Di notte, a Palermo.

(foto di Lucia e Giulia Lo Porto)

(foto di Lucia e Giulia Lo Porto)

S’addummisciu lu celu
e lu scuru mi trasiu nta l’ossa.
Lu cori, lu me cori si voli manciari!
Pi saziarisi di tia, ca dintra di mia t’ammucci.
Ti truvau a tenebra, amori miu,
ma io scappo e curru
e t’addifiennu e ieccu vuci,
ca lu scuru si scanta
di li peri nudi
ca currunu nta la notti
,
si scanta di l’occhi mei
d’amuri addumati,
si scanta di mia ca cantu,
di li balati ca luciunu di luna,
di i statui vistuti di biancu,
di la storia,
ca ferita a morti un chiui l’occhi
e s’attacca a li mura
e risisti.

Si è addormentato il cielo
e il buio mi entra nelle ossa.
Il cuore, il mio cuore vuole divorare!
Per saziarsi di te, che dentro di me ti nascondi.
Ti hanno trovato le tenebre, amore mio, ma io scappo e corro
e ti difendo e grido,
perchè le tenebre si spaventano
dei piedi nudi che corrono nella notte,
temono i miei occhi vivi d’amore,
si spaventano di me che canto,
della strada che brilla di luna.
delle statue vestite di bianco.
della storia che ferita a morte
non chiude gli occhi,
ma si attacca alle mura
e resiste.

Non l’ho fatto apposta

Foto di Alexandre Chamelat

Foto di Alexandre Chamelat

L’estate che sta  per nascondersi alle nostre spalle mi pare sia durata appena un momento. Un tempo piccolo ma profondissimo, tanto da contenere il mio epico ritorno a Palermo, il diffondersi raccapricciante dell’Isis, la follia omicida dei bombardamenti su Gaza, la morte di Robin Williams e perfino qualche briciola di vita quotidiana: giornate al mare, sere sul dondolo ad ascoltare i grilli, molti gelati e le risa degli amici.

Ma oggi, beh, oggi è il 1° settembre. Il giorno mitologico nel quale mia madre spariva da casa per venire divorata, fino al prossimo giugno, dal mostro dai mille volti: la scuola.
Da un po’ di tempo, questo mostro poliedrico divora anche me. Quest’anno a Palermo, però. E non è affatto un particolare di poca importanza. Ovviamente precaria, ovviamente incarico su due scuole. Più o meno il rituale del 1° settembre mi è familiare, ma ogni anno, devo dire, mi riserva sempre nuove sorprese. Quest’anno poi si tratta di scuole superiori e anche questo particolare non è di poca importanza.

Arrivo puntuale. Entro, mi dirigo al banco del collaboratore scolastico. Lo trovo circondato da cinque uomini dei quali non riesco a capire la funzione e lo riconosco per la sua posizione centrale, di comando, e perchè, ogni tanto, si sporge a controllare coloro che varcano la soglia: “Salve, io sono una nuova docente”. Lui, da seduto, mi guarda, dalla testa ai piedi, lentamente (siamo a Palermo appunto) e mi dice: “Mi fa veramente piacere, signorina”. Non posso rendere l’accento né la mimica facciale, ma vi assicuro: uno spettacolo! Mi indica il luogo nel quale si terrà il tanto famigerato Collegio dei docenti, ma non sto molto attenta alle sue indicazioni, so che mi basterà seguire il flusso migrante degli uomini (pochi) e delle donne (tante) e il rumore, allegro e scoppiettante, delle chiacchiere. Mi guardo attorno, davvero la scuola è lo specchio della società. E la società palermitana è, infatti, tutta degnamente rappresentata. Sono ancora in piedi che si baciano, si abbracciano e si guardano in cagnesco. A differenza di Roma, qui si è abbronzati tutti, belli e brutti, ricchi e poveri. A Palermo ci si abbronza con l’aria, lucida e calda anche nei luoghi più lontani dal mare. Si accosta un collega, giovane: “Sei una nuova collega?” (la domanda più gettonata della giornata), vorrei rispondere: “No, sono la commessa del supermercato, volevo vedere se è vero che gli insegnanti non fanno nulla tutto il giorno”. Invece sorrido e rispondo di si. “Insegni religione, dunque? – mi dice – Avrai di che riflettere”. Ma che vuol dire? Forse nota nel mio sguardo una punta di smarrimento e aggiunge: “No, è che ca su tutti vestiti alla moda, ma la testa ce l’hannu vacanti”. Ah. Acquisisco l’informazione. Il Collegio comincia, procede e finisce nel brusio totale e costante. Cerco di ascoltare le parole della preside e allo stesso tempo non rinuncio al mio vizio di rubare qua e là spezzoni di dialoghi, nutrimento prezioso per le mie storie.  Non posso voltarmi in continuazione e allora ascolto, tanto avrò un intero anno per abbinare le voci ai volti corrispondenti. Non resto delusa. Scopro che il collega dietro di me ha fatto un lungo viaggio in macchina, in Spagna, ma ci tiene a sottolineare che non accadrà mai più perchè gli è venuta la gastrite e pure le emorroidi, per la cronaca. C’è chi racconta dei figli, chi dei nipoti, chi si lamenta di guai che gli hanno rovinato l’estate, chi è traumatizzato dal pensiero che dovrà ricominciare a svegliarsi presto. C’è chi sparla i colleghi, chi si sottopone, sereno e rassegnato, al terzo grado della vicina di sedia.
A Collegio finito, faccio un giro delle aule: la scuola senza i ragazzi sembra un enorme mostro che dorme. Quando arriveranno sarà tutto più chiassoso e meno spaventoso, spero.

