A Giovanni

Maledetti noi
mostri a due teste,
con una bocca annunciamo la pace
e con l’altra succhiamo avidi il sangue dei poveri.

Maledetti  noi
demoni a due facce
su di una, lacrime di vetro
e sull’altra il ghigno feroce dei forti.
Vuoto è il torace, deserto
custode del nulla.

Beati  gli esseri umani
di parole lievi e mani operose,
beate le labbra dei muti,
con gli occhi consolano
e offrono il corpo alla fame dei deboli.

Beati i ribelli
di gambe veloci,
beato è chi esagera!
Beati coloro che vanno dove non devono
e voltano le spalle al buon senso.
Beati coloro che infrangono gli argini.

Beata la terra bagnata dal sangue dei giusti
come gambe di donna nel giorno del parto.
Beato l’urlo della madre,
il dolore che spoglia i violenti,
esposti allo sguardo del mondo
lavate la vostra vergogna con scuse di fango.

Finita è l’attesa,
dal salvatore è giunta la morte.
A mani nude scaviamo la polvere,
cerchiamo con occhi ciechi di pianto
la vita che sgorga dal buio.

 

 

Sulle rive di confine

(foto di  Hiroshi Sugimoto)

(foto di Hiroshi Sugimoto)

Vita mia,
non piangere, te ne prego. Non è tutto perduto. Tutto deve ancora cominciare. La notte crede di aver vinto, le tenebre assistono mute alla nostra discesa, lenta, nel ventre del mare, ma non è finita.

Io ho i tuoi occhi impressi ovunque nella mia carne e se pure i pescecani mi faranno a brandelli, tu resterai tutta intera con i tuoi occhi in ogni frammento di me. Lo so che t’avevo promesso un futuro migliore, giorni di pane e notti d’abbracci, al sicuro, Lo so. Ce l’ho messa tutta, te lo giuro amore mio. Sapevo di dover stare attento lungo la traversata, di dovermi guardare da tutti, perchè paura, fame e disperazione strappano dagli uomini il cuore, trasformando in nemici i fratelli. Ma il mare…dal mare non ci si può difendere: durante il giorno è luce accecante, che confonde la mente e brucia gli occhi e la notte è come un mostro nero con la bava alla bocca e le sue onde sono artigli da cui non si può fuggire.

Non stare in pena per me, qui sotto siamo in tanti, non patirò solitudine e disperazione, no. Della disperazione e della solitudine ho svuotato i serbatoi del mondo nei minuti che hanno preceduto la mia morte: le urla e il buio e la consapevolezza di essere arrivato troppo presto al capolinea del mio viaggio, senza di te. L’acqua fredda e il sale e l’angoscia del corpo che non sapeva cosa fare, le mani ad afferrare il mare; stringevo forte i pugni, amore, ma il mare scappava via ed io scivolavo, sempre più a fondo, in un silenzio senza appigli. Ero così stanco…ma pensavo a te, alle tue mani e al sorriso, alla prima volta che abbiam fatto l’amore, in fretta, prima che la guerra raggiungesse il nostro letto e rapisse la nostra giovinezza. Il pensiero di te mi ha reso lieve la morte, perchè la morte solo dell’amore ha paura.

Adesso cammino con le mani in tasca dentro al blu di questo cimitero fra Africa e resto del mondo e se alzo lo sguardo vedo uomini bianchi dalla faccia dura. Poveri uomini sazi, che mangiano tre volte al giorno, che non conoscono i rumori della guerra, che litigano seduti sulle poltrone degli studi televisivi. Il loro cuore è marcio ed emana cattivo odore, sono morti e puzzano più di 700 cadaveri corrosi dal sale. Poveri uomini bianchi, l’ignoranza ha rubato loro il mare e ogni volta che lo guarderanno uno dei nostri corpi salirà a galla per turbare la festa e le nostre facce senza naso e bocca, le nostre mani scure usciranno fuori dal ventre dei pesci a macchiar di sangue le loro tavole imbandite. Tu, invece, vita mia dolcissima, un giorno porterai i nostri bambini sulle rive di confine e dirai loro che in quel mare, fra le correnti e i fondali di corallo il loro papà li ha amati fino alla fine. Così il mare sarà per gli uomini e le donne dell’altra velenosa sponda segno di orrore e vergogna e per noi, invece, memoria di lotta e libertà.

Si credono forti e potenti, le loro donne hanno labbra morbide e capelli di seta, giocano con la vita e temono la morte come il peggiore dei mali. Come giocolieri fanno ruotare in aria le parole e confondono verità e menzogna, dignità e vergogna e non sanno nulla di noi. Non sanno che sulle tue labbra ruvide di sole e di deserto io ho trovato la forza di sfidare la morte, non sanno che nei grumi di polvere tra i tuoi capelli io mi sono ubriacato di vita e di speranza. Si consolano gli uni gli altri dicendo con occhi bassi e voce severa: “Cosa potevamo fare noi?”. Sono convinti che il loro buon Dio li assolverà, che non gli accadrà nulla. Ma non sanno che il loro Dio cammina qui con noi sui fondali del Mediterraneo e che il giudizio sarà senza misericordia per tutti coloro che non hanno avuto di noi misericordia.

