitamente, l’andare verso Gesù innesca e precede il movimento dell’altro, la riflessione dell’altro, l’azione dell’altro, alcuni esempi:
Mt 3,14 Giovanni dice a Gesù: Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu viene presso di me?; 7,15: Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di agnello, ma dentro sono lupi rapaci; 14,25: Gesù va verso i discepoli camminando sulle acque; 14,28: Pietro chiede a Gesù di andare verso di lui; 19,14: Lasciate che i bambini vengano a me; 25,36: Ero in carcere e siete venuti verso di me; 26,40: Gesù va verso i discepoli nel Getsemani, ma li trova addormentati;
Mc 1,40: Il lebbroso va verso Gesù; 1,45: Venivano a Gesù da ogni parte; 2,13: Tutta la folla veniva a lui ed egli l’ammaestrava; 11,27: Si avvicinano a Gesù gli scribi , i farisei e gli anziani.
Lc 6,47: Chi viene a me e ascolta le mie parole e le mette in pratica è simile ad un uomo che costruisce la sua casa sulla roccia. 14,26 Se uno viene a me e non odia suo padre suo fratello…non è degno di me; 15,20: Il figlio partì e si incamminò verso suo padre;
Gv 1,29: Giovanni Battista vede venire Gesù verso di lui e lo indica e lo riconosce come Agnello di Dio; 1,47: Gesù vede Natanaele che gli va incontro; 3,2: Nicodemo va verso Gesù di notte; 6,35: Io sono il pane della vita, chi viene a me non avrà mai più fame; 6,37: Colui che viene a me non lo respingerò; 6,44: Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato….chiunque ha udito il padre e viene a lui ha imparato da me; 7,37: Chi ha sete venga a me è beva; 11,29: Maria sente che Gesù è lì e la chiama, subito si alza e va verso di lui. 14,6: Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. 14,18: Non vi lascerò orfani, verrò presso di voi.
Con ancora più forza l’idea di un movimento che innesca relazione è dato dal verbo προσέρχομαι: “Muoversi verso un punto di riferimento, con una possibile implicazione, in determinati contesti di una relazione reciproca tra la persona che si avvicina e chi è avvicinato”. Alcuni esempi:
Mt 5,1: I discepoli si avvicinano a Gesù; 8,19: Gli scribi si avvicinano a Gesù. Lc 7,14: Gesù si avvicina e tocca la bara e resuscita il figlio della vedova.
Altro verbo importante è ἐγγίζω: “Avvicinarsi ad un punto di riferimento”. In un certo numero di lingue non è possibile semplicemente dire “avvicinarsi”, perché è necessario specificare il punto di riferimento, in altre parole: vicino di quanto?
La necessità di avvicinarsi per entrare in relazione, così, come nel suo monologo afferma Capossela: “ma decidere, partire muoversi a tempo fino a trovarsi nel luogo dove la cosa sta accadendo è miracoloso come la costruzione di tutte le cose immaginate”.
I Vangeli, però, contengono anche dei verbi che indicano in modo specifico la dimensione della preghiera: προσκυνέω. Il verbo significa, allo stesso tempo, “supplicare e adorare”. Vuol dire anche: “Inchinarsi per baciare i piedi di qualcuno, indumento orlo, o il terreno di fronte a lui. Ad-orare cioè rivolgere la parola”. Alcuni esempi:
Mt 2: i magi si prostrano davanti al bambino; Mt 4,9: Il demonio chiede a Gesù di prostrarsi davanti a lui; Mt 8,2: Il lebbroso si prostra davanti a Gesù; Mt 8,18: Giairo si prostra prima di chiedere la guarigione della figlia; Mt 14,33: Dopo che Gesù e Pietro camminano sulle acque i discepoli sulla barca si prostrano a lui; Mt 15,25: La cananea si prostra ai piedi di Gesù ed esclama Signore, aiutami!; Mt 20,20: La madre dei figli di Zebedeo si prostra prima di chiedere qualcosa a Gesù. 28,9: Le donne adorano Gesù risorto. 28,17: I discepoli adorano Gesù risorto.
Mc 5,6: L’indemoniato geraseno si prostra davanti a Gesù; Mt 15,9: I soldati si inginocchiano davanti a Gesù per schernirlo.
Gv 4,20-24: 20I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte e voi dite che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare.21Gesù le dice: “Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. 22Voi adorate quel che non conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. 23 Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori.24Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità“; 9,38: Il cieco nato si prostra davanti a Gesù dopo averlo riconosciuto.
Προσεύχομαι: “Prego, supplico, chiedo supplicando. Richiesta alla divinità, ma anche desiderio di parlare con…” Il termine possiede già in sè l’idea dell’insistenza. Alcuni esempi:
Mt 5,44: Pregate per i vostri persecutori; 14,23: Gesù sale sul monte a pregare; 19,13: Gesù impone le mani sui bambini e prega. Mt 26, 36.39.41.42.44: Gesù prega al Getsemani e invita i discepoli a pregare e vegliare.
Mc 11,25: Quando vi mettete a pregare se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perchè anche il padre vostro che è nei cieli perdoni a voi i vostri peccati. 12,40: Gesù rimprovera gli scribi di divorare la casa delle vedove e di pregare a lungo.
Lc 3,21: Gesù dopo aver ricevuto il battesimo sta in preghiera. 9,28: Il volto si Gesù si trasfigura mentre prega; 11,1-2: La richiesta del discepolo nasce dall’osservare Gesù in preghiera. 18,1ss: Parabola sulla necessità di pregare sempre senza stancarsi.(confrontare con la lunga preghiera rimproverata agli scribi di 20,47 e Mc 12,40).