Guardo l’ora, scappo. Devo raggiungere l’altra scuola, almeno per conoscere gli impegni della settimana. Chi arriva a Collegio terminato con la scusa di essere stato nell’altra scuola ha poche speranze di risultare simpatico al primo impatto. Qui sarà tutto in salita. E infatti, su suggerimento della segretaria, raggiungo l’ufficio della vice-preside e la trovo al suo tavolo circondata da un gruppo di fedelissimi. Busso, entro, interrompo, mi presento. Questa volta li deludo per ben due volte: la prima perchè erano sicuri di indovinare la mia età: “Non hai più di 28 anni!”, e io invece affermo con convinzione di averne 34; la seconda perchè non si aspettavano che una giovane o presunta tale, alta quasi un 1,80 mt con tre piercing all’orecchio potesse insegnare religione. Mi guardano talmente seri dopo la mia risposta che a me viene da dire: “Si, sono una prof.ssa di Religione, ma…non l’ho fatto apposta”.

Alle 12.30 riprendo la via di casa. Spossata dal caldo, dalle valanga di parole ascoltate, da tutti quei volti che non conosco e  che nascondono storie di cui non so ancora nulla, alcune delle quali, in un modo o in un altro entreranno a far parte della mia. Li guardo i miei nuovi colleghi e mi chiedo a quali di loro, di sinistra, forse, dovrò dimostrare di non essere bigotta e ottusa, a quali cattolicissimi prenderà un colpo quando sapranno che non porto al polso il bracciale di p. Pio e che non so nulla sulle apparizioni della madonna, chi mi fermerà tra i corridoi chiedendomi con aria minacciosa e disperata cose come: “Ma se Dio c’è, perchè il male?”; chi sarà disposto ad ascoltarmi, con chi potrò collaborare, chi sarò capace di avvicinare davvero. Non ho potuto fare a meno di notare, negli uuffici, quei crocifissi messi all’angolo, adornati con fiori di plastica tra la croce e la parete o con secchi rami d’ulivo risalenti a chissà quale pasqua e mi chiedo se saprò dire una parola, una sola parola vera, sensata, umana su di lui. Poi mi informo con la segretaria dai capelli ossigenati riguardo alla firma del contratto:
– “Aaaancora! Presto è!”.
– “Ma…veramente a Roma ho firmato nelle prime settimane di settembre…”.
– “N’ca picchì signorina lei a Roma era?”.
– “Si”.
– “E a lei cu ciu fici fari di tornare a Palermo!”.
– “Ma…Non l’ho fatto apposta”.
Si ricomincia, insomma, a vivere in equilibrio disinvolto su superfici verticali.

In attesa di verità e giustizia

Riproponiamo, a quasi un anno di distanza, questo articolo. Oggi, proprio oggi. Per ricordare Paolo e gli agenti della scorta. Dall’anno scorso poco è cambiato…Se non il fatto che “Eufemia” è tornata a Palermo, ma senza guarire dalla sua nostalgia. Palermo ti riempie di nostalgia di sé anche e sopratutto se ci vivi dentro.

In attesa di verità e giustizia.

O a Palermo o all’inferno!

