Tutto può accadere, il mare respira.

Palermo.

Ho visto la vita intera, sul mare di Palermo in un riflesso di sole.
Ora sono come un pescatore che tira in barca le reti. Tiro, sollevo, fatico, ma le reti non hanno fine. Ho le braccia stanche e le dita di sangue. Le reti sono fili di lama.
Quel riflesso sul mare della mia città mi aspettava, un’imboscata.
Ha atteso con la pazienza di un cacciatore ed ha esploso il suo colpo appena mi ha vista sotto tiro. Un minuto prima e mi avrebbe mancata, un attimo dopo e mi avrebbe soltanto ferita di striscio. Sarei scappata impaurita e la cicatrice al braccio si sarebbe amalgamata con le cellule fino a non ricordare più nulla.
La mira è stata perfetta. E non c’è cellula che possa inghiottire i segni di quell’esplosione.

Palermo di colpi ne ha sentiti fin troppi, eppure non è mai sazia. Gli scoppi di morte si perpetuano all’infinito, rimbalzano dall’asfalto ai cimiteri, dai cimiteri alle pagine dei giornali, dai giornali alle aule dei processi, come un’eco che non trova riposo.
Gli scoppi di vita non rimbalzano, invece, gli scoppi di vita entrano nel corpo e rimangono in circolo. Trasformano da dentro, giorno dopo giorno. Ci si prova a dimenticarli, si, ma invano. Non si può. Si vorrebbe affidarli al primo cumulo di spazzatura all’angolo di qualsiasi strada, è la paura di scoprirsi capaci di realizzazione, ma per quanto ci si agiti restano attaccati alla pelle.

Non c’è pensiero o sentimento, paura o sussulto del cuore che non sia intrecciato come filo di lana ad un altro, al luogo dove viviamo. Una maglia che non si può sfilare, che non può in alcun modo tornare ad attorcigliarsi come un gomitolo.
Uno scoppio di vita acceca la vista e la percezione della pienezza non è data dal comprendere o intuire cosa esattamente accadrà, ma dalla visione di una potenza possibile, qualunque sarà la sua declinazione.

L’acqua era di cristallo. Circondata di sabbia e di roccia color deserto. Qualche metro dietro le mie spalle il grigio dell’asfalto, in cielo un sole fuori stagione, inopportuno. Un insieme di opposti, un impasto impossibile, elementi differenti che pure hanno imparato a convivere in uno spazio condiviso.
Non si dimentica il disagio né la rabbia di dover abbracciare con lo sguardo, ogni giorno, la gloria e l’inferno, la bellezza e la vergogna.

La rassegnazione dura un momento. L’animo si ammala di sconfitta solo se resta incapace di viaggiare nel tempo:
lo splendore del passato, la miseria del presente, la speranza del futuro,
la miseria del passato, la speranza del presente, lo splendore del futuro,
la speranza del passato, lo splendore del presente, la miseria del futuro.
Quando s’innalzano case di pietra con fondamenta profonde in quello che fu, che oggi è o forse sarà domani, si resta prigionieri di un solo momento che si perpetua inesorabile nel tempo.

Il vento era leggero. L’acqua tremava appena e i cespugli selvaggi ondeggiavano lievi.
Palermo lotta contro i giganti. Anch’io. Non sempre dalla sua parte, ma sempre al suo fianco. Vince una volta su mille, eppure non si ritira. Vince quando la posta in gioco è bassa, a notte fonda, quando il popolo abituato alla vittoria dei giganti si è appisolato, accasciato su sacchi pieni di monete d’oro, facile bottino del più forte.

Cosa accade nella vita di uomo in un sol giorno? Dal mattino fino a sera, quante volte respinge l’assalto dei briganti, quante volte si ritrova i piedi immersi nel fango, quante volte è incoronato re, quante volte difende se stesso e sfida a duello i suoi fantasmi? Quante volte batte la ritirata e mangia il pane amaro del fallimento?

C’era silenzio. Ogni voce taceva a bocca aperta. Ovunque lo stupore delle cose, quando comprendono di poter accadere. Vedere con i propri occhi l’impossibile possibile, per un istante appena e la visione diviene esperienza e l’esperienza è la chiave che apre le porte d’ogni prigione.

Tutto può accadere. Il mare respira.

Io, lo faccio con te

Caro Abuna Paolo,
a un anno e quattro mesi dal tuo rapimento torno a fare la cosa più inutile che posso: scriverti. Lo faccio perchè è il tuo compleanno, mentre il mondo intero con la preghiera o con un pensiero, con la stima e con l’affetto ti abbraccia, silenzioso e presente.