Vita mia, luce dei miei occhi, che illuminerai per sempre il buio di questi abissi, la nostra, la mia morte non è la fine di tutto, io veglierò, insieme ai miei compagni di sventura assisterò al crollo del mondo antico, alla rovinosa frana della loro arroganza. Hanno seminato ignoranza, indifferenza e morte e il frutto che ne verrà sarà veleno ad ogni morso, cadranno così, a poco a poco. Quel giorno amore mio, te ne prego, apri il tuo cuore, salvali, abbi pietà.

Collera e Luce

© Francisca Yáñez, Ana (Starry Night)

© Francisca Yáñez, Ana (Starry Night)

Io non dormo, ma è colpa mia. Sotto la luce fioca delle mie notti leggo un libro di fuoco che toglie il sonno. S’intitola “Collera e luce” e lo ha scritto Paolo Dall’Oglio.

È un libro che brucia le dita ad ogni giro di pagina e, forse, il fatto che l’autore sia stato inghiottito dalla guerra siriana rende ancora più difficile sostenere la lettura. Impressiona  l’assenza di retorica. Nulla. Neppure una briciola. Né retorica, né prudenza. Paolo non compie il minimo sforzo per rendere le sue parole accettabili e condivisibili, esse sono piuttosto come i coltelli dei lanciatori al circo, ma la bravura di Paolo non sta nello scansare il bersaglio bensì nell’infilzarne il cuore. Scrive con la forza di chi ha condiviso il cammino sofferto e tortuoso della rivoluzione siriana, chiama Bashar al Assad “assassino” e accusa senza remore la comunità internazionale di aver abbandonato il suo popolo; descrive le minoranze della società siriana, le attese della gente comune, i sogni dei giovani, racconta nei particolari più crudi lo scorrere dei giorni stretto nella morsa di una dittatura crudele ma furba a tal punto da prendersi gioco di tutti, degli stessi siriani, del mondo intero.

Di se stesso descrive il travaglio tragico, il mutare del cuore davanti alla morte sempre imminente, quella lenta e radicale metamorfosi del pensiero e dei sentimenti di fronte all’oppressione, alla violenza, alla paura. Come giganti dai piedi d’argilla le prese di posizione “per principio” vanno in frantumi, le teorie, i dogmi si sbriciolano, perfino il buon senso, spesso, non è sufficiente a cogliere e scegliere il bene ed il bene cambia faccia, a seconda delle circostanze e i valori assoluti abbandonano i tratti rigidi e netti per assumere la forma del corpo dei giovani, delle donne, dei bambini massacrati dal regime, il colore del sangue offerto dai siriani per la libertà. Non fa sconti Paolo, alla complessità della vicenda: la Siria è divenuta il fronte di molte, troppe guerre; davanti a tale complessità l’occidente ha abdicato, trasformando quel territorio in una porzione d’inferno e sacrificando un intero popolo sull’altare degli interessi economici e politici dei singoli stati.

Ieri sera, prima di (non) dormire, ho letto il capitolo che Paolo dedica alla descrizione delle torture. Le parole scorrevano sotto i miei occhi e il mio cuore non provava nulla. Così, insensibile, ho spento la luce e chiuso i miei occhi, aprendomi al buio. Questa mattina, al risveglio, ho capito cosa aveva pietrificato il mio cuore: l’attesa. Si, mi sono resa conto che nella sofferenza sia fisica sia morale, spirituale o psicologica, s’impone la presa di coscienza del bisogno e l’attesa che qualcuno/qualcosa venga a sollevarci dal dolore, che qualcuno si addentri nel perimetro della nostra vita, mettendosi con noi alla ricerca di una soluzione. Quando è il corpo a patire sappiamo cosa fare, chiamiamo un medico, corriamo al pronto soccorso, quando invece la sofferenza è ormai cronica o d’altra natura, allora è più difficile capire a chi rivolgerci e spesso rimaniamo muti e smarriti, ancorati alla speranza che qualcuno ci raggiunga lì dove ci siamo perduti. Ecco, è sul palcoscenico dell’assenza che il dramma della Siria si sta svolgendo. Ieri, leggendo del giovane violentato e crocifisso nelle prigioni di Assad o di quell’uomo ucciso dai militari perché il suo volto torturato e sfigurato era divenuto insopportabile alla vista dei suoi stessi aguzzini, immedesimandomi nella donna arrestata mentre portava il pane ai partigiani del suo popolo, stuprata, torturata e uccisa, ho capito cosa significhi per la Siria la mia, la nostra assenza. Fossi stata io quel giovane, quell’uomo, quella donna, fossi io un bambino affamato nel campo profughi assediato dall’Isis, fossi io anziana e sola, senza casa, servizi igienici, conforto, fossi io, pregherei in ogni istante di veder arrivare qualcuno, cercherei fra le macerie l’orizzonte, lo fisserei, aspettando, aspettando. E non vedendo arrivare nessuno? Forse lascerei al rancore il permesso di divorarmi il cuore, mi nutrirei di rabbia e rassegnazione, forse smetterei di seppellire i morti, forse impugnerei le armi per farmi giustizia. O forse no, magari reagirei alla tragedia cercando di costruire ovunque piccoli istanti di pace, sorriderei senza alcuna logica ai miei bambini affamati, nutrendoli di fiducia e coraggio davanti alla morte imminente. Sotto le macerie della mia casa e della mia vita potrei ancora parlare di libertà? Sognare per la mia terra un futuro di pace?