Da quando ho deciso di tornare a vivere a Palermo ho l’impressione che tutto a Roma mi rivolga lo sguardo. La città mi guarda, mi guardano le strade, i platani, i gatti di Torre Argentina. Mi guardano i turisti, i conducenti dei bus, i gabbiani, il Tevere, il Cupolone. Mi guardano senza fiatare. Non dicono nulla. Uno sguardo muto e intenso. Uno sguardo al quale non si può rispondere se non con occhi muti e intensi.
“A Palermo?” – mi ha chiesto un’amica, al telefono, con un tono interrogativo simile a quello che avrebbe avuto se gli avessi detto che ero in partenza per combattere la guerra santa in  Pakistan.
– “Si, a Palermo”, ho risposto io.
– “Ma l’insegnamento lì te lo danno?”
– “No”.
– “E quindi lasci uno stipendio sicuro, a Roma, per tornare a Palermo…”
– “Ehm…Si”.
– “A Palermo?”.
– “Si, ti ho detto, a Palermo”.
– “Che immagino sia la stessa Palermo dove siamo cresciute e dalla quale sono scappata”.
– “Si, è la stessa”.
– “E tu ci torni dopo tre anni di vita a Roma dove hai un lavoro sicuro senza garanzia di un qualsivoglia stipendio…”
– “Esatto”.
– “Aaaaaah… (silenzio). Ma perchè????????”.
– “Non lo so esattamente. Ma devo farlo, anzi no non devo, voglio farlo…So che è giusto così, so che voglio provare a vivere con le cose che Roma ha donato a me, di me”.

Roma, tre anni fa sono arrivata da te con degli obiettivi da raggiungere, una manciata di desideri e qualche dubbio. Adesso ti lascio con molti obiettivi mancati, desideri inediti e una valanga di dubbi. Quello che ero te lo sei rosicchiato poco a poco, quasi senza che io potessi accorgermene per poter lottare con te ed evitare che accadesse. Hai estirpato con pazienza quasi tutte le cose che pensavo di sapere e che credevo di dover/voler essere. Son partita da casa tanto pigra da non voler fare neppure un bollettino alla posta, adesso torno a Palermo in grado di far ripartire la caldaia, smacchiare i vestiti, cucinare, sterminare le formiche, entrare e uscire dall’ospedale, litigare con i vigili urbani, farmi le punture da sola, dire la mia ai consigli di classe, leggere un contratto, tenere a bada 400 ragazzini a settimana, asciugare le prime lacrime di un cuore spezzato, compilare il modulo per le ferie, usare un registro elettronico, capire come si entra e si esce dal raccordo anulare; so organizzare una rassegna stampa e so come si gestisce la diretta di una trasmissione radio, so fare la scaletta di un programma e so che non bisogna credere a tutto quello che viene detto nei corridoi della Rai. E, alcune volte, so perfino fare queste cose quasi contemporaneamente.
Mai avrei immaginato quale vita mi stavi preparando mentre abbattevi ciò che conoscevo, Roma città piena di segreti. Mai avrei immaginato di saper resistere alla vita con tale costanza, mai avrei creduto di saper condividere il pane del mio lavoro con la solitudine di cene piene di inverno.
Roma, mi hai insegnato a saziarmi delle briciole, raccolte con pazienza nei lunghi tragitti in tram. Racimolare i frammenti della vita degli altri e poi rovistarci dentro alla ricerca di un’esistenza che tutti ci accomuna. Ho mille tramonti di cui ringraziarti, infiniti passi donati, generosi e furiosi, alle tue strade.
Roma, che mi hai nutrito di Pasolini e temporali, di strade innevate a festa e di notti calde in attesa di vacanza.
Roma, che mi hai insegnato a parlare e che generosa e severa mi hai fatto recuperare con fretta violenta il necessario per vivere.
Roma, che hai mischiato la mia carne e il mio sangue con la carne e il sangue di tutti. Roma benedetta, che mi hai insegnato la bellezza di essere normale, di camminare sconusciuta e sola dentro all’ammasso intricato del mondo:

Stupenda e misera città, 
che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci 
gli uomini imparano bambini,

le piccole cose in cui la grandezza 
della vita in pace si scopre, come 
andare duri e pronti nella ressa

delle strade, rivolgersi a un altro uomo 
senza tremare, non vergognarsi 
di guardare il denaro contato

con pigre dita dal fattorino 
che suda contro le facciate in corsa 
in un colore eterno d’estate;

a difendermi, a offendere, ad avere 
il mondo davanti agli occhi e non 
soltanto in cuore, a capire

che pochi conoscono le passioni 
in cui io sono vissuto:
che non mi sono fraterni, eppure sono

fratelli proprio nell’avere 
passioni di uomini 
che allegri, inconsci, interi

vivono di esperienze 
ignote a me. Stupenda e misera 
città che mi hai fatto fare

esperienza di quella vita 
ignota: fino a farmi scoprire 
ciò che, in ognuno, era il mondo. (P. Pasolini)