È interessante notare come, nei versetti contenenti i verbi “tecnici” che indicano la preghiera, sia sempre presente la dimensione del desiderio. Positivo o negativo, a seconda dei contesti. Il desiderio di ricevere qualcosa, il desiderio di cambiare qualcosa, il desiderio di essere esauditi. Preghiera come desiderio di parlare con, di raggiungere qualcuno. Preghiera come capacità di perseverenza. Come in alcuni racconti di guarigione, nei quali Gesù “cede” all’insistenza del malato. La preghiera, il parlare a, non è sempre un parlare composto. Tutte le potenzialità della voce vengono utilizzate. Espressione di sentimenti, situazioni differenti che la voce prova ad esprimere: Il pubblicano chiede sottovoce e con il capo chino la misericordia (cfr. Lc 18,14); la cananea urla andando dietro a Gesù tanto da infastidire i discepoli (cfr. Mc 7,24-30); il cieco di Gerico, Bartimeo, si alza in piedi al sentire, dalla folla, che la confusione è causata dalla presenza di Gesù, cosa succede – chiede – “Passa Gesù Nazareno”, gli viene risposto. E lui non sa quanto vicino egli stia passando, eppure getta via il mantello e balza in piedi gridando: Gesù Figlio di Davide Abbi pietà di me. Rimproverato dalla folla, non tace: Gesù, figlio di Davide abbi pietà di me (cfr. Mc 10, 46-52; Lc 18, 35-43). Ecco cosa vuol dire pregare senza stancarsi ma, allo stesso tempo, non pensare d‘essere esauditi a forza di parole.
In tutti questi esempi, le diverse intonazioni di voce sono sempre accompagnate da un movimento del corpo: il pubblicano ha il capo chinato e si batte il petto; la cananea si prostra davanti a Gesù, Bartimeo scatta in piedi. Il corpo è parte fondamentale, protagonista della preghiera. E nel vangelo la presenza di Gesù fa si che la preghiera sia corpo che cerca un altro corpo. La preghiera nel vangelo è materia. È carne, sangue, corsa, fiatone, sudore. E Gesù guarisce, esaudisce la preghiera rimanendo, in un primo momento, su questo stesso piano “corporale”: utilizzando le mani, l’alito, la saliva, il fango, l’acqua (cfr. Mt 9, 20-22; Mc 5, 21-34; Lc 8, 40-56). Avvicinarsi a lui. Andare verso di lui. Sapere che toccare anche solo il lembo del suo mantello, come l’emoroissa, è speranza di salvezza. E proprio in questo racconto la preghiera e la guarigione che ne consegue sono forse l’esempio più intenso della dimensione corporale della preghiera. La relazione fra Gesù e l’emoroissa è una relazione “corpo a corpo”. E’ un contatto lieve, i due si sfiorano appena, eppure entrambi sono consapevoli, lo sanno, d’essersi toccati, entrambi comprendono che qualcosa è successo. Così la preghiera costruisce la relazione: nel segreto sappiamo che qualcosa è successo.
La lettura dei testi evangelici permettono di comprendere la preghiera non come qualcosa “da fare”, basata su elementi esterni all’esperienza. Nessuna preghiera senza relazione, nessuna preghiera senza rimanere, nel segreto, faccia a faccia con se stessi e, dunque, faccia a faccia con Dio. Il segreto come luogo di edificazione di sé, luogo di incontro. Incontro, desiderio reciproco di vicinanza: andare verso, alzarsi, decidere, cercare, cercarsi. Incontro tra persone, identità, esperienza che se non è personale non può essere detta, che se non passa dalla carne non può essere data.
Concludo con un verbo, molto importante nella Scrittura. Il verbo Γρηγορέω: “Guardare, essere o rimanere svegli”; figurativamente essere attenti, vigili, come antonimo per la metafora del sonno come morte, essere svegli, essere vivi. In senso figurato significa anche custodire. Usato nei Sinottici all’interno dei grandi discorsi escatologici per indicare la necessità del vegliare, l’attesa vigile del Signore. Nel Getsemani Gesù chiede ai discepoli di vegliare insieme a lui. Il verbo è utilizzato all’interno della pericope diverse volte e si trova insieme a “pregare”: vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Vegliare, esserci, stargli accanto, starsi accanto, attendere. Aspettarlo. L’attesa è la preghiera ebraico-cristiana per eccellenza, da Israele a Gesù, dall’ascensione ad oggi: Lo Spirito e la sposa dicono vieni! (cfr. Ap 22,17 ). Per questo la preghiera è arte dell’incontro e per questo l’espressione: “Signore insegnaci a pregare” possiede un significato tanto importante, l’espressione stessa è preghiera. E la frase dell’Apocalisse con la quale tutta Scrittura si compie, può essere la risposta a quella richiesta dei discepoli: Signore, insegnaci a pregare, persentirsi così dire, da lui: Si, vengo presto (cfr. Ap 22,20).
Soffiava quel vento maledetto, così forte da rendere impossibile sentire la propria voce, così come la voce di lei. E sentire la voce di lei era l’unica cosa che desiderava, davvero, in quel momento, un momento maledetto come il vento.
Ma lei non parlava. Nonostante le sue labbra fossero socchiuse, come in procinto di dire. Sembrava che le parole fossero lì, tutte in fila, pronte a venir fuori. E così lui le fissava le labbra, per non perder d’occhio lo sgorgare possibile di una sorgente.
Gli occhi di lui, come una riva, linea di confine tra terra e acqua salata. Lacrime in equilibrio, per paura che superassero il confine e che gli accadesse di sparire sotto un salire d’acqua irrefrenabile.
La guardava, senza batter ciglio, per non perderla di vista neppure un istante. La guardava così, come aveva fatto per anni, vicino abbastanza per imparare ogni particolare e ripeterlo a memoria giorno e notte, al risveglio, la sera, per strada, al lavoro. Vicino abbastanza, ma troppo distante per sentire sotto il palmo della mano il calore della pelle, per sentire sotto le dita lo spessore dei nei, le onde della labbra, la seta dei capelli, le ossa sporgenti, la linea curva del naso, la morbidezza del seno. Non abbastanza vicino per amarla, non sufficientemente lontano per scordarla.