Guardo con preoccupazione alla polemica sempre imperante nel nostro paese, al tentativo di cercare in ogni cosa il marcio per sabotare gli slanci generosi di bene, la memoria delle lotte, ogni speranza nel domani. L’incoerenza della vita e della storia ci paralizza, le contraddizioni risucchiano la forza, non riusciamo a tenere insieme ciò che vorremmo essere con quello che realmente siamo, vorremmo estirpare da noi quello che ci ferisce e ci stanca, guardiamo con sospetto ogni lato oscuro che ci abita senza  lasciarci  attraversare dal dubbio che lì, nella penombra del non conosciuto, possa celarsi una risorsa invece di una ferita. Quale politica salverà la Siria io non lo so, se Paolo farà mai ritorno a casa, io non lo so, cosa si possa fare per quel popolo abbandonato ai demoni e agli spettri che noi stessi abbiamo creato, io non lo so. Quello che posso fare, però, è dilatare i confini della mia attesa, far spazio alla speranza dei siriani nella mia quotidiana speranza e chiedermi, senza posa, finché avrò luce agli occhi e fiato e collera per il cuore: Da dove arriverà l’aiuto?

(Paolo Dall’Oglio, Collera e Luce. Un prete nella rivoluzione siriana, EMI, Bologna 2013)

Le altre parole

(foto di Mike Brodie)

(foto di Mike Brodie)

“Voci ovunque”. E’ la mia personale definizione che descrive l’esperienza del fatidico ricevimento dei genitori. Ascolto la voce di chi sta parlando con me, la mia che rispondo, quella delle colleghe, della folla davanti alla porta dell’aula, a turno, le voci dei ragazzi rimasti di sotto in cortile. Parliamo tutti, tutti abbiamo qualcosa da dire, ridire, chiedere, rimproverare. “La parola all’accusa! La parola alla difesa!”.

Eppure queste voci che si diffondono ovunque sono una piccola parte dell’intero processo di comunicazione. Piccola davvero. Ognuno dei docenti sceglie un angolo dell’aula e si dispone come su un ring per sferzare e parare ogni tipo di colpi: oggi si consegnano le schede intermedie, una specie d’avviso alla popolazione perché chi sta per affogare abbia  il tempo di cercare un appiglio di salvezza e chi dall’inizio dell’anno rema con fatica possa vedere all’orizzonte la ricompensa della riva. Un foglio bianco come uno schema della battaglia navale, l’elenco delle materie e la fasce di voto: scarso, insufficiente, mediocre, sufficiente, discreto, buono e ottimo! E poi un pugno di “X” che sembrano sparse a caso: Acqua! Colpito! Affondato!

“Prof. glielo spiega a mia madre che questa non è la pagella?! Che ancora posso essere promosso? Per favore!”. E’ grande e grosso ma ha solo quindici anni. La sua famiglia viene da un paese davvero lontano, ma lui è nato qui. Il paradosso è che sua madre comprenda a stento l’italiano mentre il dialetto siciliano del figlio farebbe invidia ai venditori ambulanti del mercato di Ballarò. E’ un ragazzo sveglio, con grande senso dell’umorismo, ed è anche campione mondiale di pigrizia. Noi lo sappiamo, lui lo sa. Dopo pasqua comincerà la sua folle corsa, sarà rimandato in due, tre materie, passerà l’estate con la paura d’esser bocciato, proverà a studiare qualcosa, ma vincerà la voglia di mare e vacanze, noi a settembre lo aiuteremo a superare gli esami di riparazione e ricomincerà la giostra.

“Salve io sono l’educatrice di V., come va? Cosa mi dice?. V. abita in una casa famiglia. Ce lo ha detto lei candidamente, durante il giro (odioso!) delle presentazioni, dal quale nessuno scampa il primo giorno del primo anno di ogni nuovo ciclo di scuola; lo ha detto come se stesse comunicando di avere, chessò io, una bicicletta o un cane: “Si, io sono V. ho 14 anni e siccome non ho nessuno vivo in una casa famiglia, mi piace ascoltare musica e uscire con gli amici”. Ci sono giorni in cui la sua faccia diventa buia e lei è lì, seduta a pochi centimetri da me, ma irraggiungibile.