Alla mia prima lettera, scritta il giorno dopo la tua scomparsa per le strade di Raqqa, avevo affidato parole di sconcerto, parole di rabbia.
La rabbia, quella forza che mantiene in vita in mezzo a qualunque inferno, fino a quando si intravede, seppur lontana, una possibile via di uscita. Quando l’orizzonte si è ormai oscurato, quando le macerie superano in distruzione ciò che resta in piedi, allora alla rabbia deve far posto il coraggio, deve subentrare la pietà.
La Siria è morta.
Ci avevi avvertiti, lo hai fatto in ogni modo, hai urlato, pregato, parlato ovunque, cercando di richiamare l’attenzione di tutti, poi hai deciso di andar da solo per provare a resituire ai Siriani la loro pace e a te stesso quella promessa di Dio che è tutta la tua vita.

Ci vorranno decenni per ricostruire il paese, e anche quando le case saranno di nuovo in piedi, il popolo erediterà a lungo, di parto in parto, le ferite del nostro abbandono e della violenza subita.
Ti penso ogni giorno, e ho paura. Mi spaventa di più saperti vivo e consapevole della tragedia, con il cuore colmo di un dolore senza guarigione, che pensarti morto a questa terra ma vivente, faccia a faccia con il tuo Dio.

Ho desiderato di vederti tornare, di poterti avvistare all’orizzonte, ombra gigante da abbracciare, pensavo: quando tornerà sarà bellissimo! Ora, io voglio imparare a desiderare ciò che tu desideri. E tu, Paolo, cosa desideri?

Tagliano le teste. Rapiscono le donne. Cancellano l’infanzia. Sono bestie feroci. E a tanta violenza noi rispondiamo con le bombe dal cielo, privi di ogni pudore trasformiamo il luogo della speranza in pioggia di fuoco.
Possediamo parole che sono barattoli di latta, rumore e ruggine .
Per sembrare affidabili e ancora potenti abbiamo taciuto, armato gli eserciti e fatto scorta di munizioni.
Ricordi? Dicevi che il conflitto fa parte della realtà, che sottrarsi ad esso, fuggire, non affrontarlo, non assumerlo nella nostra esitenza rende ideologi, xenofobi e violenti.

Il desiderio di libertà del tuo popolo è stato troppo per noi. Cosa potevamo fare, così occupati come siamo a contare, spicciolo dopo spicciolo, i nostri euro e i nostri dollari agonizzanti! Rischiare forse? Perdere quello che avevamo per condividere il pane della democrazia e della pace? Potevamo mettere da parte la nostra ben delineata appartenenza religiosa, per mischiare i nostri abiti buoni della domenica ai vostri piedi nudi? Potevamo forse impegnarci a capire cos’è l’Islam, che pulsa e lotta per sopravvivere alle spalle di un estremismo dal volto coperto?

Paolo, a scuola parlo di te. Parlo di te e della Siria davanti a giovani vite dagli occhi vergini,  capaci di visione, come dici tu. E dico loro che, al di là della devastione, esistono ancora le persone, esistono i siriani, e che da essi si deve poter ricominciare. Lo faccio per non perdermi, per rimanere ancorata alla speranza di un mondo diverso. Lo faccio per non perderti, perchè il bene di chi ci ama ci strappa ogni giorno alla fame della morte.
Buon compleanno Abuna Paolo. Ovunque tu sia e qualunque sofferenza tu stia patendo, resta con gli occhi negli occhi del tuo Signore. E se è la vita che vuoi, invocala! Sii forte. Fagli sentire in faccia il fiato e la saliva delle tue grida, giorno e notte. Io, lo faccio con te. E se è la morte che vuoi, se sei stanco, Paolo, chiedila, fuori dalle barricate della dottrina, dove hai sempre vissuto, con la confidenza dei vecchi amici, con la dolcezza degli amanti, come solo può fare chi ha intrecciato la sua sorte all’esistenza di Dio. Io, lo faccio con te.

http://www.paolodalloglio.net/

Di fiore in foglia

Alla terra solitari e muti
l’amor sospiro lieve,
di fiore in foglia
a sé conduce, via.

WP_20141015_003m

Ammutulisci ogni scantu

(Fabio Leone Anto & Portopalo di Capo Passero, Siracusa)

Occhi cechi ca sannu unni iri,
u piscaturi di notti a mari,
n’capu na varcuzza in mezzo a lu scuru

Unni t’innisti vita lucenti?
Ti vitti, lampu nta la notti.
Unni t’innisti?