Si ricordò di quando la vide sorridere la prima volta. Credeva di perder il senno. E si era guardato attorno, sconvolto dal procedere disinvolto del mondo. Si chiedeva smarrito e commosso come fosse possibile che la vita di tutti continuasse senza incantarsi davanti al quel distendersi della bocca così dolce…come non piantare i piedi davanti a quell’illuminarsi reciproco di occhi e labbra, come non restare lì a raccogliere luce e calore come un mendicante affamato? Avrebbe voluto fermare la gente, afferarla per il braccio e costringerla a condividere il momento: “Ehi dove andate? Ma..ma restate qui, venite con me..non vedete come è bella quando sorride?”. Era accaduto poche volte che gli sorridesse così, eppure, ogni volta gli pareva di poter aggiungere millenni ai suoi giorni di uomo.
Certo, si ricordava, pure, di quando piangeva…della lama affillata che gli tagliava le ossa: una pugnalata per ogni sua lacrima. Si ricordava di come l’universo intero patisse il sussulto dei suoi singhiozzi. Le montagne sembravano schiacciare la terra, il cielo tremava, non era possibile riuscire a fare un passo senza vacillare. Tutto perdeva la sua forma, la realtà sbiadiva i contorni lasciandolo privo di appigli. E quando stava male poi…le capitava spesso. Sopratutto ultimamente. Diventava così pallida, e tossiva. Nei momenti peggiori si accasciava, in ginocchio, come se portasse su di sè il peso del mondo. Teneva stretto il ventre, un abbraccio intensissimo con il proprio corpo. Mangiava poco e troppo spesso, con le ginocchia piantate a terra, si sporgeva in avanti e vomitava cibo misto a sangue. Neppure lo guardava in quei momenti, lei. Eppure lui restava lì non se ne andava, mai. Restava lì sopportando eroicamente di non riuscire ad intervenire per darle sollievo. Restava lì, e quando lei sfinita, in ginocchio, rialzava di poco la testa, lui sentiva il sapore della morte, nel vederla così, stremata e bellissima, con un rivolo di sangue che le colava ancora dalla bocca e i suoi capelli scuri e lucenti impastati con i resti di quel cibo che non era per lei nè forza nè nutrimento.
Non smetteva di soffiare, il vento balordo. Il pensiero che quelle labbra socchiuse potessero finalmente partorire parole che il vento gli avrebbe portato via, lo prostrava profondamente. Posò i suoi occhi stanchi per l’attesa sulle mani di lei. Mani scure e belle. Magre ormai, ma espressive e potenti. Si ricordò, inevitabilmente, di quella volta che, quasi per errore, riuscirono a toccarsi. Fu un attimo, ma s’impresse in lui con una tale potenza…con una forza quasi violenta.
Camminavano insieme, uno accanto all’altra, come sempre. Avevano ormai imparato a procedere con ritmo costante, vicini, vicinissimi, ma lontani abbastanza per evitare il contatto. Ad un certo punto, però, il cammino si fece impervio, la strada dissestata, i sassi aumentarono improvvisamente, sembravano venire fuori dal nulla, una moltiplicazione feroce d’inciampi. Persero il ritmo del loro procedere paralleli e l’equilibrio di lui vacillò. Per evitare di rovinare a terra e batter la testa sui sassi, le afferrò la mano. Lui strinse, lei strinse. E lui non cadde sui sassi. Ma attraverso quella stretta di mani sentì lei in modo così forte dentro di sè che non potè frenare l’istinto di mollare la presa. Gli parve che i sassi gli avrebbero potuto nuocere meno di quella presenza di lei in lui così intensa.
Non gli accadde di toccarsi mai più. E adesso che lei lo stava lasciando, lui avrebbe voluto con tutta la sua anima, il suo corpo, la sua mente e le forze tornare a quel momento. Avrebbe voluto camminare sui sassi e riperdere l’equilibrio, rompere il ritmo del procedere parallelo e afferare di lei non solo la mano, ma il corpo, tutto: i fianchi, le braccia, le gambe, tutto. La pelle, il sangue, le ossa: tutto. Avrebbe voluto sentire fra le mani il pulsare dei suoi organi interni, stringere il suo intestino e il fegato e il cuore. Avrebbe voluto sporcarsi con il corpo di lei, avrebbe voluto sentire fra le dita i grumi del sangue da mischiare al suo in un esplodere incontenibile e furioso di rosso vivo. Avrebbe voluto sentirla addosso per sempre, perdere il proprio odore a favore del suo, mandare in frantumi i confini costruiti a difesa della propria solitudine e sentirsi invaso dalla presenza di lei. Avrebbe voluto. E ora che la vita lo stava lasciando non poteva che guardarla, nè troppo lontano nè troppo vicino e fissare quelle labbra socchiuse e immaginare, nonostante quel vento maledetto, un’ultima volta, il suono delle parole che la sua vita aveva tentato di pronunciare infinite volte.
Ho riflettuto e a lungo, chiedendomi se scrivere quello che sto per scrivere avesse qualche briciola di senso ed utilità. Poi mi son detta che, scrivere quello che sto per scrivere, una certa utilità la possiede per me, una sorta di catarsi artigianale, e che le briciole di senso ed utilità, male che vada, le mangerò io, da sola, che si, la fame non passa, ma sempre meglio di niente è.