Io non andavo mai al ricevimento dei genitori con mia madre, soprattutto al liceo, tanto sapevo cosa le avrebbero riferito, lo stesso ritornello per anni: “Giulia ha molte capacità, ma studia soltanto le materie che le piacciono!”. Ancora oggi che sto dall’altra parte della barricata trovo che la loro lamentala fosse di una banalità irritante. Ancora oggi per me la strategia di studiare e prendere voti alti nelle materie che piacciono e la sufficienza appena risicata in quelle che non interessano, sinceramente, mi pare assai sensata. I miei alunni, invece, vengono praticamente tutti e, giuro, certe volte sembrano loro ad accompagnare i genitori. Il giorno del ricevimento ci si rende conto del perché alcuni ragazzi sembrano avere il mondo sulle spalle. E’ perché ce l’hanno davvero, accidenti! Ci sono madri e padri che sembrano fantasmi. La loro inconsistenza fa sobbalzare lo stomaco come quando si va giù veloci sulle montagne russe: “Signora guardi che c’è ancora da ritirare la pagella del primo quadrimestre! Abbiamo provato a chiamare, ma non ha risposto mai nessuno”, e dici queste cose cercando uno sguardo che non si fa incontrare mai, neppure se ti guarda dritto negli occhi. Alcuni genitori sono talmente fantasmi che al ricevimento i ragazzi arrivano con i nonni. E te lo dicono che sono i nonni con una voce a metà tra orgoglio e vergona, si presentano appena ma tutto il loro corpo e il modo in cui ti fissano sembra esclamare: “E non dovremmo esserci qui noi cazzo! E però ci siamo!”. Qualcuno con voce tremante ti confida che la figlia ha fatto due bambini con un disgraziato che ora è in galera e “speriamo che ci resti!”. Già. E mentre cerco di piantare bene i piedi a terra per rimanere salda sotto le raffiche di dolore che mi arrivano addosso, mi volto verso la ragazza che sta lì e mi guarda. L. ha due occhi blu di una luminosità imbarazzante. Chissà quante volte l’ha sentita questa storia del disgraziato di suo padre. Le sorrido, mi sorride e intanto non riesco a non chiedermi quale sia, in mezzo al casino in cui vive, la fonte dalla quale attinge la sua luce.

Stringo un’infinità di mani. La stretta di mano dice molte cose; di quelle ruvide, lo confesso, mi fido di più che delle mani lisce e morbide. Una signora, oltre ad avere palmi che graffiano possiede pure due centimetri di ricrescita bianca su una tinta nera fatta male e un sorriso sincero. Arriva dall’estrema periferia di Palermo, ma anche lei l’italiano lo parla a fatica. Oggi è contenta, però, perchè D. è migliorato e, infatti, tira un sospiro di sollievo che sembra possa alleggerire il mondo intero. Anche D. sorride, ha una montagna di ricci in testa color miele che esplodono in ogni direzione, portatori di una vita che non sa ancora dove andare e cosa fare, ma c’è.

Infine, arriva il teppistello della classe, quello che durante le lezioni esce per andare in bagno e torna dopo mezz’ora, quello che se ne frega di te e di quanto rappresenti, che ai rimproveri reagisce sghignazzando. Arriva scortato da padre e madre. Non ha, adesso, un atteggiamento di sfida, no. Guarda a terra. Sua madre mi confida di aver infilato nello zaino del figlio l’immaginetta con la preghiera dello studente: “Ma niente prof., non ha funzionato”. Il padre è un gigante grande e grosso e mi dice che quando arriveranno a casa gli farà vedere lui. Le “X” del suo foglio non sono sparse a caso, un po’ qui, un po’ lì, sono tutte incolonnate, solenni e gravi, come un corteo funebre sotto la voce “scarso”. Suo padre ringhia, sua madre dispera e mentre io osservo gli occhi del ragazzo piantati sul pavimento penso che, quasi quasi, non lo rimprovererò più quando mi sghignazzerà in faccia perché tutti, in fondo, abbiamo diritto ad una qualche forma di riscatto.

Mentre le voci cominciano a diradarsi e dalle finestre dell’aula esposta a ponente arriva la luce dei primi tramonti di primavera, io raccolgo pian piano i miei fogli e con essi i pensieri. Rifletto, stanca fino alla nausea, sul fiume di parole nel quale ho navigato tutto il giorno, a lezione prima e al ricevimento poi. Ripenso a tutti i discorsi, ma mi rendo conto di aver memorizzato molto di più gli sguardi e le strette di mano, i sorrisi e le facce tese. Richiediamo studio, ordine, impegno in mezzo al caos e al dolore, alle vita in frantumi e  alle preoccupazioni più nere, e anche lì dove invece, grazie a Dio, la vita procede più serena, non troviamo mai il tempo di capire dentro le persone, veramente, cosa c’è. Potremmo parlare per ore, ininterrottamente, provare a spiegare, a nascondere, a giustificare, ad accusare, ma la scuola, come la vita mi appare una pianura che si distende a perdita d’occhio dove aspettiamo, tutti, di veder fiorire, prima o poi, le altre parole, quelle seminate ovunque sul corpo, quelle che ci passano tra le dita come grani d’un rosario muto, le parole tutte bagnate sulle labbra o secche in gola, quelle che ci abitano addosso e che per esser dette e divenir compiute serve soltanto che qualcuno come noi, in carne, sangue e parole non dette, veramente, ci guardi.