Ti cercu strati strati
trazzeri e sassi, nta li vigni.
Ti cercu nu funnu di lu mari,
sutta terra spinciu li vrazza
e u focu m’abbrucia li mani.

Unni t’innisti vita lucenti?
Ciuri servaggiu senza viddani,
e giri e curri e scappi
mentri firrìu, io
senza rispiru.

Pigghia a  spada e cummatti,
chiantala dintra lu cori di la morti
di lo so sangu inchiti i manu
e poi dunami carizzi
e ammutilisci ogni scantu.

Cummogghiami di ventu,
parrami,  vucca vicina
lo to ciatu mi grapissi l’occhi,
aria, lustru, rispiru.
Unni t’innisti vita lucenti?

Occhi ciechi che conoscono la direzione,
un pescatore di notte
su una barca avvolta di  tenebre.

Dove sei fuggita vita lucente?
Ti ho visto, lampo nella notte.
Dove sei fuggita?

Ti cerco per le strade
fra le campagne e i sassi, nelle vigne.
Ti cerco in fondo mare,
spingo le mie braccia fin sotto terra
e il fuoco mi brucia le mani.

Dove sei fuggita vita lucente?
Bocciolo selvatico
che giri e corri e scappi
e io su me stessa giro e rigiro
senza respiro.

Sfodera la tua spada e combatti
piantala profonda nel cuore della morte,
del suo sangue riempiti le mani
e poi accarezzami
facendo muta ogni paura.

Ricoprimi di vento,
parlami, bocca vicina
che il tuo fiato apra i miei occhi
aria, luce, respiro.
Dove sei fuggita vita lucente?

Di fronte, a sinistra.

La terra ha le viscere. Sotteranee e profonde.
Tra i cunicoli di queste viscere umide viveva una Ragazza. Non era nata lì, viveva in superficie, prima. Sottoterra c’era finita un giorno, per caso. Aveva sbagliato strada, si era persa, gli avevano fracassato il senso dell’orientamento, fu una vile aggressione. Un gruppetto di uomini e donne ben organizzato, vestiti di scuro, tutti uguali. Cercava la strada, la Ragazza. “Unisciti a noi” – gli disse il gruppetto, all’unisono, avvolto di tenebre. La Ragazza li seguì, ma poi si accorse che si addentravano in profondità, sempre più in fondo, sempre più al buio. E allora, la Ragazza, sentì nelle sue di viscere un istinto insopprimibile di luce, un desiderio di aria che la stordì. Si voltò, di scatto e si diresse correndo nella direzione opposta alla loro. Se ne accorsero quasi subito, cercarono di riacchiapparla, ma erano vecchi e storpi, e lei aveva piedi giovani, e correva. Si voltò, appena un attimo, per sentirsi rassicurata dalla distanza conquistata, ma una donna avvolta di buio la guardò e riuscì a fracassarle il senso dell’orientamento, ad avvelenare le radici buone del suo istinto.

Rimase sola e immobile. Il silenzio e il buio attorno. Cominciò a vagare in cerca di un’uscita. Niente. Passarono gli anni, e pensò diverse volte di essersi avvicinata alla luce, di vederla filtrare sotto la spessa coltre di terra, pietra e radici profonde. Niente. Nessun varco. Un giorno, camminava con gli occhi bassi e il buio dentro, occhi abituati alle tenebre e inciampò. Si ritrovò con la faccia a terra e mentre si tirava su cercava con le mani di spazzar via dal volto la polvere nera del suolo. Non era un sasso, né un ramo, non un cumulo di terreno indurito dalla siccità. Era inciampata in qualcosa di caldo e morbido, qualcosa che si muoveva e parlava:
“Ahi!”, disse infatti.
“Scusa!”, esclamò la Ragazza spaventata;
“Chi sei?”, rispose ancora dolente la voce dentro al buio.
“Io sono la Ragazza e tu?”, silenzio. “E tu?”.
“Parli con me?”,
“E con chi se no!”.
“Io sono il Mago”, disse, alzandosi in piedi.
“Un mago!?
“No, il Mago!”.
“Cosa ci fai qui?”, esclamò la Ragazza sempre più incredula.
“Non lo so bene – disse il Mago – sono alla ricerca di una nuova strabiliante magia”.
“Wow”, disse la Ragazza, mentre sentiva crescere nel suo cuore la gioia di aver qualcuno, vivo, con cui dialogare.
“Perchè non mi aiuti!”, gridò con entusiasmo il Mago, spalancando i suoi occhi grandi e scuri che però la giovane non poteva vedere.
“Aiutarti? Io? E come? Non so far niente, ho il senso dell’orientamento fracassato, non so mai dove vado, cosa faccio”.
“Non importa! – disse sorridendo il Mago, spalancando la sua bocca in un sorriso luccicante che gli occhi della Ragazza non potevano ancora vedere – sono sicuro che mi sarai d’aiuto”.