Oggi è il 27 di gennaio e si celebra la giornata della memoria. Ed è una celebrazione così importante e talmente conosciuta che non è necessario, nominandola, specificare di quale memoria si tratti. Sto dietro alla cattedra da soli due anni, ma di anni di “scuola dietro ai banchi” ne possiedo a sufficienza per permettermi una qualche riflessione su questa giornata. Posso dunque affermare che questa giornata, a scuola, viene sempre celebrata con particolare attenzione. Sopratutto i professori d’italiano o di storia cominciano a preprarare le classi molto tempo prima del 27 di gennaio.
Il fatto è, però, che io non insegno Italiano nè storia, no. Insegno religione. Si, Religione Cattolica. Ed ora mi fermo e faccio una pausa in modo che tutti coloro che leggeranno questo articolo possano avere qualche minuto per metter mano, con calma, a quel cumolo, grosso e disordinato, di pregiudizi e luoghi comuni che ognuno di noi, volente o nolente, possiede alla categoria “prof di religione”. Fate con calma. D’altronte un tale cumolo lo possiedo anche io, alto alto, grosso grosso. Anzi, penso proprio che il mio cumolo di pregiudizi sia molto, molto più alto del vostro, talmente alto che, quando mi sono iscritta alla facoltà di teologia, mi son detta: “Tutto, ma non l’insegnante di religione”. Si, infatti. E quale sia il bizzarro persorso di vita che si è fatto beffa del mio proposito…non saprei neppure spiegarlo. Ok, ora che avete riflettuto posso dirvi che non porto le gonne sotto al ginocchio né le scarpe di pelle nere con il tacco quadrato, non ho i capelli corti e bianchi modello “sorella di Gesù” e neppure le camicie abbottonate al collo, no. Non prego il rosario tutti i giorni, non appartengo a nessun gruppo parrocchiale, non ho la foto di Padre Pio sul comodino e con buona pace della conferenza episcopale italiana non mi batto per i “valori non negoziabili” né partecipo alle marce contro l’aborto. Non ho neppure particolare venerazione per preti, frati e suore. Credo, è vero, così come posso e so, in Gesù Cristo, ma da prima, molto prima (ne possiedo le prove) che arrivasse papa Francesco! Ah, e ho tre piercing all’orecchio e i capelli blu.
Detto questo, se vorrete continuare a leggere, sappiate che voglio raccontarvi quale inferno ho dovuto patire per preparare, in alcune delle mie classi, la “Giornata della memoria”. Il programma per le terze medie prevede lo studio delle grandi religioni. Così ho pensato di far precedere il ricordo della Shoah dallo studio dell’ebraismo: la storia antica di Israele per poter collegare la spiegazione delle festività ebraiche, la Bibbia ebraica, la cultura ebraica, con tanto di musica, pittura etc etc. Bello, mi permetto di dire e forse lo penserete anche voi. Invece? Invece no. Un incubo! Perché? Perché per prima cosa, ogni volta che entro in classe, in alcune più che in altre, la prima cosa da fare è riuscire a metterli seduti, far sputare le gomme masticate a bocca aperta, con movimento antiorario costante della mascella; ripetere una quindicina di volte di tirar fuori i quaderni, le penne, i libri, ribadire, per il numero degli alunni moltiplicato per due, che non possono andare in bagno durante la spiegazione (perché ci sono quelli che te lo chiedono una volta e pensano che il tuo no sia a scadenza e, quindi, inoltrano nuovamente la richiesta, ogni dieci minuti). Fatto questo, tocca avere riflessi pronti ed inserirsi veloci, con scatto felino in una pausa di silenzio, catturarli e cominciare a dire con tono di voce elevato e occhio penetrante qualcosa che li spinga ad ascoltarti. Così, comincia la lezione. La loro capacità di attenzione ha la stessa durata dell’attesa che separa l’invio del messaggio dalla risposta del destinatario su whatsapp. E la domanda che più spesso mi è stata rivolta è: “Ah prof, ma perchè dovemo studia’ le cose di l’ebrei, io voglio sape’ le cose mia”. Giuro. Vero. Alla controrisposta: “Quali sarebbero le cose tua?”, ovviamente mi si dice: “E che ne so io!”. Continuo, settimana dopo settimana, sentendo dentro me gli smottamenti che precedono la valanga dello sconforto. E gli smottamenti, sappiatelo, non vanno mai mai ignorati! Infatti, il giorno in cui ho cominciato a parlare dell’antisemitismo: significato del termine, origine storiche, difficile e controverso rapporto della chiesa con il fascismo, qualcuno si è sentito in dovere di ridefinire i confini tra discipline esclamando: “Ah prof, ma che c’entrano ste cose co a religione, pare che stiamo a fa’ storia!”. Avrei voluto rispondere: “Zitto, cretino!”, dato che questo ho pensato, e, invece, con una pazienza da far invidia al più ascetico dei monaci tibetani, ho continuato la mia spiegazione fino a quando… Fino a quando mi sono accorta, nonostante stessi scrivendo alla lavagna, (perchè i professori in realtà con il tempo diventano esseri mutanti con occhi e orecchie ovunque: sulle spalle, dietro alla testa, nelle gambe, sui piedi, ovunque!) che due di loro, da una parte all’altra dell’aula, si insultavano reciprocamente dicendosi: “Ebreo, figlio di ebrei!”. A quel punto la valanga è arrivata: il gesso che cade di mano, il colon che si incendia, le mani che tremano. Ma anche questa volta sono riuscita a frenare le parole che affollavano, numerose e furiose il cervello cercando, con sguardo severo, quello che da solo riesce a creare silenzio, di fare uscire dalla mia bocca non un fuoco capace di incenerirli tutti in pochi secondi, bensì un discorso pacato che potesse aiutarli a capire quanto fossero totalmente deficienti, nella speranza di raggiungere il deposito, la sede della vergogna, che però, secondo me, non è stata data loro in dotazione. I due che si insultavano, ve li presento, sono: un ragazzo borderline che ha diritto al sostegno (ma giammai nell’ora di Religione, che, si sa, niente vale nella scuola e niente merita, noi sporchi privilegiati, figli meticci dei patti lateranensi), e un ragazzo di sedici anni circa, con la barba, che da grande – afferma – vuole fare il “pappone”. Credetemi, sia io che i miei colleghi, abbiamo fatto di tutto per far capire al futuro pappone che non può mettersi sullo stesso piano di un ragazzo che ha difficoltà di comportamento e di comprensione della realtà. Eppure, non devo essere stata particolarmente convincente, forse perchè penso che, comunque, il vero borderline bisognoso del sostegno sia il sedicenne futuro manager di prostutite.