Roma, adesso devo andar via, proprio adesso che ho imparato a vivere insieme a te la lunga lotta del trascorrere quotidiano del tempo. Torno a casa, ma non torno a ciò che ho lasciato. Di quanto ho lasciato non esiste più nulla se non il mare e l’affetto di una famiglia che non è solo legame di sangue, ma radici pazienti e profonde che ci intrecciano gli uni gli altri. Lo so che Palermo è una città feroce. Ma so che posso reggere il suo sguardo adesso. Lo so che Palermo non avrà riguardo per me e che non mi riserverà nessun trattamento di favore per essere tornata. Rimmarrà così com’è, bellissima e violenta e quando incassando i suoi colpi  mi accascerò con un filo di sangue che esce dalla bocca, lei mi dirà seria e con voce ferma: “Io non ti avevo promesso niente”.
WP_20140530_044Palermo che non prometti niente, io torno da te lo stesso. Posso, adesso, che ho imparato a sopportare l’assenza del compimento. Voglio, adesso, che non sei una resa, ma una scelta. Posso, adesso, ora che ho imparato a non aver paura dei miei squilibri ora che sorridendo apro la porta ad una strana e folle forza che diventa parole da scrivere e disegni tra le dita, idee e progetti da rischiare, ora che la vittoria la vedo nella possibilità di esistere e non soltanto nella capacità di realizzare, anzi, ora che la vittoria non è più un traguardo da tagliare.
Palermo Palermo, è inutile che mi guardi così. Io lo so. Lo so che queste cose che ho imparato sono solo una piccola parte dell’equipaggio necessario a vivere dentro al tuo assedio. Ma io torno lo stesso.
Torno sapendo che ti maledirò e ti amerò, e ti urlerò dietro la tua crudeltà e rimarrò muta davanti a te. Ma se non torno, adesso, i semi che Roma mi ha piantato dentro non marciranno e non ci sarà frutto. E non provare a vivere secondo quanto si intuisce vero è l’unica morte che oggi temo.
Bixio: Generale, finalmente siamo giunti nella tanto desiderata città di Palermo.
Garibaldi: Nino, domani a Palermo.
Bixio: Riusciremo ad entrare in questa città, generale?
Garbaldi: Nino, o a Palermo o all’inferno! (M. Cuticchio).

Mare ingordo, deserto ladro.