La Ragazza era confusa e anche spaventata, per un attimo pensò potesse essere uno del gruppetto di tenebre tornato ad ingannarla, ma la voce di quel Mago aveva qualcosa di luminoso e vivo che non gli sembrò compatibile con il buio.
Si misero a camminare uno accanto all’altra, senza una direzione, in cerca di una nuova strabiliante magia. Il Mago aveva piedi buoni e tanta voglia di camminare e ogni tanto saltellava alzando polvere e facendo traballare i sassi. Alla Ragazza non importava non sapere dove si trovasse davvero il Mago, se dietro o davanti, a destra o a sinistra, amava la polvere e il traballare dei sassi perchè voleva dire per lei non essere più sola. In altri momenti, invece, il Mago rallentava, e procedeva con andatura felpata e silente. La Ragazza allora con voce tremante sussurrava: “Ci sei?” – “Ci sono”, rispondeva il Mago con voce serena.

Durante quel folle procedere senza meta il Mago raccontò alla ragazza di essere cresciuto in un castello grigio e isolato e di aver deciso un giorno di catapultarsi giù da un balcone e di correre a valle, inseguendo l’allegro mormorare del villaggio. Lì conobbe tante persone semplici e buone e giocando con i bambini si accorse di esser capace di magia. Dalle sue dita venivano giù fiumi di luce brillante, arcobaleni e farfalle, ma nonostante tutto questo non riusciva a cacciare dal suo cuore tutto il grigio del castello. La Ragazza lo ascoltava trattenendo il respiro e sentì dentro di sé che qualcosa si muoveva. Ebbe paura, ma non disse nulla. Percossero le viscere della terra in lungo e in largo, raccontandosi il passato e immaginando un futuro dentro alle tenebre. Nonostante la Ragazza avesse imparato a percepire i passi felpati e silenziosi del Mago, le piaceva ogni tanto esclamare: “Ci sei?”. E il Mago ne era felice perchè lui amava risponderle: “Ci sono”.

Un giorno mentre si raccontavano il futuro la Ragazza sentì i piccoli movimenti avvertiti dentro di sé, ogni giorno, diventare un terremoto, le viscere si agitavano senza sosta, il cuore e le ossa sembravano muoversi a passo di danza. Si fermò, ansimò spaventata e felice. Il Mago si accorse che la ragazza si era appoggiata alla parete di un cunicolo e le si avvicinò. Piano. Piano. Voleva toccarla, sfiorarla appena, ma le chiese: “Posso avvicinarmi?”. La Ragazza sentiva tutta la vita agitarsi dentro di lei, nei piedi, nel naso, tra i capelli e disse: “Si, avvicinati”. Il Mago fu felice e stava per farlo, senza indugio, ma si fermò, lì, dentro al buio, trattenendo il respiro perchè capì cosa stava accadendo, fu un attimo e con voce calma chiese alla Ragazza: “Spiegami dove sei esattamente, perchè possa avvicinarmi”. Senza neanche pensarci la Ragazza gli gridò: “Sono qui! Davanti a te cioè non davanti, ma…di fronte, a sinistra”. Il Mago per essere sicuro che la strabiliante magia si stesse realizzando davvero le chiese: “Sinistra? Ma la sinistra qual è?”, e la Ragazza, senza indugio: “Dalla parte del cuore!”. Appena pronunciate quelle parole, scoppiò in un pianto di gioia, rendendosi conto che era stata di nuovo capace di orientarsi, di individuare coordinate, di offrire indicazioni, di distinguere. La felicità era incontenibile e il Mago fece appena in tempo a raggiungerla per evitare che la Ragazza si accasciasse a terrà per la troppa emozione. Appena i due si toccarono, furono riportati immediatamente in superficie, alla luce del sole. La Ragazza vide gli occhi grandi e scuri e il sorriso scintillante del Mago, e nel cuore del Mago si prosciugò ogni residuo di grigio. Nessuno dei due sapeva cosa sarebbe accaduto adesso, cosa del futuro immaginato sottoterra potesse diventare realtà. Uno di fronte all’altra, mano nella mano si guardarono a lungo e l’unica cosa che la Ragazza riuscì a dire fu: “Ci sei?” . “Ci sono”, rispose lui.