Ve la faccio breve: il mio discorso non è servito a niente. Le mie lezioni non sono servite a niente. A niente la musica, a niente la pittura. I due ragazzi e il resto dei compagni continueranno ad insultarsi chiamandosi “Ebrei”! E basta leggere le scritte sui muri di Roma per spiegarsi certe radicate intolleranze.
Mi si potrebbe obiettare, anche a mo’ di consiglio, che, magari, quella è una realtà troppo lontana dalla vita che stanno vivendo, oggi, ora, e che invece, su altri argomenti, più vicini, più attuali, la loro risposta sarebbe diversa. Grazie del consiglio amici, ma ho provato, e non funziona. Ho iniziato l’anno scolastico parlando della Primavera araba e della guerra in Siria: “Ah prof, st’ arabi oh, ma che ce vengono a fa’ in Italia! Nun ci sta lavoro qui! Ma chi li vole oh!”. Giuro. Vero. E una volta ho parlato dell’Africa e dei km che i ragazzi della loro età fanno ogni giorno per poter raggiungere la scuola: “Ah prof, ma in Africa nun ce stanno l’arberghi pe i safari? Andasserò a fa’ li camerieri nell’arberghi”. Giuro. Vero.
Ora, di discorsi sull’inconsistenza dei giovani e delle nuove generazioni, sinceramente, ne ho piene le tasche. Ovviamente, i ragazzi non sono tutti così, ogni tanto cogli uno sguardo, una parola di qualcuno che senza parlare, ti dice: “Ok prof. Ci sono, ho capito, grazie”. Anche i discorsi sull’incompetenza degli insegnanti mi hanno stufato, sopratutto perché io li vedo lavorare i miei colleghi e tranne poche eccezioni, sono persone piene di idee che cercano di fare il proprio lavoro nonostante la scuola ormai sia come un corpo che sta per esalare il suo ultimo respiro. Io non lo so se esista qualcuno, qualcosa a cui si possa o si debba attribuire la colpa di tutto questo. Solo mi chiedo cosa posso fare io, con un’ora a settimana, senza poter mettere un voto che faccia media, sempre in bilico, ricattabile dal vicariato che continuamente valuta e verifica la mia idoneità all’insegnamento, attaccata dai colleghi di sinistra perchè non si deve insegnare religione a scuola (e magari non conoscono neppure il contenuto dei programmi che sono, tra l’altro, programmi ministeriali), attaccata dai colleghi di destra perchè sto troppo a sinistra, minacciata dai dirigenti perchè non devo lasciare i compiti nè mettere le insuffuficienze, altrimenti poi i genitori non iscrivono i figli nella nostra scuola e…l’azienda fallisce.
I genitori. Qualche settimana fa ho messo una nota (cosa che non faccio mai, dato che non gliene frega veramente nulla di ricevere una nota). L’ho ritenuto necessario, però, dato che, in una seconda media, due compagnetti, un maschietto e una femminuccia, non hanno avuto remora di litigare in mia presenza e di dirsi vicendevolmente: “Tua madre è buttana”. Ecco, la mamma del maschietto ha risposto alla mia nota sul diario scrivendo: “Ah Prof (pure le madri, no!) dica a B. (la compagna) di portare rispetto, altrimenti vengo direttamente io in classe”. Giuro. Vero. Ed io, dopo aver fatto ingoiare al mio fegato un kilo e mezzo di bile purissima di prima scelta, ho risposto: “Gentile signora, la sua presenza in classe è del tutto superflua. B. è tenuta al rispetto tanto quanto suo figlio, che più volte, con le mie orecchie, ho sentito insultare madri e sorelle dei compagni. Pensi a rimproverare suo figlio”. Così le ho scritto, anche se avrei tanto voluto dirle: “Gentile signora, cerchi di mettere in riga quel disgraziato e maleducato di suo figlio che ogni giorno a scuola, sei ore su sei, scassa continuamente la minchia a tutti!”.
Quale sia il nemico da combattere, dicevo, io non lo so. Non so neppure se esista realmente un nemico. Certo è che molti, alla scuola media, non arrivano come ragazzini desiderosi di crescere. Molti di loro arrivano già a brandelli, fatti a pezzi da famiglia a pezzi, da relazioni taglienti come le schegge dei vetri infranti. Forse dovremmo davvero ripensare tutto, cambiare orari e materie, organizzare percorsi di istruzione e sostegno anche per le famiglie, rinunciare alle lezioni frontali, impegnarli fisicamente, insegnando un mestiere, un’attività manuale fin dalla tenera età.