Sparisci, donna!

Aveva 27 anni e si chiamava Farkhunda. Chissà cosa vuol dire il suo nome.

E’ sulle prime pagine del giornale, oggi. Domani nessuno si ricorderà di lei. I nostri quotidiani somigliano a laghi pescosi, i fatti di cronaca si accalcano in superficie, sono numerosi, saltano su, si fanno acchiappare, entrano nelle nostre case, sfiorano i pensieri e poi ripiombono, giù, fra le acque fangose e torbide delle nostra memoria ammalata.

L’Afghanistan è lontano. E’ polveroso. E’ misterioso. Conoscerlo è difficile, capirlo è fatica. Nascere in quella terra moltiplica il peso del vivere ed essere donna in quella terra è come non nascere. Farkhunda era afghana ed era donna. I giornali dicono che soffrisse di problemi psichici, ma non specificano quali. Non lo sanno. La malattia di Farkhunda non ha nome o diagnosi. Essere una donna e non potersi difendere era già una maledizione sufficiente.

L’hanno accusata di aver bestemmiato il Corano, o di averlo bruciato. Qualcuno degli uomini ha incitato la folla e l’hanno picchiata fino ad ucciderla. Uomini inferociti contro una donna disarmata. Dopo averla uccisa ne hanno bruciato il corpo: “Sparisci Farkhunda, spairisci! Incenirisci sotto il nostro odio, brucia donna!”.

Farhunda era innocente.

La sua bara è stata portata in spalla da un gruppo di donne. In Afghanistan non succede mai. Neppure da noi succede mai. Ma l’Afghanistan non è lontano?

In Italia viene uccisa in media una donna ogni due giorni. La maggior parte di esse muore per mano del marito o del compagno: “Mi vuoi lasciare? Ami un altro? Non vuoi fare sesso? La pasta è scotta? Sparisci donna, incenirisci sotto il mio odio!”.

Ma noi non siamo l’Afghanistan. Non c’è polvere sulle nostre strade. E non mettiamo a morte nessuno che bestemmia la Bibbia.

“E meno male che so’ di clausura! Sorelle tenimmo che ffa”. Lo ha detto, infastidito, con sarcasmo, il cardinale Sepe alle monache di clausura di Napoli che hanno circondato con entusiasmo papa Francesco durante la sua visita. Troppo entusiasmo, hanno commentato tutti. Perché c’è entusiasmo ed entusiasmo, si sa.

Nessuna indignazione. “Perché cosa è successo? Era una battuta! Ma quanto sei esagerata donna! Adesso non si può più scherzare?! Hai visto? Hai sentito? Hanno riso tutti! Ma con i problemi grossi che ci sono…ma lascia stare!”. (dedicate qualche secondo a questo video, se potete, per favore http://tv.ilfattoquotidiano.it/2015/03/22/papa-a-napoli-suore-di-clausura-scatenate-sepe-e-meno-male-che-so-di-clausura/352303/)

Noi non siamo l’Afghanistan.

Silenzio.

Raggiungimi

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Foro Italico, Palermo

Non c’è pace senza pietà

Aleppo, 20 settembre 2012. Foto di Manu Brabo Al povero stendi la tua mano, perché sia perfetta la tua benedizione. La tua generosità si estenda a ogni vivente e al morto non negare la tua grazia. Non evitare coloro che piangono e con gli afflitti mostrati afflitto. Non indugiare a visitare un malato, perché per questo sarai amato. In tutte le tue opere ricordati della tua fine e non cadrai mai nel peccato (Siracide 7,32-36).

In seguito Gesù si recò in una città chiamata Nain e facevano la strada con lui i discepoli e grande folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco che veniva portato al sepolcro un morto, figlio unico di madre vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore ne ebbe compassione e le disse: «Non piangere!». E accostatosi toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Giovinetto, dico a te, alzati!». Il morto si levò a sedere e incominciò a parlare. Ed egli lo diede alla madre. Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi e Dio ha visitato il suo popolo». La fama di questi fatti si diffuse in tutta la Giudea e per tutta la regione (Lc 7,11-17).