A costo zero

(Foto di Muhammed Muheisen)

(Foto di Muhammed Muheisen)

Un mese e dodici giorni. Scuola superiore e un’altra città. Ma dopo un mese e dodici giorni dall’inizio della scuola, la mia sensazione è la stessa, più o meno. Certo, qualcosa è cambiato: posso usare qualche espressione in dialetto con i ragazzi, condivido con loro la stessa congenita nostalgia negli occhi, in quella tonalità originale che appartiene di diritto ai palermitani e riesco a costruire un dialogo più diretto rispetto a quanto potevo fare con i non-più-bambini-quasi-ragazzi delle scuole medie. Ma il disagio nel rapporto con l’Istituzione-scuola è lo stesso, anzi, cresce a dismisura.

Un mese e dodici giorni e la mia casella di posta è già piena zeppa di circolari che specificano doveri e divieti: Non arrivare tardi, non uscire prima, se hai bisogno di un permesso devi avvertire, se ti devi assentare per malattia devi comunicarlo entro le 7.45, altrimenti devi portare prova provata della ritardata comunicazione, oltre al certificato medico (tipo che se ti senti male e ti viene da vomitare alle 10 o vai a scuola e vomiti in presidenza oppure ti fai un selfie inginocchiata davanti al water del tuo bagno, in modo da giustificare il fatto che non hai avvertito entro le 7.45!); non mettere note tranne che un alunno non ti punti una pistola alla tempia e non mettere insufficienze a chi ha un problema, di qualunque tipo, vero o presunto, che “non si sa mai ci fanno ricorso!”. L’azione legale è la paura più grande dei dirigenti, è il manico del coltello con il quale famiglie sempre meno consapevoli del ruolo della scuola tengono in ostaggio ogni forma di azione educativa. Non sequestrare i cellulari (sopratutto quelli costosi), non rimproverare, non gridare, e se ci riesci non respirare fino al suono della campana! Non violare privacy, neanche per chiedere: “ehi, ti fa male la testa?”. E se un alunno in preda a crisi epilettica ti sta per morire in classe non somminastrare farmaci, neanche quelli salvavita che ha nello zaino, mai mai e poi mai! Lascialo lì e chiama il 118! Mantieni il controllo, sempre e comunque, non stancarti, non soffrire, non compatire, non farti coinvolgere.

Le classi non hanno porte né cartine, un cancellino per corridoio e quando finisce il gesso puoi tagliarti le vene e scrivere con il sangue. In bagno non esiste la carta igienica e se per caso ti dimentichi di portare un fazzolettino, puoi scegliere tra la vasta gamma di parolacce e bestemmie scritte sulle pareti e sulle porte. Però abbiamo i registri elettronici! Si, più o meno. Solo in alcune classi. E per le altre? Ti appunti tutto sull’agenda e poi ti colleghi da casa. E vogliamo parlare dei grandi passi avanti fatti grazie a questa tecnologia? Se i ragazzi, minorenni (la maggior parte cioè) arrivano in ritardo, prendono un brutto voto o si assentano, il registro invia un avviso ai genitori del malcapitato/a. Ai tempi miei per comunicare una nota o un brutto voto bisognava imparare l’arte dell’attesa: aspettare il momento opportuno, saperlo riconoscere e cogliere, trovare il coraggio di affrontare i genitori, ammettere l’errore, provare a ripararlo, recuperare. Adesso no. Adesso nessuna attesa e nessun momento opportuno. Decide la macchina. Siamo convinti, evidentemente, che i ragazzi non siano più capaci di gestire se stessi, non hanno bisogno di imparare a farlo, la vita ha altre esigenze. Nessuna responsabilità. Gli innocenti marciscono in galera, i corrotti governano gli stati. Va bene così.