Ricordare la Shoah è un dovere civile e morale imprescindibile. Guai a noi se smettismo di farlo. Ma la memoria è frutto di una semina che ha bisogno di terreno fertile per mettere radici. Non possiamo continuare a seminare sul cemento armato. Bisogna trovare il coraggio di ricominciare tutto daccapo, il coraggio di rimediare, se ancora possibile, agli errori passati e di evitare che si compiano quelli presenti, i disastri di cui tutti percepiamo con sgomento gli smottamenti. Prima di ricordare dobbiamo risanare. La mattanza della guerra in Siria, la pulizia etnica nella ex Jogoslavia e in Somalia, i cadaveri dei migranti che galleggiano sul mediterenneo. Se far memoria della Shoah non è servito ad evitare tutto questo allora forse abbiamo ricordato poco e abbiamo ricordato male. Forse il modo migliore di rendere omaggio ai sei milioni di ebrei morti durante la seconda guerra mondiale è evitare di costruire una società civile incapace di reagire alle ingiustizie, è non rassegnarsi ad una classe dirigente ignorante e corrotta, è creare sensibilità necessaria ad aver cura e rispetto della “cosa pubblica”. I ragazzi sono stanchi, sfiduciati e arrabbiati, cinici a volte, perchè noi adulti siamo arrabbiati, sfiduciati e cinici. Ma ad essere arrabbiati e cinici, questo si, non possiamo dimenticarlo, sono sempre i carnefici.
Oggi è venerdì.
E ora vado a scuola.
E mi metto un panino in borsa.
E quando suona l’ultima campanella
esco per strada e cammino
e mangio il panino
e giro attorno e mi guardo intorno
e cerco qua e là,
e metto la mano dritta davanti agli occhi,
per veder lontano
venirmi incontro l’uomo sui trampoli, la donna farfalla e il nano!
E la borsa si trasforma
e il cappotto diventa mantello
e vado con loro sotto al tendone
e passa la stanchezza e passa il magone
e mi piovono i brillantini sui capelli
e a vestir le dita tanti anelli!
E con un salto arrivo al trapezio e volo, leggera,
senza rete sotto
e poi le luci e un grande botto
e stelle filanti fra i capelli e applausi scroscianti
e sorrisi pieni di denti.
E resto con loro fino a lunedì
quando l’artista verrà trasformata
in una donna giovane
dalla crisi incastrata
a recitar la parte dell’impiegata-ta-ta
la-la-larallaà!
Ieri ho passato la giornata sui mezzi pubblici. Bus, tram, metro. Ho attraversato la città. Ho incrociato una quantità di persone che non so quantificare e sono passata attraverso pensieri numerosi e diversi. Sui mezzi in movimento i pensieri diventano spaziosi. E non so perchè. Eppure accade, così. Fin dai tempi in cui il sabato sera si andava, tutta la famiglia, in campagna, e in macchina, poggiavo la testa al finestrino e guardando fuori mi pareva di poter arrivare ovunque. Il mondo prende un ritmo diverso, veloce, le figure si sfumano, si allungano. Non esiste pesantezza nè lentezza.
Viaggiando sui mezzi, a Roma, si incontra tanta gente. Spesso capita di intercettare frammenti di conversazione, litigi, racconti, indicazioni. A volte ci sente uniti da una strana sorta di complicità. In fondo – pensavo ieri, guardando i miei compagni di viaggio, ad uno ad uno – so cosa mangerai sta sera o perchè il capo ufficio ti ha fatto perdere la pazienza; so cosa hanno detto i prof sul rendimento di tuo figlio oppure cosa ha fatto quello stronzo con cui sei uscita l’altra sera. I mezzi pubblici sono una condivisione anonima ed estrema della vita. Anche chi concede i suoi occhi soltanto allo smartphone partecipa qualcosa di sè al resto dell’equipaggio. C’è chi scorre il dito sullo schermo con ritmo convulso e disordinato. E mentre lo fa sorride o cruccia le sopracciglie. Oppure si invia un messaggio e poi si sospira passandosi le mani tra i capelli. E si capisce, allora, quanto sia difficile il momento. Spesso mi diverto a leggere i titoli dei libri di chi in metro entra già con le pagine aperte sotto gli occhi e cerco di capire, un poco almeno, a seconda dei titoli, le persone. Sui mezzi pubblici ci sono veri e propri equilibristi, capaci di rimanere in piedi, con i libri in mano, nonostante le frenate da paris dakar. All’ora di punta arrivano i professionisti con quello strano odore che solo le 8 ore di ufficio lascia addosso. Hanno il corpo dentro ad un vestito da riunione importante, al collo la cravatta e la faccia che si scioglie, piano piano, man mano che la strada li riconduce a casa: da facce dure a facce stanche. Ci sono anche brutte facce sui mezzi pubblici, sguardi da non incrociare, occhi infelici affamati di rabbia. Turisti, immigrati, anziani. Ci siamo, tutti. Come un appello senza assenti. Tutti presenti, tutti diretti alla stessa meta ma ciascuno su una rotta diversa.
A volte, invece, ci sente soffocare. Tutto appare squallido: bus, strade, persone. C’è chi spinge, c’è chi urla, chi pesta i piedi e chi puzza. I mezzi pubblici divorano il buon umore e ne sputano i resti agli angoli delle strade. Ieri però il bus andava, procedeva verso la sua meta, scaricando uomini e donne qua e là, ed io ascoltavo musica. Con le cuffie, si, la mia musica, quella che più amo. E mi sono accorta che la musica cambia lo sguardo, lo trasfigura. Cambia la faccia alle persone e la trasforma proprio dentro, davanti ai nostri occhi. Mi è accaduto di pensare che ciascuna delle persone che avevo accanto fosse una storia. Si, una storia, bella o triste, tragica o violenta. E ho pensato che se ci si accostasse alla vita della gente, e forse anche alla propria, con la stessa curiosità e attenzione che riserviamo ai protagonisti dei libri che leggiamo, sarebbe meno duro l’essere uomini tra gli uomini.