Al povero stendi la tua mano (Sir 7,32). Il verbo ἐκτείνω, scelto dall’autore di Siracide, è il verbo utilizzato per indicare il movimento della mano stesa, tesa a raggiungere chi sta di fronte. Il Siracide invita a non evitare il contatto, a non restare “dietro” coloro che piangono, ma a porsi di fronte per portare insieme il peso dell’afflizione. La prima preoccupazione non è quella di trovare una soluzione, ma quella di condividere una condizione, di accorciare il perimetro della solitudine attorno a chi soffre. Avere pietà vuol dire sconfiggere la pigrizia, il testo di Siracide usa proprio ὀκνέω, il verbo dell’indugio causato da preoccupazione o prudenza, dalla pigrizia e dal timore per se stessi, il rallentare del passo frenato dalla paura. A questo verbo si contrappone ἐπισκοπέω “fare visita”, usato nella Scrittura per indicare Dio che visita il suo popolo. É il farsi presente del Signore. Gli evangelisti lo pongono in bocca alla gente che segue Gesù e che vede e riconosce nel suo dire/agire la vicinanza di Dio: «Un grande profeta è sorto tra noi e Dio ha visitato il suo popolo» (cfr. Lc 7,16). Gesù stesso al cap. 25 del vangelo secondo Matteo lo utilizza per coloro che visitano i carcerati e sfamano gli affamati senza neppure immaginare di stare facendo qualcosa per Dio: «Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (cfr. Mt 25, 37-40). La pietà, infatti, nasconde la presenza del Signore, la custodisce senza pretendere che venga svelata, essa si fonda in prima istanza sul riconoscimento dell’uomo nell’uomo, nel poter scorgere in chi sta di fronte “un altro come se stesso” (cfr. Calogero Peri, L’uomo è un altro come se stesso, Salvatore Sciascia, Caltanissetta-Roma 2002).

Nel testo del vangelo Gesù non solo si ferma davanti al dolore, ma si fa raggiungere da esso. La donna, segnata da doppio lutto, piange nel figlio la perdita della concretezza dell’amore. I suoi due termini relazionali, il marito e il figlio le sono stati sottratti dalla morte e lei piange il vuoto irrimediabile dell’assenza. Tra il vuoto e la donna, però, ecco che si frappone la potenza insita nell’incontro, una potenza rigeneratrice che non sta soltanto nel fatto di ritrovarsi insieme nello stesso luogo quanto nel mettere in atto l’esserci per l’altro. Gesù καὶ ἰδὼν αὐτὴν “vedendo lei” – dice il testo – ὁ κύριος ἐσπλαγχνίσθη ἐπ’ αὐτῇ (cfr. Lc 7,13). La vista dell’altro provoca in Gesù qualcosa, un movimento delle viscere. Il pianto della donna arriva al, meglio, nel corpo di Gesù. Non è una commozione del cuore o una presa di coscienza razionale della difficoltà dell’altro. Questi elementi devono pure esserci, ma ciò che spinge all’azione è il corpo nel quale l’altro si fa presenza. E il corpo non dimentica. Rielabora, risignifica, ma non dimentica. Il movimento delle viscere, sottolinea l’evangelista, è “su di lei”, quasi ad indicare plasticamente un piegarsi di Gesù sul dolore della donna: “non piangere”, le dice.

Il brano continua raccontando di Gesù che “tocca” la bara del figlio. Nei vangeli Gesù stende la mano per toccare e guarire, per afferrare, per raggiungere, per creare contatto. Gesù, durante gli anni della sua predicazione, tocca continuamente e chiunque, soprattutto gli intoccabili secondo la società ebraica del tempo (lebbrosi, prostitute, peccatori), lo fa con la mano tesa, sopratutto, ma anche con la bocca, perfino con la saliva (cfr. Mc 7, 31-37) oltre che con lo sguardo. Tocca e si fa toccare. In questo brano Gesù tocca la bara del figlio della donna e gli parla, e il ragazzo si solleva e comincia a parlare a sua volta. È importante questo particolare: la parola è la forma principale della comunicazione e, dunque, della relazione. Gesù restituisce alla madre il figlio vivo e parlante. Dona lui a lei, viene ristabilita la potenzialità dell’avere qualcuno “di fronte”.

La pietà, allora, si configura come movimento delle viscere che ci fa capaci di vedere l’altro e, soprattutto, di vederci nell’altro, di scoprire in chi ci sta di fronte qualcosa che ci appartiene, come realtà in atto o come intuizione e possibilità. Ma può accadere che la pietà non nasca spontaneamente, anche in questo senso si può scorgere la sua esigenza di reciprocità. Non è soltanto la capacità di “accorgersi”, la pietà sta anche nel bisogno che diventa invocazione, grido, nel desiderio quasi disperato d’esser visti, nella solitudine divenuta oramai insopportabile che si trasforma in consapevole richiesta d’aiuto: “Guardami Signore, volgi i tuoi occhi verso di me, accorgiti che esisto, renditi conto della situazione in cui mi trovo e agisci! Fa qualcosa per me”, sembrano dire i salmi: Pietà di me, Signore: vengo meno;risanami, Signore: tremano le mie ossa (Sal 6,3); Abbi pietà di me, Signore, vedi la mia miseria, opera dei miei nemici, tu che mi strappi dalle soglie della morte (Sal 9,14); Volgiti a me e abbi misericordia, perché sono solo ed infelice (Sal 24,16); Ascolta, Signore, la mia voce. Io grido: abbi pietà di me! Rispondimi. (Sal 26,7). Chiedere pietà è domanda di una presenza attiva, quasi un richiamare l’altro alla propria identità di custode (cfr. Gn 4,9), è una dilatazione dell’essere che diventa senza dis-perdersi: “esserci per”. È la verbalizzazione di una speranza, l’esigenza gridata di un bisogno.