“Abbiamo perso le scarpe nel deserto”. E’ la frase pronunciata dalle donne migranti arrivate in questi giorni, scalze, al porto di Trapani.
Io il deserto lo conosco a granelli sparsi, portati dallo scirocco sui balconi della mia città. E senza scarpe lo sono spesso nei sogni, nei sogni brutti, nei sogni che danno sfogo e offrono chiavi d’interpretazione alle inquetudini del giorno. Senza scarpe lo sono sulla sabbia del mare, quando l’estate diventa vacanza e granite al limone. Se corro sulla sabbia è per giocare, per non bruciarmi i piedi, dall’ombrellone al mare.
Mi chiedo cosa si provi a partire dalla propria casa con le scarpe e a raggiungere una terra straniera a piedi nudi.
Il deserto non è fatto per correrci dentro, il deserto se ci corri dentro si mangia le scarpe.
Il deserto non è fatto per la paura né per la fretta. Il deserto, la paura e la fretta spogliano i piedi. Nel deserto la disperazione è un carburante, fa macinare i Km. Così raccontano, le donne senza le scarpe. Raccontano di fuga, di granelli infiniti come la disperazione.
Il viaggio dall’Africa all’Italia è fatto di sabbia e acqua, di deserto e mare. Di contrari e di eccessi, dune e onde, calura e notti fredde. E di buio. Perchè il buio del deserto è come il buio del mare, è il buio più scuro che c’è. Attraversare il deserto, attraversare il mare. Il deserto ruba le scarpe, il mare si mangia gli amici, le amiche, i mariti, i figli, le figlie, i fratelli e le sorelle. Mare ingordo, deserto ladro!
Le donne che attraverano il deserto hanno i piedi scalzi, lasciano andare via le scarpe per arrivare alla meta. Tengono stretti i bambini fra le braccia e i loro uomini attaccati agli occhi, per non perdersi, per non raggiungere da vedove le sponde della speranza. Nel deserto il mondo si capovolge: non si fugge per vigliaccheria, si scappa per overdose di coraggio. E non si corre lontani dalla morte, gli si va incontro per un corpo a corpo, a viso scoperto.
A cosa si penserà mai su quei gommoni, senza spazio, senza corpo, senza voce e senza scarpe; quale potenza possiede la vita quando la sopravvivenza è il maggior desiderio possibile?
Quando muore qualcuno, qui, da noi, pensiamo, nel dolore, ad occuparci del corpo: noi vestiamo i morti, cerchiamo di dar loro un aspetto dignitoso, compriamo le bare, organizziamo i funerali. Le donne senza scarpe no. Non vestono nessuno, non si occupano del corpo. Quando si muore sulla barca gli scafisti buttano i cadaveri in mare, quando si muore in mare i pesci vedono la morte invadere, prepotente, i loro abissi. I pesci non hanno le scarpe, neppure loro. Non hanno i piedi e non hanno le braccia. “Se solo i pesci avessero le braccia!”. Forse pensano questo le donne mentre vedono gli amici e i mariti, le sorelle, i figli e i fratelli affogare, giù. “Se solo gli uomini avessero un cuore!”, pensano forse i pesci, mentre la morte nera prende possesso della loro vita blu. 185944312-1e9c55fe-bc3d-401f-8fb5-b45a9041d00e
Chissà cos’altro hanno perduto quelle donne nel deserto. Forse i loro ricordi di bambine, i giochi per le strade, le voci delle loro nonne. Forse hanno perduto gli odori delle loro terre, il suono della loro lingua sempre più flebile, correndo dentro al deserto.
Forse il deserto oltre alle scarpe ruba pure i ricordi, così come gli scafisti rubano i documenti. Il viaggio dall’Africa all’Italia ruba le scarpe, gli amici, i ricordi, i documenti. Il viaggio dalla disperazione alla speranza divora identità.
Eppure quando attraccano ai nostri porti le donne a piedi nudi mi sembrano giganti e quasi vorrei io attraccare a quel desiderio di vita che straripa abbondante dagli occhi, forte, come i blocchi di pietra che arginano il mare. Non sanno ancora le donne-giganti a piedi nudi d’essere arrivate in un’Europa abitata da nani deboli, a volte meschini, naufraghi infelici nel loro mare di scarpe.

La quiete della tempesta

Non è vero che la quiete viene dopo la tempesta. Accade che sia la tempesta, nel suo accadere, ad essere la quiete.
Giorni di afa, esplosa nel bel mezzo di un’estate che non è ancora riposo per nessuno, se non per i bimbi e i ragazzi, liberati dagli argini stretti dei banchi di scuola.
A volte lo sforzo e la fatica raggiungono il loro apice estremo sotto le mentite spoglie della vita quotidiana, una corda tesa all’infinito. La terra si spacca, il cuore si asciuga, la polvere è secca e confonde lo sguardo.
Impossibile resistere oltre. Ma, allo stesso tempo, sembra di poter andare avanti così per sempre. L’uomo si abitua a tutto, la natura no. La natura si salva, per istinto, la natura genera la tempesta.
Lavoro, leggo, sudo. Non penso a niente, non penso a niente. La corda è tesa, l’umidità ringhia. Domani come oggi, domani come ieri. Fa caldo. Lavoro, rileggo, non penso a niente, non penso a niente, la corda è tesa, il sole è una pietra, e brucia.
Poi, un attimo.
Le foglie secche raschiano il terrazzo. I gabbiani volano bassi. Il vento si alza, la tenda comincia a danzare. Mi alzo anch’io, mi affaccio, il sole è impallidito, le nuvole si muovono, impazzite, potenti e nere. L’afa si scioglie, come un incantesimo, tutto gira, tutto si muove. E’ giorno, ma è buio. L’attesa scandisce il tempo: adesso arriva, adesso piove. Tutto si gonfia. E poi una goccia, grossa, sola. E poi due e tre e quattro e cento e mille. Non si contano, si ascoltano, è ritmo. Luce. Silenzio. Tuono. Luce. Silenzio. Tuono. Silenzio.
Un attimo, tutto è cambiato. La corda si allenta, è caduta, riposa. Dalla finestra una raffica, fresca, d’aria nuova, fuoco che si spegne, respiro. Respiro. I tuoni parlano, i vetri tremano, è quiete. Leggo, lavoro, penso a te, penso a te. L’acqua colpisce i vetri, violenta. Tutto è calmo. La natura genera la tempesta, la natura si salva.

Qui. Dopo. Lì. Adesso.