Ho pensato che ogni vita ha il diritto di diventare storia: trasfigurata dalle parole, salvata dalla narrazione, redenta dal racconto. Ogni vita dovrebbe passare dalle parole per essere compresa, come una rivelazione di sé a se stessi, prima di tutto. E non è certo il parlarsi addosso o l’imporsi, la violenza di chi non vede oltre la propria vicenda, perchè il racconto è sempre condivisione, la privazione di qualcosa. Le parole sono azione coraggiosa, il rischio dell’affidarsi e lasciarsi custodire da qualcuno. Quando una vita diventa storia e la storia è raccontata con le parole giuste ci si commuove, si sa. Il racconto non è cronoca nera. Forse per questo certe notizie ci turbano, per la violenza delle cose accadute, certo, ma anche per l’assenza di narrazione, per la ricerca morbosa di particolari che si impongono sulla vita, che si sostituiscono alla trama, che inghiottono tutto. La trama è il filo che costituisce la parte trasversale del tessuto ed è un intreccio che non può essere sciolto se non si vuole rinunciare al tessuto, tutto intero. E se la musica trasfigura gli occhi e le parole trasformano le vite, chissà cosa accadrebbe se musica e parole fossero alla portata di tutti.
Penso a quando, tra amici si dice: “Ci sentiamo più tardi, devo raccontarti una cosa!”. Non fare la cronoca di un momento della giornata, ma raccontare, riuscire a far entrare l’altro nella trama della propria vita, dare spessore ai personaggi, permettere di vivere e condividere quello che si è vissuto. Per questo non si può raccontare tutto a tutti.
Un buon narratore però, deve saper usare la punteggiatura. Perchè le pause e i silenzi fanno la storia tanto quanto le parole. Senza il silenzio non c’è attesa e senza attesa nessun desiderio.
Le vite più dure sono quelle senza parole. E i drammi più grandi quelli nei quali la comunicazione si interrompe e muore. Niente ci fa soffrire quanto l’attendere da chi amiamo parole che non arrivano, niente come non saper dire le parole che pure sappiamo di possedere. I personaggi dei racconti non sono certo interscambiabili. Senza questo o quel personaggio la storia prende una direzione differente, la trama si infittisce o si allarga e spesso si è costretti ad un finale imprevisto.
Spasimo, spasimare, spasimante. Parola appesa a radici lontane: Stendo, stiro, strappo. Radice europea a doppia punta. Biforcazione che trattiene di un solo ceppo due significati: dolore e desiderio. Essere in preda a spasimi, a dolori molto forti e acuti, e, insieme, desiderare ardentemente/preso dagli spasimi d’amore.
31 dicembre, ultimo giorno dell’anno, gocce che scendono giù lentamente, dopo fiumi d’acqua veloce. Palermo, tutta grigia e bagnata. Sono entrata in macchina, decisa a ritagliarmi tra i drappi festosi delle vacanze uno scampolo di solitudine, un residuo d’intimità, prima di rimpizzare la valigia con i pezzi trasportabili della mia vita e rimettermi in viaggio sulla rotta di un futuro dallo sguardo precario e dai lineamenti incerti.
Palermo senza traffico è privilegio di fine anno. Il Cassaro scorre sotto le ruote della macchina e i palazzi di corso Vittorio strisciano lentamente sul viso mentre procedo in avanti a 30 all’ora. Ai Quattro Canti, i turisti sono pesci surgelati avvolti in plastica impermeabile blu e avanzano, con gli occhi in su, pronti ad abboccare agli sguardi severi delle statue nere di smog. Agli angoli le carrozze immobili sulla schiena di vecchi cavalli dai cappelli rosa e plaid scozzesi sotto il culo di cocchieri senza scuola e parole, abili nel farsi comprendere da facce straniere, a forza di sguardi e mani volteggianti nell’aria. Sembrano personaggi di un film drammatico, cominciato a Palermo secoli fa e ancora lontano dalla fine del Primo Tempo. Da Porta Felice il mare annuncia nera la sua presenza. L’orizzonte si riposa dagli sguardi che sempre lo cercano avidi di spazi, dietro un cumulo di nuvole grigioblu. Eppure è immobile il mare e alla Cala le barche a vela sembrano tutte poggiate sopra la mensola di vetro di un grande appartamento. Scendo, un attimo. Mi volto verso Santa Maria della Catena che sta lì, staccata dalla terra grazie ai suoi gradini di pietra e con le spalle al mare, ha l’aria di chi sa d’essere al sicuro da tutto, con quella fierezza spavalda che solo l’esperienza sa dare, dopo aver affrontato la paura innumerevoli volte.
Sono diretta dove non mi reco da tempo. Tanto tempo. Tempo sufficiente a confondere le traverse e far perdere la strada. Posteggio la macchina a Piazza Marina, lancio uno sguardo complice al Ficus dalle mille braccia a tener stretta la terra, mi fermo davanti a Palazzo Steri. La piazza è un cantiere di polvere e sacchetti di spazzatura in cerca di patria, mi scivola dietro le spalle e mi lascio inghiottire dalle viscere di viicoli sottili. Per le strade soltanto camerieri, davanti a porte di locali, a fumar sigarette, una pausa nel ritmo frenetico della preparazione per la notte dal conto alla rovescia. Cesserà il silenzio e sarà guerra di petardi e scorrere di spumante in vena.
Molte vie del centro storico hanno la faccia nuova, pulita e si affacciano sulle balate antiche con l’orgoglio di una lenta e sudata resurrezione. Dai balconi aperti si sente il brusio di opere in corso. Pentole sul fuoco e litri di capuliato in cui gettare numerosi e piccoli salvaggenti di grano duro. Giro angoli, scopro strade. Da una traversa arriva il grido deciso di una madre: “Salvatoreeee, unni si, disgraziatu, arricampati dintra!”. Le donne in certe strade di Palermo hanno voci potenti di tuono.
L’ho ritrovata. Entro. Trattengo il respiro. Non c’è nessuno. Mi sento come il burattino dentro al ventre della balena. S. Maria dello Spasimo, in ricordo della “Madonna che soffre dinanzi al Cristo in croce”.