Ciò che sconvolge nei conflitti di cui siamo oggi spettatori più che testimoni è proprio l’assenza di pietà, la negazione del riconoscimento reciproco, sostituito dalla ferocia, dalla perversione delle fedi, dalla putrefazione delle ideologie. Forse uno dei mille motivi per cui questo avviene risiede nel fatto che per poter riconoscere se stessi negli altri bisogna prima avere occhi capaci di posarsi con pietà su se stessi. Avere pietà di se stessi è la capacità di guardare con speranza alle personali zone d’ombra, è toccare la propria piaga, è rendersi conto, è decidersi per la cura, sempre. Anche davanti allo sgomento provocato dalla consapevolezza di aver mancato il bersaglio della nostra vita. Può succedere, e bisogna imparare a fare i conti con tutte le gradazioni del fallimento e del dolore, così come del successo e della gioia.

Mi pare importante, infine, fare una distinzione tra il termine “conflitto” e il termine “guerra”. Il conflitto è l’urtare di una cosa con un’altra, l’inevitabile scontro fra ciò che fuori e dentro di noi si trova in contrapposizione e ha come fine intrinseco ed esito finale lo stabilirsi di nuovi equilibri; la guerra, invece, possiede come fine intrinseco la vittoria, la supremazia da raggiungere attraverso l’eliminazione dell’altro, a qualsiasi prezzo. La guerra è l’opposto della pietà. La pace, allora, può essere forse costruita attraverso l’esercizio della pietà come grido che avviene in noi stessi e che ci rende abili a percepire e intendere il grido dell’altro. La pietà è rimedio alla paura provata nei confronti di ciò che siamo, di ciò che abbiamo fatto o anche nei confronti di ciò che c’hanno fatto e che muta il nostro sguardo trasformando l’altro in nemico, in colui che ha potere d’aggiungere dolore a dolore. In una delle pagine più belle scritte da Paolo Dall’Oglio (http://www.popoli.info/EasyNe2/Idee/Abbattere_i_muri.aspx), egli utilizza parole schiette e dure, ma molto vere e drammaticamente attuali: «È ora d’inoltrarsi in spazi di empatia inesplorati. Opposti fondamentalismi ci costringono ad abbattere il muro d’odio: etnico, nazionale, dogmatico, misogino, omofobico, schifato delle povertà indecenti, odio di se stessi in nome della natura, della norma, dell’ordine sacro e maschio». La pietà, invece, ristabilisce l’equilibrio, ricuce lo strappo relazionale e restituisce ciascuno di noi, vivo e parlante, nelle mani del fratello.

Libera gioia

(opera di Egon Schiele)

(opera di Egon Schiele)

Fortuito sfiorarsi di gomiti
nel pomeriggio afoso di giugno,
accende di scintille la notte.

Raccolgo a mani nude
briciole di fuoco,
una dopo l’altra
nel rincorrersi furioso del buio.

L’eco di cavallerie avanza
blatera a ritmo, la morte
ma l’ombra si dissolve,
codarda
fronteggiare non sa
con lame e parole
il perdurare fisso di uno sguardo.

La vita s’arrampica sulle rovine
rinverdisce lenta
le pietre una ad una perdono pallore.
Gomito a gomito
braccio a braccio
mano a mano
le tenebre sudano,
la fatica, la resa.

Sulla terra striscia
l’amore
di polvere e sangue
si libera gioia
dai corpi
e svuota di ombre e potere
gli antichi sepolcri.

“Lungo i sogni che ho patito”

 

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E sarà di gioia, l’ultimo canto
un sibilo affilato di luce.

Piccole schegge sparse ovunque

(foto di Beth Moon)

(foto di Beth Moon)

E’ successo ieri sera, mentre spegnevo la luce su una giornata piena di pensieri. All’improvviso. Mi sono ricordata di una cosa vista ogni giorno per molti anni e incredibilmente dimenticata per altrettanti.
Avuta sotto gli occhi da sempre, quotidiana, ordinaria. Non ho idea di come abbia fatto a non pensarvi durante tutti questi anni e neppure so perché me ne sono ricordata adesso.

Mia nonna portava al collo un ciondolo, un ciondolo con la fotografia di suo marito. Mio nonno cioè. Un primo piano, in bianco e nero. E anche mia nonna era in bianco e nero, il bianco dei capelli, intrecciati pazientemente ogni mattina e il nero del lutto, segno di un dolore che non si vuol dimenticare.
Mio nonno era più grande di lei di ben dieci anni. Era ordinario allora: “Il maschio 28, la femmina 18” – diceva lei. Della loro storia non so praticamente nulla, perché non gliel’ho mai chiesto. Ero troppo piccola finché c’è stata. So che si volevano bene, me lo dice mia mamma, so che quando erano sposini mangiavano un chilo di pasta in due: “E non ingrassavamo mai” – aggiungeva sempre la nonna, con una punta di orgoglio e nostalgia. D’ingrassare non c’era il tempo: la guerra, il lavoro, lui in campagna, lei a casa con l’acqua da riempire alla fontana e un paese fatto a scale, da arrampicare. So che andavano a braccetto fino al seggio, poi lui votava il partito comunista e mia nonna la democrazia cristiana e di nuovo abbracciati verso casa.