Immagine

Sono all’aeroporto. Vedo la gente.
Mi passa davanti con gli zaini sulle spalle e le valigie in mano. Si prepara a partire.
Partire ha un peso.
Il peso delle cose che vuoi portare con te o il peso della rinuncia, per le cose lasciate.
Più cose lasci, più la capacità di adattamento deve esser grande.
Più cose porti più si deve esser disposti a sopportare il peso, l’impiccio, la poca libertà d’azione.
Si deve esser viaggiatori esperti per dosare con saggezza  peso e mancanza, oscillare più volte tra il troppo e il troppo poco per sentire di possedere il “giusto”.
Che poi, il “giusto”, non è uno e non è per sempre. No.
Dipende da dove si è diretti e per quanto tempo.
Il “giusto” è un’unità di misura liquida, prende la forma di ciò che sai in un momento preciso di un luogo preciso di un contesto preciso.
E così, quello che è “giusto” qui e adesso, non lo sarà più lì e dopo.
Qui. Dopo. Lì. Adesso.
Le coordinate della “giusta misura” si mischiano con la percezione di ciò che è necessario.
Cosa mi serve davvero?
A cosa posso rinunciare?
Ma anche: a cosa devo rinunciare perchè il mio essere qui, ora, sia della “giusta misura?”.
Viaggiare, partire è azione amata, stancante a volte, ma desiderata perchè da sempre il viaggio è metafora della ricerca di una vita che sia la nostra.
Forse è per questo che dietro al viaggiare troppo o troppo poco si nasconde una vita incapace di dosare necessità e giusta misura, una vita troppo pesante o priva del necessario.
Del viaggio non è la meta che si ama e neppure un luogo in cui tornare. Ciò che si ama è il tempo di mezzo, quel dimorare per un tempo indeterminato in un luogo indeterminato. In cielo, in terra, in mare esiste uno spazio privo di argini e di barriere nel quale ci si sente liberi di essere “informali”, senza forma, pura potenzialità in divenire.
Il viaggio è il rifugio di chi non ha trovato nella propria vita una sua dimora.
E’ il campo fertile di chi possiede i semi ma non ha la pazienza dell’attesa.
Il viaggio è il tocco leggero di chi fugge i legami. Occhi che si incrociano veloci. Abbracci senza radici.
Viaggiare troppo.
Viaggiare troppo poco è degli uomini di pietra. Di chi si lascia levigare, immobile, dal vento e dall’acqua,
di chi si fa formare o deformare senza resistenza se non quella del duro materiale di cui è fatto.
Chi viaggia poco ha la pazienza dello sguardo fisso, impara i particolari di un paesaggio e se ne nutre senza la nausea per quel cibo sempre uguale. Chi viaggia poco ha lo sguardo e lo stomaco di ferro.
Qui. Dopo. Lì. Adesso.
La gente mi passa davanti veloce e stanca, euforica e dormiente. Ognuno ha il suo bagaglio, un biglietto, una destinazione. E un tempo, il tempo di mezzo nel quale possiamo, provare almeno, a di-venire.

 

Un timido e veloce batter d’ali

 (Foto di Oli Scarff)

(Foto di Oli Scarff)