Chiesa commissionata e mai portata a termine. Senza fine, come il dolore della Madre davanti al figlio che muore. Pietre. Una sull’altra a toccare il cielo. La testa si piega all’indietro a cercare il confine tra le mura e le nuvole. Gigante antico in rovina sopra la carne viva e fragile della mia presenza. Carezzo con la mano la linea immaginata sul muro. Percorro l’intero perimetro, lentamente, cercando di ritrovare il canto dei monaci, le musiche degli attori, il lamento degli ammalati, la rassegnazione dei poveri, l’odore del grano. Convento, teatro, lazzaretto, ricovero, magazzino. Identità cangiante, mai definita, mai definitiva. Abbandonata, amata, celebrata, dimenticata. Spasimo, dolore e desiderio. Mi fermo, al centro, alzo le braccia, distendo le dita delle mani per toccare idealmente gli archi sventrati che mi sovrastrano per decine di metri. “Dove sono, dove sei?”, balbetto con voce sommessa, senza un tu definito a cui rivolgermi: io, lui, Dio, la città, la vita.
Desiderio e dolore di terra, radici di parole antiche ed esperienza di uomini, ieri e oggi e per sempre. Spasima la mia città, che cerco senza trovare, che desidero senza toccare, che scelgo, senza restare.
Santa Maria dello Spasimo. Alluvioni e terremoti a sommergere e distruggere le pietre, sommersa nella città cieca fino alla resurrezione sulle labbra dei palermitani, il loro stupore sotto strati spessi di ruggine, in mezzo al niente di una città tutta da rifare, ieri e oggi e per sempre.
Palermo, finestre murate, balconi forti di ferro, pavimento d’aria per cadere nel vuoto di rivoluzioni addensate nei grumi di sangue dei tuoi martiri. Palermo che costruisci le case ai cani nelle strade povere e ti nutri di polvere antica nel tempo che passa senza azione, appoggiata ai muri.
30 dicembre 2013 ore 7.15. Come ogni mattina ho acceso il pc e aperto le pagine dei quotidiani. Schumacher è in coma, la Russia muore di rabbia e si illude di punire i tiranni bruciando di fuoco i figli innocenti; la terra trema a Napoli, l’Etna esplode di forza sotteranea, di magma incontenibile; 151 bambini muoiono, ad Aleppo.
Tutto è lì davanti ai miei occhi, tutto è lì, troppo distante dalle mie mani. Clicco, leggo, scorro le parole, le pubblicità accendono di luci lo schermo – “Guarda noi, pensa a noi!” – sembrano dirmi. E poi, poche righe, in un angolo, senza spessore. E i miei occhi ci si schiantano, contro: “Morto per freddo un senza tetto a Palermo”. Per freddo? A Palermo? – Mi chiedo, d’istinto – La domanda rimbomba, eco nello spazio vuoto tra il mio corpo e il vecchio pigiama di pail ormai troppo grande, per me.
Mi inoltro tra quelle parole senza enfasi di notizia, briciole di cronaca locale che cadono giù dalla bocca affamata e vorace del mondo. Guardo la foto di quella montagna, cima irragiungibile, di coperte e cartoni. Guardo. Sembrano tutte uguali queste catene montuose agli angoli delle strade: stracci, sacchetti, cani e cartoni; senza segnaletiche per indovinare identità, la storia di chi ci vive, sotto. Questa volta, però, le coperte sono paesaggio familiare. Io le ho viste, con gli occhi miei, non da dietro uno schermo, ma in diretta, dall’obiettivo dei miei passi frettolosi, distratti. Sono passata, io, da lì. La sera prima. Ed era tutto come nella foto. E ancora, nella foto, il cane sta lì, così, seduto ai piedi di quella catena montuosa di lana e carne, fermo, serio, come un soldato. Io sono passata, da lì.
E il passo ha rallentato, di poco. Solo il tempo per cercare gli occhi della persona accanto a me, scambiare con lui uno sguardo, triste, cercare conforto nei suoi occhi belli e poi…e poi andare, oltre.
E ora, ora cerco in modo frettoloso e disordinato, dentro di me, motivi credibili di assoluzione, mettendo tutto l’animo in disordine. Non trovo niente. Niente di credibile, nessun avvocato che mi difenda, niente che valga la vita di un uomo.
Forse era già morto. Era tutto così immobile dentro ai tornanti di quelle montagne. Forse. Ma i passi non si fermano davanti alla morte? Si. Non i miei, però. Forse era ancora vivo. E ancora lo sarebbe se avessi saputo interpretare l’indugiare dei muscoli, il frenare delle ossa dentro ai miei piedi. Se avessi ascoltato il mio corpo! Se avessi dato ascolto a quel velo che mi ha scurito gli occhi di una tristezza sapiente, umana, istintiva! Sarebbe ancora vivo. Forse.
E continuo, in modo concitato, con il fiato spezzato e gesti veloci, a cercare ragioni, scuse, perdono: Cosa potevo fare! E’ pericoloso, spesso, avvicinarsi a questa gente! Posso mica fermarmi davanti ad ogni povero? Posso mica fermarmi davanti ad ogni povero….Posso mica fermarmi…posso…ogni povero…io…non posso…ogni….non posso….ogni povero.
“Secondo una prima ricognizione sul corpo il cadavere appartiene ad un uomo di una sessantina d’anni”. Spedizione di esperti sul territorio di carne d’un uomo solo. Adesso, che sei morto, ci raduniamo attorno a te. Avvoltoi coraggiosi su corpi senza vita, uomini spaventati da barriere di cartone.
NUTRIRE, deriva dalla radice na-, nu- = colare, stillare. Presa similitudine dal latte che sgorga dal seno della nutrice. Alimentare, mantenere, far crescere.
SPERANZA, dal latino – spes = aspirazione o anche dall’anglosassone – spuon,
– spowan = succedere. Intender con l’animo verso un bene futuro e quindi stare in attesa di una qualche cosa desiderata.
Auguri da Eufemia.
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