Abbiamo scelto la settimana corta, perchè fa molto Stati Uniti d’America, ciò significa che i ragazzi alle scuole superiori entrano alle 8 ed escono alle 15. Sette ore in pochi metri quadrati (perchè le nostre scuole non sono come quelle degli Stati Uniti d’America!), tranne 20 minuti di ricreazione, seduti, in aule senza alcuna bellezza. Chi ha la sfortuna di dover fare lezione all’ultima ora ha la possibilità di vedere nei loro occhi il fuoco rosso di una rabbia compressa pronta ad esplodere, la noia, la fame, la testa altrove. Le scuole non hanno spazi esterni adatti a far lezione fuori, e comunque non possiamo portarli da nessuna parte: “E se cadono? E se si fanno male?”. Non ci sono fondi per organizzare progetti, per pagare figure competenti e specializzate per inventarsi nuove modalità di lezione. Quando si va in presidenza per condividere l’idea che ti è venuta, magari mentre stendi il bucato, perchè a cosa e come fare ci si pensa tutto il giorno, non ti fanno neppure finire di parlare: “Si, ma è a costo zero per la scuola?”.  E tu ti alzi e te ne vai, in silenzio, e invece vorresti far esplodere la stessa rabbia rossa e compressa degli occhi dei ragazzi e urlare a squarciagola che l’idea di una scuola a costo zero ti fa schifo! Ti fa schifo la burocrazia, la mortificazione della tua professionalità, ti fa schifo lo squallore degli ambienti a cui tutti sembrano assueffatti, ti fa schifo lo stato di polizia nel quale devi agire ogni giorno e che piano piano diventa anche il tuo modo di ragionare, ti fa schifo che a sedici anni i ragazzi non sanno cosa sia e dove si trovi a Palermo la Cappella Palatina, la Cattedrale, il palazzo Steri, ti fa schifo che esprimano tutti, ognuno a suo modo, il desiderio di fuggire lontano da questa terra maledetta che ti fa crescere con il complesso di appartenere alla parte sbagliata dell’Italia. Ti fanno schifo le riforme che si sono divorate ogni  progetto educativo riducendo pelle e ossa le fondamenta della società civile.

La scuola si regge sulle spalle di docenti che inspiegabilmente credono ancora al lavoro che fanno, che suppliscono all’ignavia di altri, che non si impuntano su questioni di principio, che decidono di correre rischi e prendersi responsabilità. Ieri, ai consigli di classe si parlava di tutto: qualche considerazione sugli alunni, qualche lamentela, un paio di frecciatine al collega rompipalle, cosa fanno sta sera in tv e quanto sono buone le melenzane fritte cucinate domenica. E secondo me è un bene che sia così. Magari fosse sempre così, magari la scuola fosse una comunità che condivide gioie e dolori, piaceri e dispiaceri di questa bizzarra cosa che è la vita. Perchè la vita, come la scuola, non può essere, mai, a costo zero.

Presente, muto.

(foto di Martin Vlach)

(foto di Martin Vlach)

Ho guardato un muto negli occhi.
E’ muto l’amore di chi fugge il contatto,
la pelle che sfiora la pelle.
Ho guardato un muto nel cuore,
forse ho divorato io le tue parole?
Fisso le labbra senza riposo,
aspetto di vedere il buio della bocca appena socchiusa,
quelle tenebre che solo il fiato dirada veloce.
Il suono, la lingua che danza,
gli occhi vivaci che tengono il ritmo.
Ho resistito in equilibrio,
sul filo di terra a strapiombo sul niente,
passi quotidiani all’indietro
per sfuggire al silenzio che divora lo spazio.
Tra noi praterie sterminate di desideri incolti,
fiori, erbacce e alberi forti.
Muto l’amore dai piedi di piombo,
che non corrono,
che non fuggono,
né lontano né vicino.
Se corro via, tu resti lì,
se rimango non ti avvicini di un passo.
Ovunque io vada, la distanza non si allunga,
ovunque io sia, tu resti qui.
Presente e muto.
Il silenzio sazia la rabbia,
i fantasmi trattengono il sonno in ostaggio
e fanno della notte, giorno
e del giorno tenebre fitte.
Muto e in tempesta il mare,
furioso e silenzioso
con il porto sempre a vista
e irragiungibile,
un’ancora senza terra da toccare
che scende a vuoto
legata ad un filo infinito.
E non è vero niente
e non è falso niente.
Solo la mia voce,
solo i miei errori
recitati a memoria davanti allo specchio.
Il tempo non trova più la strada
non procede diritto
non ha meta,
si attorciglia attorno al corpo,
lega i piedi,
copre gli occhi,
serra le mani
e gira e gira.
La speranza vanitosa
cambia ogni giorno la sua veste,
si tinge, si trucca, cambia faccia
ed è estranea ogni volta,
vicina e irriconoscibile.
Sono io che non sento?
Sono io che non sento?
Ho perso l’udito e la fame,
sono io che non sento.
Amore muto,
labbra serrate da dolori antichi,
che le tue parole trovino la via di uscita,
e possano crescere forti,
posarsi ovunque, germogliare,
arrampicarsi veloci sui muri,
saltare gli ostacoli,
attraversare i mari.
E alle mie orecchie, rese sorde dalla troppa attesa
possa giungere notizia, un giorno,
delle tue labbra socchiuse alla gioia.