C’era una volta, in mezzo al mare, al centro della pancia del mondo, una terra triangolare. Una terra antica e incantata. Questo triangolo di roccia e sabbia, terra fertile e pianure proveniva dal fondo del mare. Dagli abissi vedeva luccicare sulla superficie una luce irresistibile, splendente, come un richiamo di voci magiche, come uno scintillare di vita esagerata. Il triangolo non riuscì a resistere e con grande sforzo e intenso dolore si staccò dal resto della terra nel fondo del mare e con stupore e timore e incontenibile felicità si affacciò in superficie.
Sale, sole, vento, nuvole e pioggia, estate e inverno! Il triangolo si copri di piante e di verde, di fiori colorati, di frutti spinosi e succosi, di animali veloci. Oh, la sua gioia era così grande che la faceva tremar tutta, sentiva il fuoco dell’esistenza scuoterla da cima a fondo.
Un giorno assistette, incredula, al morire quotidiano del sole. Come credere vero e possibile quell’abbraccio di vita e morte?! Come poteva l’inabissarsi della luce, dar vita a tanta bellezza? Il sole calava, giù e ancora giù, sulla linea di confine del mare e tutto era avvolto dal silenzio. Era così commossa la terra triangolare che pianse lacrime di fuoco e le sue lacrime vennero in superficie formando un cratere, potente e di inusuale bellezza.
In tutto il mondo si sparse la fama di questo abisso di mare venuto alla luce e gli uomini fecero a gara tra loro per potervi abitare. La terra sorrideva nel vedere sulla sua pelle quell’avvicendarsi di volti diversi, lingue dai mille suoni, culture multiformi. La gente che cominciò ad abitarla aveva tante facce, frutto felice di fantasiosi innesti. La terra era così bella che tutti gli abitanti non poterono che divenir poeti e narratori, artisti, cavalieri ed eroi.
Ma la bellezza della terra triangolare cominciò a far gola anche al terribile drago che si nascondeva fra le crepe delle sue rocce. Il drago depose ovunque le sue uova e riempì quella terra, devastandola. Fece alleanze di morte con gli altri draghi della superficie terrestre portando morte e distruzione. Seminò fuoco e fiamme che germogliarono voraci nel cuore di molti abitanti. Il respiro dei draghi provocava fumi tossici che avvelenavano i frutti succosi della terra. Molti dei visi felici d’incontri meticci divennero tristi e il triangolo di terra si sentiva risucchiare nelle profondità buie del mare. Molti uomini e donne lottarono coraggiosi contro il drago e i suoi alleati e morirono bruciati e soli al crepitar furioso delle loro fiamme.
Ciò che il drago non sapeva, però, era proprio che la cenere di quegli uomini e di quelle donne ricadeva sulla terra rendendola fertile e leggera. E così, chi tra gli abitanti non abbondonò la speranza di sconfiggere il drago, si accorse del fecondo e spontaneo germogliare di quelle ceneri. In silenzio e con molta fatica mischiarono ad esse il sudore del loro lavoro e la terra si ricoprì di nuovi fiori. I draghi totalmente inebriati della loro potenza non abbassavano neppure lo sguardo su quei piccoli lavoratori, sulle loro zappe e sul loro sudore, così impegnati com’erano a guardarsi gli uni gli altri per sfidarsi e dimostrare la supremazia della loro forza.
Gli uomini e le donne continuarono a lavorare, notte e giorno, i fiori cominciarono a crescere, a moltiplicarsi e a rivestire il triangolo di terra come di un abito da sposa. Al veder tanto candore delle piccole e silenziose creature chiamate Farfalle, cominciarono a migrare verso quella terra di sole e di sale. Con le loro piccole ali colorate affrontorono viaggi lunghi e pericolosi per potersi nutrire di quei fiori di cenere e sudore. Arrivarono a milioni. Volavano basse e silenziose, si moltiplicarono dando alla terra un fremito continuo di metamorfosi. Volavano basse, si, e i draghi alti e possenti non si accorsero della loro presenza, fino a quando divennero così tante le Farfalle da circondare completamente i draghi fino al ventre. Con il loro timido e veloce batter d’ali provocarono un intenso solletico ai piedi e alla pancia dei draghi, così intenso e così continuo che i draghi non riuscirono a resistere. Solleticati in ogni dove da quelle ali d’aria persero l’equilibrio e rovinarono giù, chi fra le crepe infuocate della terra chi nel fondo del mare profondo. Cadderò tutti e non ne sopravvisse neppure uno!
Il triangolo di terra si sentì riemergergere, respirò forte e si abbandonò a insperati sorrisi. Le Farfalle restarono per sempre sulla sua pelle e il profumo dei fiori si diffuse su tutto quel mare d’intenso blu al centro della pancia del mondo.

E poi spirisci

foto di Julien Mauve

foto di Julien Mauve

Ma cu si tu, occhi niuri,
funnu mistiriusu di biddizza.
Calamita ca mi scippa lu cori
di lu pettu, pi fallu scinniri
dintra lu pozzu ca si tu.

E poi, però, t’ammucci e ti nni vai
e sugnu sula, dijuna di li to paroli
ca mi danno forza e ciatu.

Ma cu si tu,
ca comu faru t’affacci
comu un mago addumi u mari di faiddi,
ca sugnu io lu mari sinza lustru di luna,
sinza stiddi.

E comu un ciuri di campu
a spiranza mi germogghia nta l’ossa
e poi spirisci.
E secca lu sangu nta li vini
e lu cori chiù un s’abbivira.

Ma cu si tu,
unna nta la riva
c’arrivi e m’arrifirschi di l’arsura
e t’arritiri
e un ti pozzu taliari
e ieccu li me mani e strinciu li pugna,
ma tu t’ammucci e un ti fai pigghiari.

Ehm…No, niente.