Oggi, ripensare a quella foto che portava addosso ogni giorno e ogni notte per i ventanni della sua vita senza di lui, è un ricordo che mi stordisce. Il fatto è che, adesso, io le domande ce le avrei e forse sarei anche in grado di ascoltare le risposte, di capirle, intendo. E’ che l’amore, più di altre dimensioni di questa complessa cosa che è l’esistenza, diventa fortissimo quando viene raccontato, non quando viene visto, desiderato, cantato, celebrato, consacrato e neppure quando è detto, che fra dire e narrare c’è una bella differenza. Dell’amore si dicono molte cose, infatti. Dire l’amore è come cercare di centrare un bersaglio in movimento. Non per niente l’amore, tra tutti i verbi possibili, predilige il “fare”. Ma al racconto l’amore si piega,  forse perchè la narrazione non esiste se non quando si passa attraverso la vita,  in mezzo, magari temendo di non riuscire a venirne a capo.

L’amore.

L’amore, io l’ho visto, mi pare, ma non  so se ci ho girato attorno o se mi ci son persa dentro: l’amore impossibilie, l’amore platonico, l’amore vicino ma assante, l’amore assoluto, di gran lunga l’esperienza peggiore. Ma l’amore da tenere al collo fino alla morte, forse non lo so cos’è e forse per questo mi sono ricordata del ciondolo della nonna e di quel primo piano in bianco e nero. Lo baciava al mattino, al risveglio, e la notte, prima di dormire. E adesso io vorrei tanto che mi raccontasse di lui, di quando lo salutava all’alba e di quando lo attendeva, al tramonto, della gioia della sera e di tanti quotidiani ritorni, dell’amore che c’è e che resta sempre perfino quando la morte si mette in mezzo.

Adesso che sento repulsione per ogni teoria, qualunque siano le sue argomentazioni e qualunque forma essa assuma, adesso l’amore lo vorrei così, frantumato, piccole schegge  sparse ovunque: come lievito nel pane impastato a spinta di polsi, come residui di cenere ad imbiancar le lenzuola, come fili che tessono l’abito della festa, come parole nell’aria sull’uscio di casa sul far della sera. Mia nonna cantava sempre. Melodie di campagne innevate che le rendevano meno amaro, forse, il suo esilio in città. La morte del nonno è stata la fine di molte cose per lei. L’inizio di una vita in una città non sua, dove la figlia da amare e le nipoti da crescere sono diventate tutto il suo mondo. Ma lui stava lì, poggiato sul petto, sempre.
Oggi chi non ha qualcosa da dire sull’amore? L’amore non va idealizzato, l’innamoramento – attenzione – non è l’amore! L’amore non è tutto rosa è fiori, si sa. Mia nonna avrebbe crucciato lo sguardo davanti a tutti questi professionisti dell’amore, davanti ai dottori delle leggi che lo governano e definiscono. Forse avrebbe risposto che il nonno le voleva bene, che le portava rispetto. Troppo poco per le nostre consapevolezze moderne? Mi rendo conto, si.

Non è la nostalgia di un’età dell’oro, tra l’altro mai vissuta. E’ piuttosto la rivendicazione del diritto a non dimenticare, il diritto ad avere molta nostalgia delle persone amate e di non sottostare alla legge del chiodo schiaccia chiodo o dei portoni che si spalancano inghiottendo le porte chiuse. Vorrei avere un cuore dove le porte chiuse restano lì, chiuse ma presenti, magari con un bel rampicante fiorito che ci cresce addosso. Rivendico il diritto ad una nostalgia esagerata che cammina dritta dritta sullo stesso binario del presente, senza impedirmi di andare avanti e senza impedirmi di voltarmi ogni volta che vorrò farlo. Rivendico il diritto all’esistenza per il mio cuore tortuoso dove la vita non scorre fluida, lasciando a secco alcune zone e paludose molte altre. Rivendico davanti all’amore il diritto di coltivare la mia propensione alla solitudine senza sensi di colpa o frustrazioni. Rivendico il diritto di amare chi non mi ama o chi pur amandomi non vuole o non riesce a restare. Rivendico il diritto di sentirmi molto molto innamorata salvo poi scoprire che non era davvero così, senza disperazione. Rivendico davanti al buon senso il diritto di credere possibile quanto non lo è, sognando ad occhi aperti, il diritto di commuovermi al pensiero che quella persona lì esiste davvero, il diritto a morire d’amore per un fugace sfiorarsi di mani. Se è l’esperienza a suggerirmelo, rivendico il diritto di capovolgere ogni legge, voglio poter dire: innamorarmi è stato molto più difficile e doloroso che amarlo per tutta la vita al mattino quando lascia in disordine il bagno!

Una foto in bianco e nero sul petto silenzioso di una donna riemerge nella mia memoria come la possibilità di amare a modo mio. Forse non me ero dimenticata, forse aspettavo soltanto di capire cosa significasse per me.