Senza

(Red Bushes. Sukoro, Hungary 2012.)

(Red Bushes. Sukoro, Hungary 2012.)

Fulmini, graffi, sberleffi, palazzi.
Letto rifatto, frigo ordinato, il pane è infornato.
Lavato il bambino, ingrassato il pulcino,
cibo imballato e vino in bottiglia,
amore di plastica gusto vaniglia.
Ho ferito un limone e il sangue è di ghiaccio
raddrizzato un bastone, incurvato il cemento,
il giusto giustifica senza sgomento.
Tuono ustionato, fiume seccato,
cervello sott’olio, cuore condito,
le dita a pezzetti sul pianoforte,
il vento arrabbiato che sbatte le porte.
Il senso è svenuto, la ragione è in crociera,
il corpo innocente marcisce in galera.
Le mani che giocano a nascondino,
i fiori che crescono sopra un cuscino.
Il buio che avanza a piedi scalzi,
la morte elegante si sazia di avanzi.
Le urla si pettinano davanti allo specchio,
la vita che vomita dentro ad un secchio,
le osse bucate si fanno collana,
lo stomaco scappa dentro alla tana.
La luce che passa in un baleno,
il futuro che mette i freni ad un treno,
l’amore che brucia nel caminetto,
le carezze non trovano alcun difetto.

Ti scrivo ogni sera, da quasi vent’anni.

(foto di Alberto Tozzi)

(foto di Alberto Tozzi)

Ti scrivo ogni sera, da quasi vent’anni.
Nessuno lo sospetta, una donna non scrive.
Mi pensano intenta a filare la tela per Laerte, impegnata a far cose consone alla mia condizione di donna e di regina. Se solo qualcuno tra quanti mi circonda fosse veramente interessato a me, si sarebbe reso conto che per filare, sfilare e rifare mi bastano ormai poche ore al giorno, dopo tanti anni si diventa esperti nei movimenti sempre uguali a se stessi. Mi guardano con desiderio i Proci, ma nessuno realmente possiede occhi per me. Il loro sguardo è avido, nel mio corpo riflettono la propria immagine, una virilità dal sapore dolciastro di vino, unta come il grasso delle bestie che divorano con morsi ingordi.

Ti scrivo ogni sera, per nostalgia, per amore e per rabbia. La nostalgia dei tuoi occhi, l’amore per te, per la tua vita, per il tuo corpo e per la tua anima profonda come il mare sul quale ti aggiri vagabondo, la rabbia per la tua esistenza libera, per le avventure, per la possibilità di scegliere, per il pericolo sfidato a duello ogni giorno, per la tua barba incrostata di sale. A volte mi assale il terrore, quando non riesco a ricomporre, con la perfezione che vorrei, i tratti del tuo viso; ad ogni tramonto, con il sole, perdevo un po’ della nitidezza con la quale ho provato e provo a ricordarti, e se non ti ho perduto del tutto è stato perché ti ho visto rinascere e crescere ogni giorno sulla faccia di Telemaco. Se solo avessi più coraggio, se solo fossi io per prima libera dal ruolo al quale tutti mi condannano, sarei capace di elaborare un piano per liberarmi dai Proci che invadono la nostra casa e che mi rubano la vita. Certi giorni sento dentro di me la forza necessaria a compiere la strage: li abbatterei uno ad uno con la precisione di un arciere. Saresti fiero e invidioso per la lucidità con la quale ad ognuno strapperei il cuore dal petto, sempre che gli dei abbiano donato a queste belve un cuore di uomini! Si Ulisse, amore mio, li abbatterei tutti come alberi nella foresta e di rabbia e voglia di vivere me ne resterebbe a sufficienza per imbarcarmi alla ricerca di te.