©Bart Synowiec

©Bart Synowiec

L’etimologia della parola niente è incerta, dicono i vocabolari. Perfino le sue origini lasciano un senso di vuoto, una certa instabilità. Niente, probabilmente dal latino ne inde, nec entem, con molta probabilità nec gentem. La parola niente è per lo più utilizzata in contesti di negazione e sofferenza: “Non vali niente“, “Non mi importa niente“, “Non sei niente“. Chi è capace di venir fuori indenne da costrutti grammaticali così?

Non è solo negazione dell’esistenza è anche negazione di ogni originalità, di ogni compassione: “Per te (lui, lei, l’altro!) non provo niente“. E si, come quando da bambini si cade e mamma e papà, per non scoraggiare i primi passi, esclamano: “Dai, su, non ti sei fatto niente!”. E ci si convince, benevolmente e tenacemente che sia vero così, nonostante i graffi e il dolore (seppur momentaneo) del sedere sul pavimento!

E poi, cosa dire di quando si vede una persona amata pensierosa e preoccupata e ci si avvicina per chiedere: “A che pensi? Cos’hai?”, per sentirsi rispondere: “No, niente!”.

Niente è artifizio, maschera indossata alla fatica di comunicare e forse anche di dire a se stessi cosa fa male o, semplicemete, cosè che proviamo e che pare, però, incondivisibile, poco importante agli occhi degli altri.

Niente è negazione del corpo, ma il corpo non prova mai il niente. Forse non capisce, forse non sa esprimere un sintomo, forse serve la fatica di collegare una sensazione al sentimento corrispondente, ma, il corpo, è un continuo accadimento di cose, fosse solo del sangue che circola, del cuore che pompa, dei polmoni e dell’ossigeno in sinergia.

Niente paura/niente panico”, lo si sente dire, sempre, quando i motivi per provar paura e scatenare il panico sono così veri ed evidenti da essere innegabili! Come nei films americani: il fuoco divampa tra gli uffici di un grattecielo e il polizziotto, sudato e ansimante, esclama: “Niente panico!”, nel medesimo istante in cui il protagonista si accorge degli abiti del migliore amico avvolti dalle fiamme!

Niente è il termine che segna la frattura del dialogo, quando non si riesce ad andare avanti e la relazione si infrange: “È inutile che continui a parlare, non c’è niente che può farmi cambiare idea”. Che senso di disperazione e rabbia provoca l’infrangersi delle nostre ragioni sulle convinzioni dell’altro.

“Non c’è più niente da fare”. È il colpo mortale inferto alla speranza.

E poi, quando sì è a fianco di una persona alla quale si vuole dire qualcosa di importante, di veramente nostro; mentre lei parla di tutt’altro, ci si concentra per trovare il modo giusto desprimere quello che vogliamo dire, il coraggio necessario a farlo, cominciamo a borbottare qualcosa, l’altro si gira, ci guarda ed esclama: “Cosa?” E noi: “Ehm…no, niente“.

Niente è l’aggancio mancato, il contatto non avvenuto. È il rinnegamento di ogni responsabilità. E, infatti, quando i ragazzini giocano senza prudenza e capita che il più piccolo fra loro rovini per terra, il più grande si rivolge all’adulto vicino, alza le braccia e afferma: “Io non gli ho fatto niente!”.

Niente è il desiderio degli altri per noi quando soffriamo, come se negare il motivo del dolore fosse un modo di evitare la sofferenza.

Il niente è il contrario della realtà. È la separazione di una parte dal tutto a cui appartiene. È minimizzare, dire che qualcosa non è importante, è il grottesco tentativo di negare le nostre reazioni.

“Non è successo niente“, è il re degli ossimori! L’accadere e il niente non sono compatibili, la vita e il niente sono contrari inconciliabili! Noi siamo un flusso continuo di avvenimenti, un incessante procedere di fatti, un misterioso seguitare di pensieri, un incalzante proliferare di sensazioni. Tutto ci coinvolge e a tutto noi reagiamo. E quando la nostra reazione ci travolge, ci coinvolge fin dalle viscere e ci svela parti di noi inesplorate, quando non sappiamo cosa e come fare, lo smarrimento diviene terreno fertile al germogliare del niente, che, in realtà, vuol dire: “Non capisco cosa mi accade, non so cosa succede, non riesco a dire quello che provo!”.

Se solo riuscissimo a descrivere quanto ci attraversa mentre ci attraversa, descrizione del sentire senza categorie e senza timore di inciampare su definizioni che non ci appartengono! Forse saremmo tutti più fragili, esposti ai pericoli dell’incomprensione, impauriti dalla consapevolezza di ciò che siamo, di come siamo eppure vivi, presenti, esistenti.