Quando qualche forestiero si ferma ad Itaca in cerca di ristoro e racconta alcune delle tue gesta, lascio alla gioia libertà di invadermi il cuore di quella felicità che piove copiosa sulla speranza dei vivi in attesa, la felicità di avere notizie di te, vivo. Ma poi, quando credendo di non essere da me ascoltati raccontano dei tuoi amori, delle figlie di dei invaghite del tuo coraggio che ti trattengono fra le loro braccia e le loro gambe di giovani ninfe, la gioia lascia posto al furore della gelosia ed io vorrei liberarmi di te come dei Proci, abbatterti senza pietà e libera da ogni legame ricostruire la mia vita, una vita di poco amore e troppa attesa. Si, vorrei lasciare Itaca, il mio popolo e i doveri di regina e confondermi tra altri popoli e altre terre dove deporre le armi dell’attesa, dove l’ombra di un passato felice non mi avvolga di paura, dove l’ansia di un futuro incerto non mi costringa ad attendere albe, all’infinito; dove esiste solo il presente e la vita che possiedo davanti agli occhi, ogni giorno.

Voi, uomini, che sfidate la morte in combattimenti senza esclusione di colpi, che rischiate la vita per un insulto o un ideale o una vendetta, come se di vita ne aveste sempre in abbondanza, come se guardare la morte negli occhi fosse solo un modo per crescere in potenza e onore, fama e coraggio! Tra voi e il sangue non c’è il ritmo e l’armonia che noi donne conosciamo, voi con il vostro corpo che muta solo dall’esterno, voi  che decidete tutto e tutto distruggete, voi unica voce del potere. Le vostre ferite guariscono, i vostri tagli si rimarginano e le cicatrici sono i vostri trofei.

Ulisse mio amore e mia disgrazia, sono sicura che a tutti tu parli di me e giuri con profonda certezza che ad Itaca la tua sposa ti attende, fedele. Fai bene a giurare, Ulisse, sulla mia fedeltà, anche se ne ignori la fatica, tu…tu che neppure sospetti a quali ancore la mia fedeltà si aggrappa per resistere alle tempeste. Non al dovere Ulisse, né alla dignità di regina, non al pudore né al vincolo delle nozze, ma a me stessa Ulisse, a quello che di me vedo e scopro durante le ore infinite che trascorro nelle mie stanze, fingendo di tessere, appoggiata al telaio come fosse il timone di una nave. So viaggiare anch’io Ulisse, senza solcare nessun mare se non quello che dentro di me si agita mostrandomi terre sconosciute e paesaggi mai visti. Tu credi di sapere chi sono, ma ciò che io sono è come la sabbia che stringi nel pugno ad ogni naufragio dal quale gli dei ti risparmiano: granelli innumerevoli che scappano alla presa forte delle tue dita e che al sole luccicano, che le onde uniscono al loro passaggio e che il calore spacca, secca e separa. Io sono cose che tu non sai, possiedo volti che tu non hai mai visto.

In questi lunghi e feroci anni, la notte, dopo aver messo a letto Telemaco e atteso il russare ingordo di tutti i Proci, quando le ancelle hanno rassettato ogni cosa e gli anziani dell’isola appendono al chiodo le loro cetre, io rimango a vegliare su me stessa, a tessere la tela invisibile della mia anima, a combattere battaglie feroci con la vecchiaia che mi rapisce gli anni e la bellezza del corpo. In questo campo di battaglia io, Penelope, sono morta e tornata in vita mille volte, mutando i lineamenti di un’esistenza che per te è ormai solo un ricordo. Ulisse, uomo curioso e vagabondo, supplico gli dei che al tuo ritorno io sia per te terra ancora vergine, mistero capace di trattenerti, vicino e coinvolto. E se così non fosse, la fedeltà di cui ti sei vantato sarà quella che mi porterà lontano da te e da una vita che non può più essere mia. Tu navighi e giri il mondo, accechi i ciclopi ed espugni Troia, così cambi te stesso, così cambi me. Ed io…io vivo, vivo questo tempo di vuoto e di violenza, di povertà e dolore, Ulisse amore mio, nella speranza che la mia vita testarda possa mutare, come le onde la roccia, un giorno, anche te.

Settembre senza titolo

Foto di Herbert List.

Foto di Herbert List.

Pensavi fossero eterne le mie risate?
Gioco di rincorse tra le ombre del vento.
Fuori
trema la terra di lievi sospiri.
Dal buio alla luce,
le tue palpebre d’oro,
si apre e si schiude la bocca
un migrare di sillabe mute.
Lontano,
riposa il corpo stremato,
l’occhio non dorme,
fame, sete, scintille.
Tutto il presente in un punto
fisso
il passare dei giorni.
Fuoco di viscere in fiamme,
il sangue su palmo di mani,
foglie di rami sugli occhi.
Viene il futuro all’indietro
cieco
su strade di fame.